mercoledì 30 novembre 2016

Sully



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Locandina Sully

Il 15 gennaio 2009 un aereo della US Airways decolla dall'aeroporto di LaGuardia con 155 persone a bordo. L'airbus è pilotato da Chesley Sullenberger, ex pilota dell'Air Force che ha accumulato esperienza e macinato ore di volo. Due minuti dopo il decollo uno stormo di oche colpisce l'aereo e compromette irrimediabilmente i due motori. Sully, diminutivo affettivo, ha poco tempo per decidere e trovare una soluzione. Impossibile raggiungere il primo aeroporto utile, impossibile tornare indietro. Il capitano segue l'istinto e tenta un ammarraggio nell'Hudson. L'impresa riesce, equipaggio e passeggeri sono salvi. Eroe per l'opinione pubblica, tuttavia Sully deve rispondere dell'ammaraggio davanti al National Transportation Safety Board. Oggetto di un'attenzione mediatica morbosa, rischia posto e pensione. Tra udienze federali e confronti sindacali, stress post-traumatico e conversazioni coniugali, accuse e miracoli, Sully cerca un nuovo equilibrio privato e professionale.
Che cos'hanno in comune gli eroi di Clint Eastwood? Sono quasi sempre personaggi destabilizzati dal destino, da un crimine, da un'ingiustizia, dalla marginalità. Tutti, ciascuno a suo modo, sono alla ricerca dell'unità perduta. Non si tratta di una semplice risorsa narrativa, destinata a suscitare l'adesione del pubblico, per l'autore americano quella ricerca riflette l'esplorazione filosofica e artistica del suo cinema, producendo una felice coincidenza tra forma e contenuto.
Quello che innerva la sua filmografia e gli conferisce una rimarchevole coerenza è il raggiungimento, la restaurazione e la formalizzazione estetica di una nozione sostanziale per l'uomo: l'equilibrio. Abilmente dissimulata sotto la vernice della narrazione, la ricerca del giusto mezzo si manifesta essenzialmente nella relazione che l'individuo intrattiene con la società e le istituzioni, l'insieme delle strutture politiche, giuridiche ed etiche che la cultura ha imposto alla natura. Sully, ritratto di un eroe della working class 'processato' da una gerarchia senza cuore e troppi cavilli, corrisponde alla perfezione questa relazione che Eastwood affronta sempre in maniera risolutamente conflittuale.
Tom Hanks, everyman umanista del cinema classico, incarna in faccia alla commissione d'inchiesta, obbligatoria in caso di incidenti, il fattore umano, la scintilla dell'esperienza, l'essenza nobile del lavoro fatto semplicemente come dovrebbe essere fatto. Non per denaro, non per gloria, non per vanità, non per approvazione. Eroe ordinario alle prese con la realtà della sua situazione, Sully è fedele al giuramento prestato e alle conoscenze acquisite con la sua professione.
Girato con la tecnologia Imax, che offre allo spettatore un'immersione piena nell'azione, accomodandolo nella cabina di pilotaggio a 'vivere' letteralmente l'esplosione dei motori, il silenzio che segue e le turbolenze dell'aereo che plana sul fiume, Sully resta nondimeno un film intimo, svolto nella testa del suo protagonista. Quello che ha fatto 'in emergenza' è inseparabile da quello che immagina, sente, conosce. Eastwood ricostruisce con lucidità l'esperienza e le attitudini del suo eroe, l'esordio giovanile, gli anni nella Air Force, perché è su quella pratica e su quella competenza che Sully decide di prendere la via del fiume. Lo sguardo dell'autore e l'interpretazione dell'attore trovano in Sully intimi cedimenti, confrontando il capitano eroico che ha gestito in volo crisi e destino con l'uomo a terra a disagio nel ruolo di eroe e in conflitto con quello che avrebbe potuto essere.
Ammarando, il film emerge i flussi di coscienza del suo protagonista, interrompendo coi sogni angosciosi la linearità della rotta, scivolando nel passato per mettere l'incidente in prospettiva con la vita di Chesley Sullenberger. Con Sully e dopo Flags of Our Fathers e American Sniper, il regista interroga di nuovo la nozione ambivalente di eroismo che è al cuore dell'immaginario americano. Ma se il primo procede alla destrutturazione dell'eroicità e il secondo contraddice la missione del 'primo violino' dell'esercito americano in Iraq, Sully riconfigura l'eroe. Eastwood ne distilla l'essenza andando oltre la sua rappresentazione mediatica e riabilitandone la natura tragica attraverso la paura incombente della morte. Con quella paura il protagonista fa i conti dal principio, il film si apre su un aereo che scivola lungo lo skyline di New York e si schianta contro il paesaggio urbano deflagrandolo. Prima di distinguere l'oggettività della vicenda, l'aereo di Sully è realmente ammarato, Eastwood mostra allo spettatore la visione ipotetica, l'enunciato condizionale, l'incubo di Sally, l'incognita mortale connessa con l'atterraggio. Come Zemeckis (The Walk) prima di lui, recupera la gravità dell'iconografia storica US, l'immagine depositata nella coscienza collettiva e la compensa, risvegliando Sully dall'incubo e suturando le ferite di New York. Al rigore geometrico dell'uomo che cade, fotografato da Richard Drew e allineato alla verticalità della Torre Nord, Sully replica la geometria orizzontale e variabile delle ali di un airbus che galleggiano e sorreggono la vita. Quella che Sully ha garantito con un gesto solerte, abile, puro. Eppure una sorta di inerzia scorata, prodotta da una società che ha estinto l'afflato leggendario dietro a regole, protocolli, simulazioni e statistiche, prova a trascinarlo sul fondo. Certo il National Transportation Safety Board pone domande legittime e cerca la risposta giusta (ne esiste una?) ma il processo è viziato da un'accusa tacita, uno scetticismo tenace, un'idea di colpevolezza poi smentita dai fatti. Sully ha preso una decisione, probabilmente l'unica possibile. Ed è quella decisione a determinare la misura del suo eroismo, il carico di responsabilità che il protagonista ha condiviso con l'equipaggio, il co-pilota, i controllori di volo, gli agenti di polizia, i soccorritori. Insieme hanno realizzato il "miracolo dell'Hudson", ribadendo la natura etica del lavoro (di ogni lavoro) e provando l'inscindibilità ineluttabile dei destini umani.
In aula e in fondo al film, Clint Eastwood rimette in quota il suo eroe e trasmette la medaglia da veterano ai soli eroi che la valgono: non più quelli che sparano ma quelli che si espongono. Non più quelli che scaricano coi colpi la responsabilità ma quelli che l'assumono mani alla cloche.

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Primo Weekend Usa: $ 35.505.000
Incasso Totale* Usa: $ 123.316.000
Ultima rilevazione:
Box Office di domenica 6 novembre 2016

Free State of Jones



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Locandina Free State of Jones

1862. Guerra civile americana. L'infermiere dell'esercito sudista Newt Knight, avendo assistito a troppe ingiustizie, decide di disertare per riportare a casa il cadavere del giovane nipote a cui non è stato prestato soccorso dopo che era stato ferito. Giunto a casa è testimone di altri soprusi commessi dai soldati confederati nei confronti della popolazione. Da quel momento Knight comincia a raccogliere intorno a sé uomini e donne di razza bianca e nera pronti ad opporsi alla prepotenza militare. Accade così che la contea Jones del Mississippi si costituisce in uno Stato Libero sotto la guida di Knight che non è intenzionato ad arrendersi.
Quando nell'ultima parte del film diretto da Gary Ross si vedono comparire nella notte gli uomini a cavallo con i mantelli e i cappucci del Ku Klux Klan il pensiero non corre a Griffith e al suo Nascita di una nazione che ne cantava le gesta ma piuttosto al fatto che il Klan esista ancora oggi e che abbia manifestato il suo appoggio al neoeletto presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Perché questo film dall'andamento classico e dalla durata considerevole ha il grosso pregio di portare a conoscenza del grande pubblico un fatto storico di non secondaria importanza che finora era stato al centro solo di studi specialistici.
Ha però un altro e ancor più importante valore: ci ricorda che ottantacinque anni dopo quegli eventi nello Stato del Mississippi un discendente di Knight e della sua seconda compagna (che era afroamericana) veniva posto sotto accusa per aver sposato una donna bianca avendo 'ancora' una percentuale di sangue nero che non gli poteva consentire quel tipo di nozze.
Matthew McConaughey offre i suoi sguardi che vanno dall'indignato al compassionevole a un personaggio che la Storia può forse definire 'minore' ma che nel film travalica il ruolo romantico del Robin Hood del sud degli States per acquisire lo status di monito per lo spettatore. Il cinema tra i suoi compiti ha anche quello di fare memoria e luce su eventi che alcuni preferirebbero rimanessero confinati nell'oblio. Ross come, tanto per fare un esempio, il Vancini di Bronte - Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato ripropone quanto accadde supportandolo di date e di riferimenti precisi evitando di proposito scene troppo cruente. Perché forse gli piacerebbe che il suo film venisse proiettato nelle scuole del suo Paese. Ku Klux Klan permettendo.

