lunedì 25 giugno 2018

Rabbia furiosa

Nel 1988 Pietro De Negri, al secolo ‘Er canaro', si rese protagonista del più efferato fattaccio di cronaca nera all'ombra del Cupolone: per porre fine alle vessazioni cui lo sottoponeva un pugile dilettante con il quale intratteneva un'ambigua amicizia, De Negri sequestrò il giovane all'interno del proprio negozio di Toletta per cani e lo sottopose ad una lunga e fatale seduta di tortura e sevizie. A quei tempi Sergio Stivaletti era poco più che trentenne, e aveva già collaborato con i massimi maestri italiani del horror, come Riccardo Freda, Lamberto Bava e Dario Argento (negli anni si sarebbero poi aggiunti, tra gli altri, Michele Soavi e Roberto Benigni). Leggendo sui giornali i resoconti della lunga confessione rilasciata dall'omicida (sconfermata in seguito dall'autopsia), Stivaletti, come lui stesso ha raccontato alla conferenza stampa di presentazione di Razza furiosa, rimase turbato da un dettaglio: dopo averle spaccato le gambe, strappato una ad una le unghie delle mani, e reciso di netto il membro, De Negri sosteneva di aver aperto il cranio della vittima ancora viva e di averle lavato il cervello con il detersivo. ‘Prima o poi devo fare un film con una scena del genere', pensò Stivaletti. Trent'anni dopo, quest'idea primigenia vede finalmente la luce dentro un film che esibisce come pochi altri film italiani la propria originaria natura visiva e ‘cinematografica', nata dal sogno di un'immagine vagheggiata e coltivata ad occhi chiusi per tanto tempo e finalmente realizzata per lo schermo. È in questa ‘sanità' genuina e rigogliosa innervata dell'idea di un cinema artigianale, sanguigno, ‘burino' finché si vuole, ma così drammaturgicamente efficace ed espressivo, che va ritrovato il primato vinto da Rabbia furiosa nel (certamente involontario) confronto con l'altro film ispirato alla medesima vicenda che una singolare casualità ha voluto abbinargli nelle uscite in sala di questa fine primavera 2018: Dogman di Matteo Garrone. Come già ai tempi de Le Relazioni pericolose di Stephen Frears e Valmont di Milos Forman, entrambi tratti da Les liaisons dangereuses di Laclos e usciti a distanza di pochi mesi l'uno dall'altro tra il 1988 e il 1989, è inevitabile, oltre che ghiotta occasione per il cronista, sottrarsi a paragoni probabilmente sgraditi agli stessi autori dei due film. Se Garrone, dicendo di aver preso in prestito la struttura della storiaccia per poi effettivamente allontanarsene tanto da poter tranquillamente rigettare la richiesta dei diritti da parte dei parenti di Giancarlo Ricci (la vittima del canaro), stilizza, astrae, estrapola dal contesto in cui realmente i fatti si svolsero per metterli in scena in un microcosmo d'invenzione ricostruito e fotografato apposta per proiettarlo nella metafisica dimensione di un indistinto Nowhere, Stivaletti non si sposta da Roma, anzi la elegge a teatro unico della storia in una periferia distante dall'originale Magliana, ma cinematograficamente più evocativa come il Mandrione dove fu girato Accattone (rendendo a Pasolini un fugace omaggio in carne ed ossa che sa di tenero e toccante santino). Molto si è scritto e molto ancora si scriverà, tra romanzi, saggi e sceneggiature di opere cinematografiche e televisive, su quanto Roma possa essere diabolica e cinica assassina: difficilmente ci si scorderà in fretta di quel ‘È stata Roma' pronunciato da Claudio Amendola in Suburra di Stefano Sollima, e parecchia sensazione ha destato la recente uscita dell'ultimo libro di Aurelio Picca, Arsenale di Roma distrutta, in cui la Capitale viene dipinta come sfondo livido e glaciale di delitti misteriosi e mai risolti, tragici eventi di un meccanismo ludico votato al massacro originato dallo stesso genius loci. Tradotto in termini di cinema di genere, un genere che oscilla tra il western e il poliziottesco, ripescato nei ricordi di una serie B ancora produttivamente vitale negli anni della prima e seconda giovinezza di Stivaletti, e che precedettero di poco i fatti illustrati nel film, Rabbia furiosa è sostanziato della stessa materia che costituiva l'immaginario dei quotidiani, dei rotocalchi e dei fumetti dell'epoca, scatenato dalla cronaca nera di una città preda di una malavita mai, prima di quegli anni, così esasperata e violenta. E' insomma un cinema popolare, pensato, scritto e realizzato per un pubblico che non cerca le sofisticazioni e gli intellettualismi con cui Garrone ha, almeno secondo chi scrive, attenuato, quando non spento l'efficacia del suo Dogman: un pubblico che da una storia tanto truculenta si aspetta la virulenza che Stivaletti non gli nega, allestendo un finale per stomaci forti ma mai voyeuristico ed esornativamente splatter, catarsi necessaria (evidentemente non per Garrone, che ha scelto invece di chiudere il suo film più morbidamente) per ridonare all'anti-eroe del suo western di borgata la dignità della vendetta.

