martedì 30 giugno 2020

Black Mozart, la storia vera di un prodigio della musica del ‘700, francese e di colore

Presto diventerà un film per Searchlight Pictures, la storia vera di Chevalier de Saint-Georges, passato alla storia come il Black Mozart, il Mozart nero. Una vicenda sicuramente affascinante, portata avanti da tempo come soggetto originale da Stefani Robinson, sceneggiatrice classe 1993, vincitrice dell’Emmy per la serie Atlanta e What We Do in the Shadows, mentre la regia del film sarà di Stephen Williams (Watchmen e Westworld).

Si tratta di una storia poco nota, almeno in questi tempi, che vede al centro un prodigio della musica, nato nel 1745 nei Caraibi francesi, figlio illegittimo di una schiava africana e del proprietario francese di una piantagione. Nonostante i suoi natali poco consoni all’alta società dell’epoca, ottenne grande considerazione come violinista e compositore, ma anche come schermidore. Momenti di gloria a cui seguì una prematura caduta in disgrazia a causa di una poco consona storia d’amore con una nobildonna francese, ma sopratutto di litigi con Maria Antonietta e la sua corte.

Il progetto sarà sviluppato, finanziato e prodotto, dalla Searchlight, ex Fox Searchlight e ora di proprietà della Disney.



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Harvey Weinstein pagherà 19 milioni di dollari alle vittime delle sue violenze sessuali

Dopo essere stato condannato penalmente per stupro, Harvey Weinstein si è accordato in seguito a una class action portata avanti dalle vittime delle sue molestie e violenze sessuali e assistita dal procuratore generale di New York. Sono 18.875.000 $ che l’ex produttore, attualmente in carcere per una prima condanna a 23 anni, dovrà pagare per due diverse cause portate avanti dalle donne sue vittime, con ci si è accordato.

Nessuna di loro è legata al processo newyorkese, a dimostrare l’ampiezza dei suoi abusi e il numero davvero notevole delle persone coinvolte. Sono solo sei le donne che hanno testimoniato alla sbarra, mentre più di 100 sono quelle che hanno accusato Weinstein. Manca ancora l’approvazione definitiva delle corte, dopo di che verrà creato un fundo che permetterà a tutte le donne abusate dal mogul di portare avanti, entro determinati vincoli, richieste di danni in maniera confidenziale.

Harvey Weinstein è ancora in attesa di processo a Los Angeles, dove rischia fino a 32 ulteriori anni di prigione in seguito a cinque diversi capi d’importazione, anche se la richiesta di estradizione in California è rallentata a causa dell’impatto della pandemia sul sistema giudiziario americano. 



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Bombshell - La voce dello scandalo

La vicenda di Roger Ailes di Fox News, accusato di molestie sessuali
* * * - - (mymonetro: 3,20)
Consigliato: Sì
Regia di Jay Roach. Con Nicole Kidman, Charlize Theron, Margot Robbie, Kate McKinnon, Allison Janney, John Lithgow, Malcolm McDowell, Alice Eve, Alanna Ubach, Stephen Root, Connie Britton, Brigette Lundy-Paine.
Genere Biografico - USA, 2019. Durata 108 minuti circa.

Nel 2016, durante un dibattito con Donald Trump, Megyn Kelly, anchorwoman di Fox News, rete televisiva espressione della destra conservatrice americana, incalza il futuro Presidente a proposito della sua misoginia, e per questo viene attaccata dagli ascoltatori e dal presidente del network, Roger Ailey. Nello stesso periodo, la presentatrice Gretchen Carlson, sensibile ai temi del femminismo in un ambiente poco incline a valorizzare le donne, viene licenziata da Ailey e poco dopo fa causa all'ex capo per molestie sessuali, dando così inizio alla bufera giudiziaria che travolgerà l'uomo e porterà al suo licenziamento. Sull'onda del caso, anche Megyn Kelly accusa ufficialmente Ailey, mentre la giovane giornalista Kayla Pospisil, che per coronare il sogno di fare carriera a Fox News aveva accettato le offerte di Ailey, trova il coraggio di lasciare il suo posto.





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Un figlio di nome Erasmus

Un manuale d'istruzione semi-serio per uomini afflitti dalla Sindrome di Peter Pan
* * - - - (mymonetro: 2,30)

Regia di Alberto Ferrari. Con Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Daniele Liotti, Ricky Memphis, Carol Alt, Filipa Pinto, Giorgio Gobbi, Fernando Rodrigues, Valentina Corti (II), Elena Vanni, Giulia Galiani, Andrea Bonella, Frederico Amaral, Giordana Faggiano, Gabriele Carbotti, Giordano Agrusta.
Genere Commedia - Italia, 2020. Durata 107 minuti circa.