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Primo Weekend Usa: $ 7.772.000
Incasso Totale* Usa: $ 20.394.000
Ultima rilevazione:
Box Office di domenica 17 luglio 2016

Un Natale al Sud



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Locandina Un Natale al Sud

Peppino, un carabiniere del nord, e Ambrogio, un ex impiegato del sud con velleità di cantante neomelodico, sono sposati rispettivamente con la lombarda Bianca e la partenopea Celeste. Ognuna delle coppie ha un figlio: Riccardo e Simone, entrambi youtuber, entrambi fidanzati solo virtualmente con due ragazze, Giulia e Ludovica, incontrate sull'app di dating Cupido 2.0, che fra le varie amenità offre ai single la possibilità di partecipare ad un ritrovo annuale in un lussuoso resort. Poiché i genitori ritengono necessario che i propri figli incontrino dal vivo le loro ragazze fanno in modo che i quattro giovani partecipino a quel raduno, e decidono di pedinarli in loco. Lì troveranno anche una blogger in cerca dell'uomo ideale e un influencer innamorato di se stesso, un autista romano a caccia di avventure e una performer di burlesque.
La stessa squadra di Matrimonio al sud si ripropone in formazione (quasi) compatta: le due coppie Massimo Boldi-Debora Villa e Biagio Izzo-Barbara Tabita, gli scapoli Paolo Conticini ed Enzo Salvi, la giovane Fatima Trotta, e Paolo Costella questa volta non più alla regia (che è di Federico Marsicano) ma alla sceneggiatura (con Gianluca Bompressi). L'idea è quella di rendere questa commedia "moderna" parlando di chat, selfie e sms, e identificando alcuni personaggi come figure partorite dall'universo Internet, senza però dare loro alcuna connotazione specifica al ruolo, al di là della vanità e dell'egocentrismo. Purtroppo però la trama è ancora più superata di quella di Matrimonio al sud, tanto più che parte da simili premesse - le due coppie nord-sud, i figli da sorvegliare nei rapporti con l'altro sesso - e non è un caso che a farci la figura peggiore siano i personaggi più giovani, teoricamente i più "moderni", e invece ridotti a idioti generici senza alcuna personalità.
La sensazione generale è quella di profondo imbarazzo, sia da parte degli interpreti, che avrebbero le capacità e i tempi comici per fare molto di più, sia da parte del pubblico che assiste ad una trama totalmente incoerente e improbabile, senza alcun riscontro reale o alcuna umanità riconoscibile. Le battute virano dal puerile allo scurrile, toccando tutte le tappe del politically incorrect senza averne la capacità trasgressiva e la forza comica. Ce n'è per tutti: donne basse (che "se le baci sanno di tappo") e sovrappeso, uomini pelati, neri servili, lesbiche siliconate e dandy gay, e tutti tentano di cornificare tutti, basando le proprie voglie esclusivamente sull'aspetto fisico della preda concupita (a meno che Cupido non ci metta lo zampino).
Rispetto a Matrimonio al sud, anche le due mogli (e le due brave attrici Villa e Tabita) vengono confinate alla cifra grottesca e perdono credibilità, e tutti sguazzano in un oceano trash che, se fosse spinto verso una modernità autentica, forse funzionerebbe, ma diventa invece una palude stantia colma di non-battute (un esempio per tutti: "Chiama il 118!" "Ma non so il numero!").

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Rock Dog



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Locandina Rock Dog

Bodi, un giovane mastino tibetano si scopre amante del rock. La passione si manifesta quando una radio gli cade letteralmente dal cielo: al suono della musica del "mitico" Angus Scattergood, Bodi comincia a fantasticarsi chitarrista, distraendosi dai dettami paterni che lo vedono destinato a guardiano dell'esercito di pecore contro i malvagi lupi che vogliono sterminare il villaggio. Inizialmente reticente, papà Khampa acconsente al "viaggio iniziatico" del figlio verso la grande città, dove nel leggendario Rock Park potrà tentare la strada della musica a una condizione: se non riuscirà nell'impresa dovrà irreversibilmente tornare fra i monti a difendere il paese.
Chi crede alla leggenda che associa il rock ad ascendenze diaboliche dovrà arrendersi davanti a questo romanzo di formazione animato che unisce il popolo più pacifico della terra - i tibetani - a chitarre elettroniche, batterie e amplificatori a palla. Il bizzarro connubio nasce da un'inedita collaborazione produttiva fra Cina e Stati Uniti, dove la prima ci ha messo la graphic novel d'ispirazione, "The Tibetan Rock Dog", i secondi il regista del film Ash Brannon, già "uomo Pixar". Questi con l'autore del fumetto Zheng Jun hanno steso una sceneggiatura impreziosita da citazioni cult (il finale di un video dei Radiohead da scoprire nel film) e da personaggi solidamente caratterizzati, naturalmente appartenenti al regno animale.
Ma tutto è paradossalmente capovolto in Rock Dog, dall'identità degli eroi "buoni" incarnati da dei mastini e da quella del loro esercito rappresentato da delle pecorelle travestite da guerrieri. Naturalmente l'eroe-in-divenire, Bodi, è il Candid della situazione sulla via evolutiva ovvero "alla ricerca del suo paradiso".
Molteplici e ibridi sono gli universi di riferimento utilizzati nel film per restituire, semplificandoli, i non facili agganci a degli immaginari che non propriamente riguardano i più piccoli, a cui il titolo principalmente si indirizza. Il mondo del rock rimanda ai luoghi comuni della Beverly Hills musicale con tanto di bus in "star tour" e ville faraoniche fra cui spicca quella di Angus, un gatto bianco e nevrotico travestito in rigoroso nero come si addice a un divo rockettaro in crisi d'ispirazione. Quanto a quello dei "cattivi", il richiamo è con le atmosfere del gangster movie: lupi accigliati e in divisa da iene tarantiniane obbediscono ciecamente al boss, orrido e ferocissimo.
Il racconto del film procede nel classico ordine della fiaba di formazione con inserti di suspence, gag assai divertenti e soprattutto un notevole commento musicale che trova il suo meglio nella canzone finale, il pretesto narrativo che unisce le sorti del semplice ma genuino Bodi a quelle del sofisticato ma bisogno d'affetto Angus, il felino rock. Complessivamente si tratta di un'operazione piacevole e non banale, benché lontana da quelle pellicole d'animazione che segnano la memoria.

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La mia vita da zucchina



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Locandina La mia vita da zucchina

Zucchino non è un ortaggio ma un bambino (il cui vero nome era Icaro) che pensa di essersi ritrovato solo al mondo quando muore sua madre. Non sa che incontrerà dei nuovi amici nell’istituto per bambini abbandonati in cui viene accolto da Simon, Ahmed, Jujube, Alice e Béatrice. Hanno tutti delle storie di sofferenza alle spalle e possono essere sia scostanti che teneri. C’è poi Camille che in lui suscita un’attenzione diversa. Se si hanno dieci anni, degli amici e si scopre l’amore forse la vita può presentarsi in modo diverso rispetto alle attese.
Ci sono dei film (rarissimi) capaci di infrangere una serie di tabù (anche della categoria del politically correct) consapevoli di avere dalla propria parte uno sguardo carico di quell’umanità profonda che rivela un’altrettanto profonda e partecipe conoscenza dei soggetti portati sullo schermo. Il film ha trovato il proprio punto di partenza nel libro “Autobiographie de une Courgette” ma è Céline Sciamma, al suo top nella scrittura, che ha saputo fornirgli il giusto equilibrio tra dramma, commozione e speranza.
Perché ci viene ricordato quanto sia intensa la sofferenza di un bambino che vive una condizione familiare disastrata (la mamma di Zucchino era alcolizzata e lui conserva di lei come ricordo una lattina di birra vuota ma i suoi compagni non hanno vissuto meglio). Ci dice però anche che si può sfuggire allo stereotipo cinicamente pessimista secondo il quale ‘tutti’ gli istituti per minori sono luoghi di detenzione in cui trascorrere mesi o anni in cui i soprusi sono pane quotidiano. Non è così per Zucchino e i suoi amici anche se la speranza di trovare una possibilità di vita al di fuori resta non può venire a mancare.
Ci viene anche detto (e questa consapevolezza viene comunicata ai giovanissimi spettatori) che le prime domande sulla sessualità non sono forse mai state (e oggi lo sono ancor meno) riservate a quel periodo della vita che si chiama pubertà. Nascono infatti molto prima e bisogna aiutare i piccoli a coniugarle con il sentimento, come accade con Zucchino e Camille dopo che ci si era interrogati, dando risposte catastrofiche, su cosa accade tra due persone di sesso differente quando vanno oltre l’amicizia.
Claude Barras ha saputo mettersi ad altezza di bambino deprivato senza mai farsi tentare da uno sguardo dall’alto in basso. Lo ha fatto consegnando ad ognuno dei protagonisti (pupazzi animati in stop motion) dei grandi occhi capaci di attrarre qualsiasi spettatore (bambino o adulto che sia) che non sia privo di sensibilità.