Ciò non significa che prima di arrivare alla brutalità del finale Stivaletti non si sia prodigato nel restituirci con accuratezza tutti i dettagli di una storia che vede coinvolti molti personaggi, maschere di un palcoscenico organizzato con la mano generosa di chi sa di non doversi risparmiare per toccare il cuore di un pubblico schietto e genuino, come forse oggi non esiste più: il regista romano sembra infatti mosso dall'intenzione di confezionare un film volutamente rétro, rivolto a quegli stessi spettatori che gli sedevano accanto nei cinema di seconda e terza visione che programmavano un cinema non ritenuto degno di arrivare nelle sale del ‘centro'. E ci restituisce un guilty pleasure simile a quello che proverebbero i suoi coetanei se nelle sale d'attesa del dentista si ritrovassero a sfogliare un antico numero di L'Intrepido, popolarissimo giornalino a fumetti che negli anni '70 e '80 ospitava le storie di Billy Bis, con il pregio di distribuire il giusto spessore a tutti i personaggi coinvolti, dalla moglie (una più che convincente Romina Mondello) alla figlia adolescente del ‘canaro', dal suo amico vicino di bottega, alla parata di balordi che bazzicano i bar, le bische, le marane e le strade della borgata: volti azzeccati e guidati con un senso di Pietas assente nella narrativa di genere un tantino stereotipata della serialità televisiva all'italiana. Ma il punto segnato senz'altro a favore di Rabbia furiosa, sempre rispetto al Dogman di Garrone, è l'attenzione posta nella descrizione del legame tra i due protagonisti, interpretati da uno straordinario Riccardo De Filippis (lo Scrocchiazeppi del Romanzo criminale televisivo), sfigato borgataro mingherlino e sudaticcio capace di trasfigurarsi nel terrificante angelo sterminatore del finale, e da Virgilio Olivari, fisicamente efficace nel ruolo del bipolare pugile e boss del quartiere, adeguatamente muscoloso, inquartato e di un'avvenenza un po' torva, tanto da giustificare l'ipotesi di una velata attrazione omoerotica da parte del canaro, adombrata con virilissimo tocco da Stivaletti in una sequenza onirica di particolare ficcanza, tassello indispensabile per spiegare, insieme ad altri elementi doviziosamente illustrati nel film, le ragioni di un'amicizia così morbosa tra i due, che invece Garrone ha, con scelta poco accorta, evitato di approfondire.

Serie B, si diceva: certo, ma omaggio consapevole e riverente a un cinema che fu, fatto di sugna e sudore, di sangue, lacrime e polvere, solo in apparenza grezzo e distante dall'edulcorazione digitale di tanti prodotti più strombazzati: costante e opportunamente aggiornata si avverte la lezione di Sergio Leone, forse anche grazie alla magnifica colonna sonora originale di Maurizio Abeni, che scalda le immagini di una Roma spietata e indolente con un ‘fischio' di morriconiana memoria…

(Rabbia furiosa); Regia: Sergio Stivaletti; sceneggiatura: Antonio Lusci, Sergio Stivaletti, Antonio Tentori; fotografia: Francesco Ciccone; montaggio: Alfredo Orlandi, Crescenzo Mazza; musica: Maurizio Abeni; interpreti: Riccardo De Filippis, Romina Mondello, Virgilio Olivari; produzione: Apocalypsis Srl; distribuzione: Apocalypsis Srl; origine: Italia, 2018; durata: 116'



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