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Amore e inganni



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Locandina Amore e inganni

Langford, Regno Unito, fine XVIII secolo. Lady Susan è rimasta vedova per l'improvvisa morte del marito. Lascia quindi la residenza di Langford insieme alla figlia Frederica per stabilirsi a Churchill, dai parenti del defunto consorte. La cognata Catherine diffida fortemente di Lady Susan, ma sembra non potere nulla contro lo schema della fascinosa vedova, che intende sedurre il fratello di Catherine, Reginald, e maritare la figlia con il ricchissimo ma ebete Sir James Martin.
Un progetto che da diverso tempo Whit Stillman ha cercato di realizzare senza successo e che infine prende forma, Amore e inganni riesce a essere insieme una rispettosa trasposizione di Jane Austen e un suo sconvolgimento. A partire dal titolo, Lady Susan nel testo originale, che diviene un'accoppiata di sostantivi astratti nello stile di Jane Austen: da Orgoglio e pregiudizio a Amore e amicizia (così recita il titolo originale, per l'uscita italiana trasformato in Amore e inganni). Lady Susan è un romanzetto postumo scritto all'inizio della carriera della Austen, ma probabilmente terminato frettolosamente, ricorrendo alla forma epistolare. Stillman si prende alcune libertà - oltre al titolo, la forma della narrazione - per realizzare quel che Austen avrebbe potuto o forse voluto fare, ma ancor più per infondere ingenti dosi di corrosivo cinismo nei dialoghi austeniani.
L'ibrido riesce in maniera incantevole. Visivamente assistiamo a una meticolosa ricostruzione di ambienti e abiti, come chiede il canone del film in costume, e a inquadrature di geometrica perfezione che incorniciano i personaggi durante il loro dialogare. Ma chiudendo gli occhi è possibile godere della brillantezza di una sceneggiatura che se mantiene la forma del milieu austeniano, si dimostra altresì consapevole delle regole sociali imposte dalla contemporaneità. Lady Susan - manipolatrice di affetti e destini che impariamo ad ammirare e amare, anziché detestare, man mano che ne approfondiamo la conoscenza - concepisce tutto in funzione della propria immagine pubblica, che può brillare anche quando non è assistita dalla reputazione. Se quest'ultima per Susan è irrimediabilmente compromessa dalle dicerie, giocando con la prima la vedova riesce comunque a ottenere ciò che vuole. "I fatti sono qualcosa di orrido", afferma la protagonista quando una delle sue cospirazioni viene alla luce: fortuna per Susan che, nell'Inghilterra del XVIII secolo, così come nel XXI, la manipolazione dei fatti finisca sempre per avere la meglio sulla veridicità degli stessi.
Straordinaria Kate Beckinsale, infine protagonista in una produzione alla sua altezza dopo anni di Underworld e Van Helsing. Con Chloe Sevigny - qui Alicia, unica amica fidata di Lady Susan - torna a formare l'accoppiata che fu di Last Days of Disco, il film dello stesso Stillman che proiettò le due attrici nell'empireo delle star. Ma notevoli sono tutte le caratterizzazioni (introdotte con uno stile volutamente didascalico, accompagnato dall'uso di tecniche come l'iris), a partire dalla fugace apparizione di Stephen Fry, a cui bastano due battute per incantare.

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La stoffa dei sogni



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Locandina La stoffa dei sogni

Una tempesta scaraventa sull'isola dell'Asinara un gruppetto eterogeneo di naufraghi: quattro camorristi, le due guardie che li stavano accompagnando in penitenziario, e i quattro membri di una compagnia teatrale di giro. Tre dei camorristi decidono di spacciarsi per teatranti, con l'aiuto (riluttante) del capocomico Oreste Campese, per sfuggire alla cattura da parte del direttore del carcere. Ma De Caro, il direttore, è uomo diffidente, e sospetta subito che la compagnia Campese ospiti qualcuno dei carcerandi sopravvissuti al naufragio.
Il regista sardo Gianfranco Cabiddu mescola due testi di Eduardo De Filippo "L'Arte della Commedia" e la traduzione che Eduardo fece de "La tempesta" di Shakespeare, alla cui registrazione Cabiddu ha collaborato - per creare (con Ugo Chiti e Salvatore De Mola) una sceneggiatura originalissima e stratificata che racconta la capacità del teatro di trasformare, ma anche sublimare, la realtà, e la volontà degli uomini di reinventarsi ritagliandosi di volta in volta i propri costumi di scena dalla stoffa di cui sono fatti i sogni. La stoffa dei sogni, appunto, è una continua citazione shakespeariana (non solo da "La tempesta") e rende omaggio a due maestri del teatro come il Bardo e De Filippo rivelandone le profonde assonanze al di là della "scorza" linguistica: assonanze che hanno a che fare soprattutto con la capacità di entrambi gli autori di "leggere" e poi di raccontare la natura umana nella sua miseria e nobiltà.
L'ambientazione all'Asinara, rimasta incontaminata grazie a decenni di isolamento totale, è la perfetta quinta teatrale per rendere la vicenda atemporale e dilatare lo spazio entro il quale Campese e la sua compagnia ricostruiscono il proprio palcoscenico: e l'emozione del momento in cui la rappresentazione va in scena, in virtù dello sforzo di artigianalità e immaginazione dell'intera troupe, ricorda il brivido dell'inquadratura in cui Georgés Melies passava davanti al set marittimo di Hugo Cabret. Il cast è molto ben assortito (tolta la nota stridente della dizione regionale delle due interpreti più giovani): Sergio Rubini mette a servizio del suo Oreste esperienza teatrale e gusto per la pantomima, Ennio Fantastichini dà peso e spessore a De Caro, Renato Carpentieri è un capo camorrista con la saggezza atavica del Padrino. Sono tre figure paterne, tre Prospero in una sola Tempesta, e i loro dialoghi sono i più letterari della sceneggiatura perché tutti e tre si vivono come protagonisti della tragicommedia che sono costretti a recitare. Il quarto protagonista in scena è il più tragicomico in assoluto: il pastore sardo Antioco, un Calebano arcaico che si esprime in una lingua comprensibile solo a se stesso, e ciò nonostante cerca continuamente il contatto umano con i gli "invasori" che hanno colonizzato la sua isola. In questo personaggio, magnificamente interpretato da Fiorenzo Mattu, c'è tutto il dolore di Cabiddu per lo stupro subìto dalla sua terra, e l'istante in cui la messinscena dà voce (in napoletano, come in inglese o in sardo stretto) all'ingiustizia di quella violazione è pura trasfigurazione teatrale.
C'è un'evidente partecipazione anche di chi, come la sempre convincente Teresa Saponangelo, si mette umilmente a servizio di un ruolo minore, ricordando che in teatro come al cinema non esistono piccoli ruoli ma solo piccoli interpreti. C'è un'attenzione a tutti gli elementi della scrittura cinematografica, come il montaggio preciso di Alessio Doglione che interseca le linee narrative facendo corrispondere al bussare su una porta l'aprirsi di un'altra, e che fa chiudere una serratura fuori scena invece che mostrarne direttamente la quieta violenza: regia e montaggio non indugiano su un'inquadratura o una battuta perché sanno che il tempo di riflessione trova comunque il suo spazio, ed è uno spazio interiore non manipolabile. Ci sono effetti speciali artigianali commoventi, non solo nella messinscena della rappresentazione di Oreste, ma anche in quella di Cabiddu, che apre il suo film con una tempesta pittorica e lo intervalla con le illustrazioni di un'antica edizione delle opere di Shakespeare.
La finzione scenica è un insieme di piccoli miracoli, non ultimo quello di riuscire a realizzare un film che, sulla carta, ha certamente spaventato i produttori affamati di box office, e che invece, a conti fatti, si rivela il perfetto candidato per un Oscar al miglior film straniero: perché senza la furbizia di certe operazioni fatte a tavolino da registi di nome altisonante, La stoffa dei sogni racconta un certo modo di fare cinema in Italia, una certa umanità cui non si può mancare di rispetto, un patrimonio iconografico che contiene in sé la lezione dei grandi maestri.
Il film di Cabiddu è un baule ricco di sorprese approdato quasi per sbaglio sulle rive di quel cinema italiano sterile e scontato che confonde finzione con falsità. E dunque La stoffa dei sogni è anche una metafora sulla libertà degli artisti, raccontata su un'isola che è diventata sinonimo di costrizione: perché il teatro, per chi lo sa capire, "mette le ali al cuore e alla ragione".

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From the Malick Archives

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Today, we’re celebrating the seventy-third birthday of one of American cinema’s most lyrical and enigmatic storytellers. Over the course of more than four decades, Terrence Malick has established a distinctive aesthetic that juxtaposes the majestic beauty of nature with the subtle dynamics of human relationships. Whether he’s depicting the tale of two lovers on a killing spree or crafting a poetic vision of seventeenth-century America, his visually captivating films push at the boundaries of cinematic expression. In his honor, we’ve gathered some of our essays and videos about his work:

  • In this video from our release of Malick’s Badlands, editor Billy Weber, a frequent Malick collaborator, describes the origins of the film’s iconic voiceover.
  • Michael Almereyda writes on the director’s brief but unforgettable cameo in the film: “It’s a terrifically restrained, persuasive performance, and worth savoring—a glimpse of the visionary filmmaker, twenty-eight years old, at the start of an unconventionally brilliant career, before he took the Kubrickian high road and disappeared into a strict vow of silence and invisibility, allowing no further cameos, interviews, photographs, or even the slightest public evidence that his films emanate from a knowable human source.”
  • Wander through a selection of Malick’s sweeping landscapes.
  • Read Adrian Martin’s essay on the philosophical resonance of Malick’s dreamlike turn-of-the-century tale Days of Heaven: “Malick is a true poet of the ephemeral: the epiphanies that structure his films, beginning with Days of Heaven, are ones that flare up suddenly and die away just as quickly, with the uttering of a single line (like ‘She loved the farmer’), the flight of a bird or the launching of a plane, the flickering of a candle or the passing of a wind over the grass. Nothing is ever insisted upon or lingered on in his films; that is why they reveal subtly different arrangements of event, mood, and meaning each time we see them.”
  • Take a closer look at the stunning work of Malick’s longtime production designer, Jack Fisk.
  • David Sterritt makes the case for The Thin Red Line as one of the all-time great war films, praising its “powerfully written, superbly acted story that casts new light on his characteristic themes of nature and culture, thought and language, humanity and inhumanity, paradise lost and tran­scen­­dence found.”
  • The New World star Colin Farrell recalls the “openness and honesty” that Malick shared with his collaborators on set.
  • In his essay on The New World, Tom Gunning examines the way Malick’s cinema “dwells on space, both the historical and geographic space that has been central to the American experience and the cinematic space created through editing and camera movement.”


from The Criterion Current http://ift.tt/2fMAJ8d

Nicolas Cage combatterà il riscaldamento globale in The Humanity Bureau

Le riprese del film inizieranno questa settimana nella British Columbia

from ComingSoon.it - Le notizie sui film e le star http://ift.tt/2g7W1hz

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Spies face the music: Jeff Smith on FOREIGN CORRESPONDENT

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DB here: Here’s another guest contribution from colleague, Film Art collaborator, and pal Jeff Smith. He inaugurates a series of entries tied to our monthly Observations on Film Art videos on FilmStruck.

About a month ago, a new streaming service for film lovers debuted.  Its name is FilmStruck and it’s a joint venture of Turner Classic Movies and the Criterion Collection.

As regular readers of the blog already know, David, Kristin, and I have launched a series for FilmStruck.  Every month, we’ll be featured in short videos that offer appreciations of particular films and filmmakers.  In baseball lingo, I got the leadoff spot.  As the first up, I offered an overview of the principal musical motifs in Alfred Hitchcock’s Foreign Correspondent.  Below is a supplement to the video that goes into a little more depth regarding the way Alfred Newman’s score for Foreign Correspondent fits into the film’s larger narrative strategies.

Fair warning: there are some spoilers in what follows.  Some of you who are FilmStruck subscribers or owners of the Criterion disc may want to watch this Hitchcock classic before proceeding.

 

Founding a Hollywood dynasty

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Alfred Newman.

If you were looking for someone whose work epitomized the qualities of the classical Hollywood score, Alfred Newman would be a pretty good candidate for the job.

Newman’s career in Hollywood began when Tin Pan Alley stalwart, Irving Berlin, recommended him for the 1930 musical, Reaching for the Moon.  Having worked for years as a music director on Broadway, Newman planned to stay for only three months.  But the lure of the Silver Screen was too strong.  Newman spent the next forty years working in Hollywood.

In 1931, Newman became the musical director at United Artists, working mostly for producer Samuel Goldwyn.  He also established himself as one of the industry’s leading composers, contributing to nearly ninety films over the course of the 1930s and earning nine Oscar nominations in the process.  Newman’s most memorable early scores included such titles as The Prisoner of Zenda, The Hurricane, The Hunchback of Notre Dame, and Wuthering Heights.  Eventually, he would leave Goldwyn to take over the music department at 20th Century-Fox, a position he held for more than twenty years.

Alfred, however, would be just one of several Newmans who would make the name synonymous with the Hollywood sound.  Alfred would establish a film composing dynasty that would come to include his brothers Lionel and Emil; his sons, Thomas and David; and his nephew, Randy.

 

Overture, hit the lights….

If you asked most film music aficionados for their favorite Alfred Newman scores, I suspect Foreign Correspondent would be pretty low on the list.  Most fans of the composer’s work would likely opt for one of the later Fox classics he scored, such as How Green Was My Valley (1941), A Tree Grows in Brooklyn (1945), The Captain from Castile (1947), or The Robe (1953). Yet, if you want to get a handle on the basic features of the classical paradigm, Foreign Correspondent’s typicality makes it more useful as an exemplar.  Newman’s music neatly illustrates several of the traits commonly associated with the classical Hollywood score’s dramatic functions.

One of these characteristic traits is Newman’s use of leitmotif as an organizational principle.  Foreign Correspondent’s score is organized around five in all.  The first is a theme for the film’s protagonist, Johnny Jones.  The second is a theme for Carol, Johnny’s love interest in the film.  As is typical of studio-era scores, both themes are introduced in the film’s Main Title.

Like an overture, the Main Title previews the two most important musical themes in the film.  The A theme is upbeat, sprightly, and lightly comic.  It captures some of Johnny’s ebullience and masculine charm, and it helps establish the tone of the early scenes, which draw upon the conventions of the newspaper film.  The B theme is slower and more lyrical.  It features the kind of lush orchestrations for strings that became a hallmark of Newman’s style.

Each theme roughly correlates with the dual plot structure common to classical Hollywood narratives.  The A theme previews the main plotline focused on Johnny’s efforts as an investigative reporter.  The B theme previews the story’s secondary plotline: the budding romance between Johnny and Carol.

Both themes recur throughout the remainder of the movie.  In fact, Johnny’s theme returns even before the opening credits have ended, appearing underneath a title card valorizing the power of the press.  In contrast to the lively, spunky version heard earlier, Newman gives it a maestoso treatment, slowing the tempo and orchestrating it for brass.  In this instance, Newman’s arrangement of Johnny’s theme is attuned less to the brashness of his character and more to the social role that newspaper reporters play as a source of information to the world.

Up until this point, the music simply primes us for what is to come.  Johnny’s theme returns about two minutes later when he is first introduced.

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The reprise of his theme makes explicit the Main Title’s tacit association between music and character.  Here, though, it plays in a jazz arrangement as a slow foxtrot.  Newman’s arrangement nicely captures the tone of these early scenes, which display the lightness and pacing of other newspaper comedies.

It returns 22 more times in the film.  In all, Johnny’s theme accounts for more than a quarter of the film’s 94 music cues.  Usually, the theme functions to underline Johnny’s heroism and resourcefulness as in the scene where he gives chase to Van Meer’s assassin.  At one point, Johnny even whistles his theme.  This occurs in the scene where he eludes a pair of suspicious men posing as police by pretending to draw a bath and crawling out the window.

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In contrast, Carol’s theme is used less frequently, appearing in about thirteen cues in all.  After its introduction in the main title, it returns when Johnny and Carol first meet at the luncheon sponsored by the Universal Peace Party.  Johnny unknowingly insults Carol, first by mistaking her for a publicist, and then by expressing skepticism about the organization’s mission, griping about well-meaning amateurs interfering in international affairs.  Newman’s theme hints at Carol’s attraction to Johnny despite his obvious boorishness.  The music says what the characters can’t or won’t say.  As Johnny and Carol trade insults, Carol’s theme captures the romantic spark that lurks beneath their badinage.

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The theme’s other uses often work along similar lines, providing an emotional resonance to the couple’s expression of feelings for one another.  A good example is found in the scene where Carol and Johnny huddle together on the deck of a steamship.  Here, as a pair of refugees, each member of the couple declare their love for one another and their desire to marry.

 

Music for the hope of the world

In addition to these two principal themes, the score also utilizes three other themes and motifs to represent important secondary characters.  A theme for Professor Van Meer is introduced when Johnny spots him getting into a taxicab.

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It returns nine more times in the film in scenes that feature the character or make reference to him.

The theme itself is simple, slow, stately, and quite frankly, a little bit boring.  Indeed, if it wasn’t for the multiple references to a “Van Meer Theme” on the cue sheet for Foreign Correspondent, the music would simply blend into the other material that surrounds it.

The orchestration of the theme for solo wind instruments, usually an oboe, gives it a kind of pastoral feeling.  The image of peaceful shepherds is likely an appropriate one for Van Meer, who functions as a stand-in for a global desire to avoid armed conflict.  Yet, both the character and Newman’s musical theme for him seem nondescript, making Van Meer seem like little more than the walking embodiment of an abstract ideal of world harmony.

Truth be told, Van Meer mostly operates in Foreign Correspondent as the classic Hitchcock MacGuffin–that is, the thing the characters all want, but with which the audience need not concern itself.  When Van Meer appears to be assassinated, it sets in motion a chain of events that uncovers a conspiracy organized through Steven Fisher’s World Peace Party.  Van Meer is the object that all the characters want to find, and the search for him drives the narrative forward.  Yet the character himself has about as much personality as the microfilm in North by Northwest.  Newman’s nondescript melody seems to fit the “blank slate” quality of Van Meer himself.

Like the classic MacGuffin, Van Meer’s function as something of an empty vessel allows his theme to be used several times late in the film in scenes where the character isn’t physically present.  Although the norm is to use characters’ themes or leitmotifs when they are onscreen, Newman’s treatment of Van Meer shows they can evoke absent characters.  This occurs, for example, in a scene where Scott ffolliot explains to Stephen Fisher that he’s arranged for the kidnapping of Carol.  Fisher asks ffolliot why he would do such a thing, and ffolliot replies that he wants to know where Stephen has stashed Van Meer.

As we’ll see, Fisher has a theme of his own that itself appears several times in this same scene.  But the use of Van Meer’s theme in this context becomes a way of signifying both the character and the peaceful values that he represents – that is, values that Fisher seeks to destroy.

And though Van Meer’s music is a bit dull, the theme proves a bit more interesting when one considers the way it works within Hitchcock’s larger strategies of narration.  At a key point, Hitchcock and Newman use the Van Meer theme to mislead the audience about what has just transpired onscreen.  I’m referring here to the moment when Van Meer appears on the steps just as the Peace conference in Amsterdam is about to commence.

The theme is cued by Johnny’s glance offscreen after briefly chatting with Fisher, his publicist, and a diplomat.  Hitchcock cuts to a shot from Johnny’s optical POV that shows Van Meer climbing up the staircase. We return to Johnny, who smiles and walks out of the frame.  Johnny and Van Meer meet in a two-shot where the former offers a warm greeting.  A cut to Van Meer’s reaction, though, reveals a blank stare, even as Johnny tries to remind the elderly professor of their previous encounter in the taxi.

The moment is an important one, but before the viewer can even grasp its significance, the two men are interrupted by a request for a photograph.  Hitchcock then tracks in on the newsman, who surreptitiously sneaks a gun next to the camera he is holding.  He pulls the trigger, and Hitchcock cuts to a brief insert of Van Meer, who has been shot in the face.

As I noted earlier, the assassination we witness is a key turning point in the story, and Hitchcock handles the scene with considerable finesse.  Almost unnoticed, though, is the fact that Hitchcock and Newman cleverly use Van Meer’s musical theme as a form of narrative deceit.  At first blush, the musical theme helps to reinforce Van Meer’s identity, serving the kind of signposting function that some film music critics believed was a hackneyed device.  As we later learn, though, the murder victim is not Van Meer, but rather a double killed in his place to foment international tensions.  This information ultimately recasts the old man’s seeming failure to recognize Johnny.  As Van Meer’s double, these two men have never actually met.

Has Hitchcock played fair in using Van Meer’s theme for a character that is not Van Meer but only looks like him?  Perhaps, but the creation of this red herring is justified if one considers the fact that composers frequently write cues meant to reflect or convey a character’s point of view.  Every composer must make a choice about whether to write a cue from the particular perspective of the character or the more global perspective of the film’s narration.  Newman might have opted for conventional musical devices that connote suspense (ostinato figures, string tremolos, low sustained minor chords), and these would have signaled to the viewer that Van Meer is in peril, thereby creating a heightened anticipation of the violence that erupts in the scene.  Instead, though, following the visual cues provided by Hitchcock’s cinematography and editing of the scene, Newman plays Johnny’s perspective and his recognition of Van Meer as he approaches the building’s entrance.  By combining two common tactics–leitmotif and character perspective – Newman and Hitchcock briefly mislead the audience in order to create two surprises: the first when it appears that Van Meer is killed and the second when Van Meer is discovered inside the windmill and proves to be very much alive.

 

Menace (without the Dennis)

There is also a brief six-note motif used to signify the conspirators as a group.  Labeled the “menace” motif, it is introduced just after Van Meer’s apparent assassination.  In the chase that follows, Newman alternates between the “menace” motif and Johnny’s theme in order to sharpen the conflict and to capture the ebbs and flows of our hero’s dogged pursuit of the bad guys.

The motif returns, though, at just about any point where one of the group’s henchmen gets up to no good.  In the scene inside the windmill, the menace motif appears several times to underscore the kidnappers’ nefarious scheme.  Johnny sneaks inside the windmill, and after locating Van Meer, he tries to rescue him only to find out that the elderly professor has been drugged.  As Johnny tries to figure out his next move, muted trumpets play the “menace” motif, signaling the kidnappers’ approach and thereby heightening the scene’s suspenseful tone.

Here again, Newman’s thematic organization reinforces a larger narrative tactic in Hitchcock’s film.  Herbert Marshall serves as the typical suave villain commonly found in the Master’s oeuvre and Edmund Gwenn steals the show as Johnny’s would-be assassin, Rowley.  But the rest of the conspirators are a largely undistinguished lot, and the use of a single motif for the group in toto reflects their relative impersonality.  Unlike North by Northwest, where Martin Landau makes a vivid impression as Van Damm’s reptilian assistant Leonard, this spy ring seems to be filled out by thugs from Central Casting.

 

Father, leader, traitor, spy

Besides motifs for Johnny, Carol, Van Meer and the conspirators, there is also a short motif for Carol’s father, Stephen Fisher.  It is harmonically and melodically ambiguous, structured around the rapid, downward movement of a chromatic figure.

In classical Hollywood practice, a leitmotif is usually introduced when the character first appears onscreen.  But in an unusual gesture, Newman and Hitchcock resist this convention. The motif does not appear until more than eighty minutes into the film in the aforementioned scene just before ffolliot tries to blackmail Fisher into divulging Van Meer’s location.

By withholding Fisher’s motif, Hitchcock and Newman avoid tipping their hand too early.  Since Fisher is later revealed to be the leader of the spy ring, the score circumspectly avoids comment on him in order to preserve the plot twist.

Several cues featuring Fisher’s motif return in the scene where Johnny, Carol, ffolliot, and the other survivors of the plane crash cling to wreckage waiting to be rescued.  Carol spots the plane’s pilot stranded on its tail.

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He swims over to the group and clambers about the wing.  The pilot’s added weight threatens to upend the wing, thereby endangering everyone sitting atop it.

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Recognizing this, the pilot asks the others to let him go so that he can simply “slip away.” Fisher overhears this exchange and decides to remove his life jacket and dive into the waters himself, leaving room on the plane’s wing for the rest of crash’s survivors.

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The harmonic and melodic ambiguity of Fisher’s motif is most pronounced here, a moment where the character’s duality is also most clearly revealed.  Is this a heroic act of self-sacrifice, an act of atonement for the damage Fisher has done to both his daughter’s reputation and his organization’s peaceful cause?  Or has Fisher taken the coward’s way out, committing suicide in order to avoid facing the consequences of his actions?

Newman’s rather opaque musical motif doesn’t seem to take sides on this question, leaving Fisher’s motivation more or less uncertain.  But this, too, is in keeping with the basic split between the character’s public and private personae.  Introduced earlier as Carol’s father, Fisher appears to be cultured and debonair.  Yet, when he seeks to extract information from a reluctant captive, Stephen resorts to the physical torments used by two-bit gangsters to make mugs talk.  Like those gangsters in the 1930s, Fisher refuses to be taken alive and is swallowed up in briny sea.  Still, his action does help to save other lives, and in this way, Fisher enables Carol to find a small measure of grace in the final memory she will have of him.

 

Putting earworms inside actual ears

As the principal composer of music for Foreign Correspondent, Newman had a major impact on the film’s ultimate success.  Yet Newman was not responsible for the music that has engendered the most attention in critical work on the film.  I’m referring here to two source cues written by Fox staff arranger, Gene Rose, that are featured in the scene where Van Meer is psychologically tortured.  His captors use sleep deprivation techniques to elicit van Meer’s cooperation, including bright lights and the repeated playing of a jazz record.  The two cues received rather cheeky descriptions on the cue sheet for Foreign Correspondent: “More Torture in C” and “Torture in A Flat.”

The use of jazz for these cues is likely a little bit of wicked humor on Hitchcock’s part.  Despite its popularity as dance music in the 1930s, some listeners undoubtedly believed that jazz was little more than noise with a swinging rhythm.  From a modern perspective, though, the scene eerily anticipates the “enhanced interrogation” techniques that would become notorious at Guantánamo and Abu Ghraib.  As The Guardian reported in 2008, US military played Metallica’s “Enter Sandman” at ear-splitting volume for hours on end, both at Guantanamo and at a detention center located on the Iraqi-Syrian border.  At the other end of the musical spectrum, one of the other pieces played repeatedly was “I Love You” sung by Barney the purple dinosaur.  Presumably the first was selected because of its aggressiveness, the latter because of its insipidness.  But the Barney song has the distinction of being characterized by military officials as “futility” music – that is, its use is designed to convince the prisoner of the futility of their resistance.

Although, in 1940, Hitchcock could not have envisioned the use of heavy metal and kidvid music as elements of enhanced interrogation, the scene from Foreign Correspondent is eerily prescient.  Viewed today, the scene also carries with it a strong element of political critique insofar as it associates such psychological torture techniques with a bunch of “fifth columnists” who are willing to commit murder and even engineer a plane crash in order to achieve their political ends.  Touches like these make Foreign Correspondent seem timely today, more than seventy-five years after its initial release.

 

Alfred Newman the Elder 

After Foreign Correspondent, Alfred Newman would go on to score more than a hundred and thirty feature films, and earn several dozen more Academy Award nominations.  His nine Oscar wins remain an achievement unmatched by any other film composer.  Newman died in Hollywood in 1970 at the age of 69, just before the release of his last picture, the seminal disaster movie, Airport.  His work on Airport received an Oscar nomination for Best Original Score, the 43rd such nomination of his long and distinguished career.

For some film music scholars, Newman’s death marked the end of an era, as his career was more or less contemporaneous with the history of recorded synchronized sound cinema in Hollywood.  As fellow composer Fred Steiner wrote in his pioneering dissertation on the development of Newman’s style:

As things are, we can be grateful for the dozen or so acknowledged monuments of this twentieth-century form of musical art— absolute models of their kind— that Newman did bestow on the world of cinema. Fashions in movies and in movie music may come and go, but scores such as The Prisoner of Zenda, Wuthering Heights, The Song of Bernadette, Captain From Castile, and The Robe are musical treasures for all time, and as long as people continue to be drawn to the magic of the silver screen, Alfred Newman*s music will continue to move their emotions, just as he always wished.

Because of its typicality, Foreign Correspondent may well seem like a speed bump on Newman’s road to Hollywood immortality.  Yet it remains a useful introduction to the composer himself, who along with Max Steiner and Erich Wolfgang Korngold, is part of a triumvirate that would come to define the sound of American film music.


For more on music in Alfred Hitchcock’s films, see Jack Sullivan’s encyclopedic Hitchcock’s Music. For more on the production of Foreign Correspondent, see Matthew Bernstein’s Walter Wanger: Hollywood IndependentReaders interested in learning about Alfred Newman’s career should consult Fred Steiner’s 1981 doctoral dissertation, “The Making of an American Film Composer: A Study of Alfred Newman’s Music in the First Decade of the Sound Era,” and Christopher Palmer’s The Composer in Hollywood.

Tony Thomas’s Film Score: The Art & Craft of Movie Music includes Newman’s own account of his work for the Broadway stage before coming to Hollywood.   Readers interested in an overview of the classical Hollywood score’s development should consult James Wierzbicki’s excellent Film Music: A History.

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Alfred Newman conducts his most famous film theme, Street Scene, in the prologue to How to Marry a Millionaire (1953).

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Invasion USA - Idee e ideologie del cinema americano anni '80 [libro]

Gli anni Ottanta come non li avete mai conosciuti o come non siete stati abituati a concepirli. Potrebbe essere racchiuso in questo breve concetto il testo di Pier Maria Bocchi e dedicato all'universo eighties del cinema statunitense. Come bene sottolinea Mario Maffi nell'introduzione al volume edito da Bietti per la propria collana Heterotopia, Invasion USA rappresenta una sorta di macchina del tempo attraverso la quale, con efficacia e concretezza, l'autore ci spinge nelle sponde inesplorate di un'epoca per conoscerne a fondo le propulsioni ideologiche alla base di un cinema contrastato e in parte contraddittorio. Gli anni Ottanta rappresentano un ponte fondamentale tra un'epoca di contestazione, in cui l'intento rivoluzionario iniziale si dissolve nella disillusione più totale, e l'esplosione pop dei '90 generalmente giocata tra indipendentismo graffiante e risistemazione sistemica dell'industria hollywoodiana. Bocchi traduce bene l'idea di ponte e costruisce la propria opera seguendo un itinerario virtuale con un punto di partenza e uno di arrivo. Nei primi capitoli l'autore si sofferma infatti sull'origine del decennio in questione, ne analizza gli antefatti, ne ricerca le spinte culturali, ne studia le influenze subite sia dal cinema passato che dal contesto sociopolitico del tempo. Ed è così che, tra un titolo e l'altro, si ripercorre anche una porzione di storia d'America affascinando il lettore con un continuo e mirabolante balzo tra l'evoluzione del cinema, con i suoi cavalieri più sfrenati (Spielberg e Lucas solo per citare i due più eighties), e la cronaca degli eventi dominanti di quegli anni. Primo fra tutti l'ascesa di Ronald Reagan e del suo concetto sfrenato di liberismo e neo-conservatorismo fatto di odio e ricerca spasmodica del nemico. E' il periodo della nascita dello show business come siamo stati abituati a pensarlo, con l'espansione dei mercati di fruizione alternativi e la crescita esponenziale del pubblico, dello sviluppo di un cinismo collettivo visibile in ogni strato sociale e culturale, della conseguente nascita dello yuppismo, dell'arrivismo sfrenato, dell'idea dell'uomo come self-made-man. Concetto trasfigurato dai e sui volti di Gordon Gekko e Tony Montana. Ma anche della nuova spinta contestatrice principalmente basata sulla ricerca di nuovi diritti per i più deboli definitivamente emarginati da una politica machista e identitaria (dilagante è il ritorno a film moralisti, conformisti o apertamente razzisti). Sono gli anni della politica estera più “fredda” mai esistita dal dopoguerra con l'impero del male pronto a mettere in discussione la sana e robusta famiglia statunitense (ecco i Rocky, i Rambo, i Commando e i Predator, gli Star Wars e i Delta Force) e la politica interna più chiusa su se stessa che si ricordi con il grande deficit economico, il classismo galoppante, l'elevata spesa economica militare e il taglio delle tasse. E' la reaganomics, quella che, in sostanza, ha fatto del concetto del “me” la sua arma di propaganda e la sua chiave di ingresso nella nuova idea di società capitalistica. Bocchi interagisce bene con questi argomenti mostrandosi capace di correre da un tema all'altro seguendo una linea narrativa agile. Non si lascia imbrigliare dalla cadenza storica ma si fa guidare da una passione per l'argomento che traspare in ogni angolo del testo.

Il ponte da lui costruito gli permette di vedere le ripercussioni del cinema degli anni '70 su quello degli '80, gli consente di controllare, come un padre con la sua creatura, cosa di buono in termini cinematografici sia stato tradotto dal nuovo decennio. Vede con un occhio il cinema mainstream e ce lo racconta con dovizia e meticolosità (la moda delle saghe e dei muscolosi eroi) salvo poi aprire a dismisura l'altro occhio per raccontarci con gioia quelle porzioni di cinema a noi meno conosciute (prova ne è l'elenco finale dei 20+1 film scelti dall'autore). Interessanti sono le analisi accurate dell'evoluzione del mercato, dei suoi cambiamenti (per una volta i numeri e le cifre attirano l'attenzione del lettore perché inseriti in un contesto ben delineato invece di essere freddamente sviscerati). Della prepotenza del già citato duo Spielberg-Lucas e della nuova idea di cinema che da esso ne scaturisce (con tutte le conseguenze del caso), del cambiamento a cui è stata costretta sia l'industria cinematografica che la critica di quegli anni (obbligata a ripensarsi in virtù di un patto mai esistito tra pubblico e qualità di prodotto). Bocchi guarda con interesse alla fine dell'epoca passata e all'inizio di quella ventura con un approccio meticoloso. Ricerca a fondo i punti di contatto e di rottura e, ad esempio, li riporta nelle singole filmografie degli autori affermati, per scoprire come miti del passato abbiano subìto passivamente il trasloco negli eighties (Arthur Penn, Peter Bogdanovich, Robert Altman) mentre altri ne abbiano compreso appieno lo spirito nei loro film (i suoi quattro sono Woody Allen, Martin Scorsese, John Carpenter e, soprattutto, Brian De Palma). Stessa operazione la attua con i generi cinematografici. Li distende sul suo lettino analitico e con eguale concretezza li segmenta per mettere in evidenza come il fenomeno sia stato, in alcuni casi, al centro di un ripensamento, talvolta rimescolamento, come mai accaduto prima e in altri sia stato il veicolo principale di rigenerazione produttiva delle major grazie al ricorso ad alcune rinvigorite e specifiche tipologie di film (fantascienza, fantasy e avventura in special modo). Da questo emergono questioni non poco rilevanti che mettono in crisi la produzione cinematografica e riscrivono i confini dei generi senza i paletti dei cliché abituali. Il neo-conservatorismo velato incastonato nella saga comica e dissacrante della famiglia Griswold è infatti un esempio calzante, secondo Bocchi, del nuovo approccio all'arte cinematografica (corrotta per certi versi ma anche aperta ad ogni evenienza) così come lo è tutto il resto del cinema di Hughes il quale, dietro un approccio all'apparenza rivoluzionario, si cela in realtà un profondo attaccamento all'americanismo più puro e diretto. La bravura dell'autore risiede anche nel saper calibrare la propria visione del periodo cinematografico con la mole di incursioni citazioniste tratte dai saggi, dai testi, dagli articoli e dagli scritti di affermati studiosi americanisti. In un dialogo costante fatto non solo di condivisioni ma anche di contrapposizioni verso ideologie e concetti sino ad oggi radicati, il bravo Bocchi trascina il proprio lettore, appassionato o studioso che sia, verso la fine di un viaggio breve ma intenso senza mai imbrigliare la scrittura nella pachidermica struttura antologica, senza aspirare al giudizio definitivo nei confronti dei fenomeni analizzati ma interagendo con il proprio lettore.

Le sezioni appaiono come detto brevi ma catturano l'essenza del periodo storico e, ad ogni lettura, lasciano in eredità al fruitore una serie di spunti di riflessione, di interrogativi potenzialmente efficaci per nuovi coinvolgenti e ipotetici spin-off sul grande argomento degli '80 statunitensi. Chissà se non ci sia spazio per queste evoluzioni in un futuro prossimo?

Autore: Pier Maria Bocchi
Prefazione: Mario Maffi
Titolo: Invasion USA - Idee e ideologie del cinema americano anni '80
Editore: Bietti
Collana: Heterotopia
Dati: 204 pp.
Anno: 2016
Prezzo: 18,00 €
Isbn: 9788882483494
web info: Scheda libro sul sito Bietti Editore



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10 Things I Learned: One-Eyed Jacks


  • 10 Things I Learned: One-Eyed Jacks

    By Abbey Lustgarten



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Essential Art House On Sale

Now’s your chance to catch up on the classics! Select Essential Art House DVD releases are on sale starting at $9. They make great stocking stuffers!

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The Road to Hell: Designing Lone Wolf and Cub

The Lone Wolf & Cub film series has its roots in the Kazuo Koike and Goseki Kojima’s seminal manga of the same name, which was itself a major influence on western cartooning and illustration in the 1980s. It felt only natural to pay homage to that connection in our design. We brought in Paul Pope, an American artist whose work is heavily influenced by Japanese brushwork and manga styles.

We pointed Paul toward the motif of the “road to hell,” represented in the films as a glowing white road flanked by flames on one side and water on the other. We liked the concept but felt it might be too pastoral or cerebral on its own, so we asked Paul to find a way to bring in a sense of the action and carnage in the films.

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We landed on an image of the road to hell built out of the bodies of Itto Ogami’s fallen enemies, a gruesome concept that Paul executed with lyrical beauty (aided by colorist Ron Wimberly’s bold “grindhouse” palate).

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As a final touch, we wanted to highlight the faithfulness of the adaptation, which is unsurprising when you consider that Koike himself wrote or cowrote five out of the six films. Inside the box, Paul focused on scenes that appear in both the films and the manga. The faux-manga pages that he came up with are inspired by Kojima’s work but evocative of both sources.

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Adler Entertainment: nel 2017 arrivano Tom Hanks e Colin Firth

Presentati alle Giornate di Cinema di Sorrento i nuovi film 2017 della distribuzione: Nei film del nuovo listino le sorprese si succedono e niente è mai come sembra.

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Good Films: i film del 2017 al ritmo cubano

Presentati alle Giornate di Cinema di Sorrento i nuovi film 2017 della distribuzione: Tornano i Buena Vista Social Club e il cinema italiano dai grandi personaggi.

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M2 Pictures: i nuovi intriganti film del 2017

Presentati alle Giornate di Cinema di Sorrento i nuovi film 2017 della distribuzione: Un pizzico di Italia, tenerezza e tanto cinema di genere.

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I film spettacolari di Warner Bros. Italia del 2017

Presentati alle Giornate Professionali di Cinema di Sorrento i nuovi film 2017 della distribuzione: Cinecomic di ottimo livello, registi di classe, mostri e intrattenimento.

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Poveri ma ricchi: foto in esclusiva della commedia di Natale con Christian De Sica

Il film di Fausto Brizzi arriva nei cinema il 15 dicembre prossimo.

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Rogue One: A Star Wars Story non avrà un sequel

Lo conferma la presidente della Lucasfilm, Kathleen Kennedy.

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La ragazza dei miei sogni: ecco in anteprima il trailer del film con Primo Reggiani, Miriam Giovanelli e Nicolas Vaporidis

Il film diretto da Saverio Di Biagio arriverà al cinema in primavera.

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Incarnate, ecco il trailer italiano dell'horror demoniaco con Aaron Eckhart

Il film debutterà nelle sale italiane il prossimo 11 gennaio 2017

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Manchester by the Sea con Casey Affleck è il miglior film del 2016 per il National Board Of Review

Il dramma arriverà da noi a febbraio, mentre per il NBOR il miglior regista è il Barry Jenkins di Moonlight.

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Joaquin Phoenix disegnatore satirico per Gus Van Sant

L'attore tornerà a lavorare per il regista che lo diresse vent'anni in Da morire.

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Kenneth Branagh Theatre Company - Romeo e Giulietta

Kenneth Branagh firma un'ottima versione cinematografica di una messa in scena shakerspeariana
* * * * - (mymonetro: 4,00)

Regia di Kenneth Branagh, Rob Ashford. Con Derek Jacobi, Lily James, Richard Madden.
Genere Teatro - Gran Bretagna, 2016. Durata 184 minuti circa.

La vicenda dei due giovani innamorati di Verona scritta da Shakespeare viene portata sulla scena da Kenneth Branagh e Rob Ashford al Garrick Theatre di Londra collocandola negli Anni '50 e affidando la regia cinematografica a Benjamin Caron.





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Tilda Swinton, Harry Potter e il collegio

All'attrice, vista di recente in Doctor Strange, non piace la saga dell'occhialuto maghetto per via di un'avversione nei confronti delle boarding schools.

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Don'T Crack Under Pressure - Season Two




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Cos'hanno in comune alcuni tra i più eroici atleti, campioni dello sport e recordmen provenienti da Tahiti, Svezia, Australia, Italia, Messico, Stati Uniti, Hawaii e Svizzera? Forse la determinazione utile a rialzarsi dopo il fallimento di una caduta, il coraggio di rimettersi in gioco dopo aver riportato una ferita oppure l'umiltà nel gestire i propri successi?
I film di La Nuit de la Glisse documentano le avventure di uomini e donne pieni di una gioia di vivere che straripa nella passione per una vera e propria arte: la capacità di restare fedeli allo stile di vita scelto, nello sport come nella vita di tutti i giorni, in cui risiede l'arte del vivere.

martedì 29 novembre 2016

Top 2016: sono i Cahiers du Cinéma ad aprire le danze delle classifiche di fine anno

Per la storica rivista francese il film più bello del 2016 è Toni Erdmann di Maren Ade, visto in concorso a Cannes lo scorso maggio.

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Bradley Cooper sarà il protagonista del dramma bellico Atlantic Wall

A dirigere il film ambientato nella Seconda Guerra Mondiale è stato chiamato Gavin O'Connor

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PRIMA VISIONE: SULLY Dal 1° dicembre, in versione originale con sottotitoli, l'ultimo film di Clint Eastwood con Tom Hanks. Guarda il trailer.



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On the Channel: Anahita Ghazvinizadeh Pays Homage to Bresson

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Anahita Ghazvinizadeh’s short film Needle, which won the 2013 Cinefondation prize at Cannes, premieres today on the Criterion Channel as part of our weekly Short + Feature. I first met Anahita through programming the short at the Chicago International Film Festival, and we talked about her passion for the work of Robert Bresson and how her research into the French master’s methods directly informed her filmmaking. Anahita grew up in Iran, where she studied under another all-time great, Abbas Kiarostami. And this is her first film made in the U.S. and in English.

When I thought of showing Needle on the channel, I of course immediately thought of Bresson, and specifically of his 1967 Mouchette. Needle follows Lily, an adolescent girl whose quest to get her ears pierced is stalled by her parents’ constant fighting. The tale of Mouchette is more explicitly one of cruelty and denigration, but both stories are told through the eyes of young girls who must come to terms with the harshness of the world around them.

In Anahita’s short introduction to the double bill, she discusses her love of Bresson and how she was influenced by his writings and “the way he talks about spontaneity and naturalism, but at the same time the construct of the film.” She played particularly close attention to his notes on “details of the body” and incorporated what she learned in the way she directed and shot Needle, which feels both naturalistic and strikingly heightened at the same time. Listen to what she has to say in the below video:




from The Criterion Current http://ift.tt/2gT8DNR

Uscite al cinema, 29 novembre-3 dicembre 2016

Dieci nuovi titoli vi aspettano al cinema a partire dal 29 novembre, tra i quali: la storia del capitano Chelsea Sullenberger raccontata da Clint Eastwood e Tom Hanks; il ritorno di Matthew McCounaghey nei panni di un contadino ribelle nella'America confederata; la storia dolce-amara del dolce Zucchina; il consueto appuntamento natalizio con il cine-panettone con protagonisti Massimo Boldi e Biagio Izzo.

AMORE E INGANNI
Regia: Whit Stillman; Genere: Drammatico, sentimentale, commedia; Cast principale: Kate Beckinsale, Chloë Sevigny, Xavier Samuel, Morfydd Clark, Jenn Murray, Stephen Fry; Data di uscita: 1 dicembre.

Breve sinossi: Lady Susan Vernon è una giovane donna molto scaltra che, curiosa di scoprire nuovi pettegolezzi, si reca a Churchill per una vacanza. Il suo scopo è quello di scovare un buon partito per lei e per sua figlia, in un cinico e beffardo anfratto di società, nel quale la lingua ferisce molto più della spada.

FREE STATE OF JONES
Regia: Gary Ross; Genere: Drammatico, storico; Cast principale: Matthew McConaughey, Gugu Mbatha-Raw, Mahershala Ali, Keri Russell, Brian Lee Franklin, Donald Watkins, Christopher Berry, Sean Bridgers, Bill Tangradi, Thomas Francis Murphy, Joe Chrest, Jacob Lofland, Jessica Collins, Gary Grubbs; Data di uscita: 1 dicembre.

Breve sinossi: Newt Knight è un contadino che, deciso a rivendicare i propri diritti civili assieme a quelli degli schiavi, si ribella alla Confederazione degli Stati del Sud, combattendo a capo di un improbabile esercito di rivoltosi.

I CORMORANI
Regia: Fabio Bobbio; Genere: Avventura; Cast principale: Samuele Bogni, Matteo Turri; Data di uscita: 1 dicembre.

Breve sinossi: E' estate e Matteo e Samuele la trascorrono, come sempre, giocando in riva al lago, nei prati e al centro commerciale. Ma qualcosa sta cambiando, perchè rispetto agli anni passati, i due ragazzi cominciano ad avvertire nuove necessità: stanno diventando grandi e guardano il mondo da una diversa prospettiva...

L'AMORE RUBATO
Regia: Irish Braschi; Genere: Drammatico; Cast principale: Elena Sofia Ricci, Stefania Rocca, Gabriella Pession, Chiara Mastalli, Francesco Montanari, Alessandro Preziosi, Elisabetta Mirra, Emilio Solfrizzi, Antonello Fassari, Massimo Poggio, Antonio Catania, Daniela Poggi, Cecilia Dazzi, Luisa De Santis, Emanuel Caserio; Data di uscita: 29 novembre.

Breve sinossi: Cinque donne, cinque storie diverse, ma accomunate dalla violenza, da un amore morboso che amore non è e da tanta, troppa, ingiustificata sofferenza.

LA MIA VITA DA ZUCCHINA
Regia: Claude Barras; Genere: Animazione; Data di uscita: 2 dicembre.

Breve sinossi: Zucchina è il soprannome di un bambino di appena nove anni che viene mandato a vivere in una casa famiglia dopo la prematura scomparsa della madre. Lì, assieme ai suoi nuovi amici, riuscirà a ritrovare la serenità e a elabroare il lutto per la morte del genitore.

LA STOFFA DEI SOGNI
Regia: Gianfranco Cabiddu; Genere: Drammatico; Cast principale: Sergio Rubini, Ennio Fantastichini, Teresa Saponangelo, Francesco Di Leva, Ciro Petrone; Data di uscita: 1 dicembre.

Breve sinossi: Camorristi e attori in cerca della loro identità si ritrovano tutti assieme su un'isola-carcere. Lì, nel tentativo di mettere in scena “La tempesta” di William Shakespeare, sarà compito del direttore capire chi è chi, scandagliando l'animo di ognuno di loro, in un turbinio di emozioni, passioni e individualità ambigue.

PEPPA PIG IN GIRO PER IL MONDO
Genere: Animazione; Data di uscita: 3 dicembre.

Breve sinossi: Peppa Pig e i suoi amoci vanno in giro per il mondo a scoprire e a divertirsi con cose nuove e mai viste.

ROCK DOG
Regia: Ash Brannon; Genere: Animazione; Cast principale: Luke Wilson, J.K. Simmons, Eddie Izzard, Matt Dillon, Mae Whitman, Sam Elliott; Data di uscita: 1 dicembre.

Breve sinossi: Body è un cane pastore addestrato fin da cucciolo da suo padre per essere pronto a guidare il gregge di pecore quando sarà il momento. Ma quando Body ascolta una canzone rock da una radio caduta dal cielo, la sua vita cambierà per sempre...

SULLY
Regia: Clint Eastwood; Genere: Drammatico, biografico; Cast principale: Tom Hanks, Aaron Eckhart, Laura Linney, Anna Gunn, Mike O'Malley, Ann Cusack, Sam Huntington, Jamey Sheridan, Autumn Reeser, Jerry Ferrara, Jeff Kober, Holt McCallany, Molly Hagan, Chris Bauer, Michael Rapaport; Data di uscita: 1 dicembre.

Breve sinossi: Il 15 gennaio 2009, il capitano Chelsea Sullenberger fu costretto a dar fondo a tutto il suo coraggio e alla sua esperienza per effettuare un atterraggio miracoloso sulle acque del fiume Hudson, salvando la vita dell'intero equipaggio. Per questo la gente lo acclama come un eroe, ma la vita di Sully non sarà più la stessa...

UN NATALE AL SUD
Regia: Federico Marsicano; Genere: Commedia; Cast principale: Massimo Boldi, Biagio Izzo, Anna Tatangelo, Paolo Conticini, Debora Villa, Barbara Tabita, Enzo Salvi, Loredana De Nardis, Simone Paciello, Riccardo Dose, Giulia Penna, Ludovica Bizzaglia, Paola Caruso, Giuseppe Giacobazzi; Data di uscita: 1 dicembre.

Breve sinossi: Peppino e Ambrogio decidono di trascorrere al Sud il Natale con le rispettive famiglie. Presto, i due verranno a conoscenza delle occupazioni virtuali dei loro figli, fidanzati con ragazze conosciute sul web, ma mai incontrate dal vivo. Per Peppino e Ambrogio questa è l'occasione per insegnare qualcosa ai loro ragazzi...



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Torino 2016 - I figli della notte

Unico film italiano in concorso al Festival di Torino, I Figli della Notte è il lungometraggio di esordio di Andrea De Sica, “figlio d'arte” del cinema italiano, nipote di uno dei nostri assoluti più riveriti Maestri, Vittorio de Sica. Suo padre era Manuel, compianto compositore di molte bellissime colonne sonore; sua madre è la produttrice Tilde Corsi. Questo apparato parentale lo avrà certamente facilitato lungo l'impervia strada percorsa da quanti in Italia tentano di fare cinema, e quando puoi contare su certi “aiutini” (sia detto senza polemica e con affettuosa bonomia) forte è il rischio che siano ad attenderti al varco gli invidiosi, e quella schiatta variegata e colorita iperattiva nei blog e su facebook che sono i cinefili duri e puri. I quali, va detto, dopo la proiezione di Torino si sono immediatamente scatenati online con avarizia di “stelline” e status avvelenati marchiati da una cattiveria gratuita e tranchant. Sul fronte della stampa ufficiale e dei Media in generale che hanno dato ampia copertura all'anteprima festivaliera del film, non si sono invece risparmiati gli elogi e gli entusiasmi. La verità, almeno questa volta, sta nel mezzo, pur pendendo leggermente verso un parere tutto sommato non proprio positivo.

Valutando i pregi del film, senza dubbio l'idea di partenza è splendida ed è già un miracolo che un giovane italiano esordiente scelga di esulare dai troppi soggetti metropolitani con trentenni in crisi di crescita preoccupati che la fidanzata li cornifichi, o, ultimamente, di non riuscire ad arrivare alla fine del mese “perché c'è la crisi”… Altrettanto magnifica e insolita la location principale, un albergone austroungarico tra l'Overlook Hotel e il sanatorio di Davos (quello di Youth), che ospita le annate scolastiche di giovani e ricchi rampolli della classe dirigente del Paese, perché vengano educati alla solitudine e ai rigori della disciplina. Poi c'è che De Sica jr sa girare e sa montare, e soprattutto pensa in grande, forse perché, sì, sa che può permettersi certe ambizioni, ma gli va dato atto che, magari ancora troppo suggestionato da Kubrick, Lynch, Dario Argento, un suo sguardo preciso ce l'ha e sa gestirlo.

Purtroppo, e qui iniziano le note dolenti, alla maturità raggiunta come orchestratore di immagini non corrisponde altrettanta qualità di narratore, e dopo un incipit promettente arrivano, non pochi, i problemi. Tra i due protagonisti maschili nasce immediato un legame sulla cui ambigua natura De Sica jr schiaccia fin da subito un pedale inopportuno, visto che la premessa rimane campata in aria né verrà mai chiarita. Gli allievi del collegio restano relegati sullo sfondo, senza mai riuscire a diventare una coralità sulla quale far emergere e navigare la coppia di protagonisti. Le ottime facce e gli ottimi corpi di attorgiovani selezionati per i ruoli di contorno degli amici più intimi non vengono sfruttati a dovere, e così sottoutilizzati finiscono per aggiungere poco o niente al senso, al succo e allo sviluppo del plot. Per fare un esempio, c'è una bella sequenza, forse la più riuscita del film, che è quella dell'allievo che canta “Vivere” a squarciagola mentre tiene sotto scacco con una pistola il personale docente e non docente dell'istituto: una bella scena, ben girata, ben montata, ma… questo allievo CHI È? Si è visto poco, in altri momenti del film, sempre in un angolo, in ombra, fuori fuoco, e non ha pronunciato che un paio di battute di servizio; si sa così poco di lui, che quel suo cammeo squillante, spettacolare, istrionico, risulta un inatteso fulmine a ciel sereno cui si arriva inadeguatamente preparati per ammirarlo come meriterebbe. E una sequenza così bella, così come è arrivata dal nulla, nel nulla svapora…

Ora, nessuno dovrebbe permettersi, tra il pubblico (che pure paga, e qualche diritto lo avrebbe) e i critici, di dire a un regista come dovrebbe fare il suo film. Ma con tante premesse e tante ambizioni sostenute da un'indubbia qualità di gesti e sguardi da aspirante mattatore della regia, si sarebbe preferita una storia più interessante, concentrata sulle relazioni interpersonali di questi golden boys antipatici, complessati, insicuri, che avrebbe potuto fornire un ipotetico saggio sociopolitico sull'attuale classe dirigente in erba, condito, come il Törless di Robert Musil, di tormentata inquietudine adolescenziale, senza il timore di risultare noiosi: il cinema americano è maestro nel far passare messaggi complessi attraverso prodotti con un assetto da superproduzioni macinaquattrini. Qui invece, per solleticare il guardonismo di certo pubblico che ormai trova gratuitamente su internet ogni possibile stimolo e sfogo alle proprie fantasie erotiche, si è preferito cavalcare la via certo più pop, ma più debole e forse, ahimè, datata almeno di dieci, se non quindici anni, di un pleonastico love affair del giovane protagonista con una lap dancer slava che si esibisce in un improbabile chalet a luci rosse sperduto nella foresta, frequentato da loschi e laidi personaggi della zona (chi va in vacanza d'estate o d'inverno da quelle parti sa bene che il confine di Stato è a due passi), clienti di un pretestuoso stuolo di mignotte. Il bello è che dentro lo chalet De Sica jr sceglie di farci trascorrere la maggior parte del film, sventuratamente trascurando il ben più intrigante collegio, zeppo di ormoni a 24 carati e di psicologie represse, soffocate, inesplose, un intreccio serrato di invidie e antipatie viscerali e cinegienicissime, in favore di un minutaggio troppo cospicuo rispetto alla contenuta durata del tutto (85 minuti) dedicato a cosce e culi scoperti, per quanto procaci.

Basterebbero i brevi ma fulminanti inserti delle partite di hockey su ghiaccio per dimostrare quanto De Sica jr, che sa girare e montare, avrebbe saputo gestire certe atmosfere stranianti che non gli è riuscito di ricreare altrove, nemmeno quando imitando il Kubrick di Shining avanza nei corridoi deserti del collegio. È da lì che dovrà ripartire la prossima volta, per confezionare un prodotto cinematografico che non si sperda dietro rivoli e rivoletti non necessari e poco originali, e porre maggiore concentrazione sulle motivazioni valide e plausibili che portano i personaggi di un film ad agire e a compiere gesti che lasciare inspiegati e ingiustificati può infastidire lo spettatore, o più semplicemente mandarlo a casa non sazio, con la bocca amara.

Un'occasione persa? Forse sì, o quantomeno un primo tentativo riuscito a metà, e spiace registrarlo, ma si spera che De Sica jr faccia tesoro dei pochi ma sonori fischi che hanno accolto la prima del suo film disturbando l'applauso festoso dei molti amici e parenti che stipavano la sala più grande e più bella del Cinema Reposi, e scelga di realizzare la sua opera seconda con più coraggio, più azzardo, più fantasia, a tutto vantaggio del (suo) Cinema.

(I figli della notte); Regia: Andrea De Sica; sceneggiatura: Andrea De Sica, Mariano Di Nardo, Gloria Malatesta; fotografia: Stefano Falivene; montaggio: Alberto Masi; musica: Andrea De Sica; interpreti: Vincenzo Crea, Ludovico Succio, Fabrizio Rongione, Yulia Sobol, Luigi Bignone, Pietro Monfreda; produzione: Vivo Film, Rai Cinema, Tarantula; origine: Italia, Belgio, 2016; durata: 85'



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