Jacopo lavora per una multinazionale di carattere umanitario; Ascanio fa la guida alpina per manager in cerca di ispirazione; Enrico è un architetto candidato alla Camera dei deputati e in procinto di sposarsi; e Pietro è un "manager artistico" il cui principale cliente è un gruppo che fa cover dei Pooh. Sono amici da quando erano ragazzi, ed è proprio un ricordo di gioventù a riunirli: una loro ex fiamma, Amalia, conosciuta durante il periodo di studio del quartetto in Portogallo, è deceduta e un giudice li ha convocati per comunicare loro le ultime volontà della defunta. All'arrivo scopriranno che uno di loro è il padre del figlio di Amalia: ma chi? Non resta che partire per un viaggio alla scoperta della paternità, che sarà anche un viaggio di scoperta di se stessi e un rinnovo dell'amicizia decennale.





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La sfida delle mogli

Donne in guerra
* * 1/2 - - (mymonetro: 2,83)
Consigliato: Assolutamente Sì
Regia di Peter Cattaneo. Con Sharon Horgan, Kristin Scott Thomas, Teresa Mahoney, Jason Flemyng, Amy James-Kelly, Ruth Horrocks, Emma Lowndes, Davina Sitaram, Colin Mace.
Genere Commedia - Gran Bretagna, 2019. Durata 110 minuti circa.

Kate ha sposato Richard e con lui la guerra. Moglie di un colonello e madre di un figlio caduto in battaglia, Kate vive in una base militare inglese e condivide con altre donne una guerra di rassegnazione. Perché i loro uomini sono (di nuovo) in missione in Afghanistan e loro hanno un dannato bisogno di tenersi occupate, di non pensare al peggio. Veterana del 'campo', Kate si offre volontaria per sostenere Lisa, nominata responsabile delle attività ricreative. Compassata e classica l'una, informale e pop l'altra, Kate e Lisa si scontrano su tutto. A metterle d'accordo è finalmente il progetto di un coro. La musica si rivela un vero balsamo per le donne della base, un progetto che le porterà più lontano di quanto pensassero e più vicine ai rispettivi consorti.





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Vincitore del XXXVII Fantafestival, 'Almost Dead' approda su Amazon Prime Video

Diretto da Giorgio Bruno, fondatore della casa di produzione e distribuzione Explorer Entertainment (Paranormal Stories, L'esigenza di unirmi ogni volta con te), Almost Dead è un film che mescola gli stilemi del survival a quelli dello zombie movie.

Il lungometraggio racconta la storia di Hope (Aylin Prandi), la quale si sveglia in una macchina sul ciglio di una strada deserta, seduta al fianco del cadavere di una donna.

Nell'abitacolo pochi oggetti: una pistola e un telefono cellulare quasi scarico. Nella sua mente ancora meno ricordi: Hope non sa perché si trovi dentro quell'auto e in quella situazione che subito si complica quando il cadavere, inspiegabilmente, si sveglia azzannandole il braccio.

Mentre un gruppo strane creature dal passo lento inizia a circondare la macchina, rendendo impossibile l'uscita, una donna misteriosa, al telefono, rivela a Hope la presenza di un siero, in auto, capace di fermare il virus entrato nel suo corpo attraverso il morso. La donna ha solo sei ore di tempo prima che il virus entri nel flusso sanguigno, trasformandola per sempre!

Almost Dead è un thriller dal respiro moderno e innovativo che trae ispirazione da felici esperimenti cinematografici come Buried – Sepolto. Come il film di Rodrigo Cortés, anche quello di Giorgio Bruno dimostra come una location, un habitat [in questo caso una macchina], possa diventare parte integrante nello sviluppo della narrazione e del pathos filmico.

L'atmosfera claustrofobica e oscura di Almost Dead e un ritmo moderno e veloce accompagnano lo spettatore nel riuscito pellegrinaggio attraverso i generi: dal thriller, al post-apocalittico, al film psicologico, all'horror.

Distribuito da Draka, Almost Dead è già disponibile su Amazon Prime Video.



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Freeman - Antonioni: due sentieri nel bosco delle immagini

“Fate a meno della realtà e non farete mai un quadro mal riuscito.”
Alberto Giacometti

Jorge Luis Borges concepiva nel Sentiero dei giardini che si biforcano un delitto il cui unico movente risulta essere quello di lanciare un segnale in codice per un'operazione di spionaggio bellico, oltre che rivelarsi lo spunto per enunciare diverse folgoranti teorie sul funzionamento del tempo. In due boschi londinesi, a distanza di alcuni decenni, due delitti vengono compiuti per trasformarsi in opere d'arte e dare il via a una sequela di riflessioni intorno all'arte contemporanea e alla sua presa sul mondo dei fenomeni.

R. Austin Freeman, giallista

Probabilmente Michelangelo Antonioni e il suo Blow-up (1966) non hanno bisogno di particolari presentazioni, mentre qualche cenno storico va fatto su Richard Austin Freeman (1862-1943) e il suo ultimo romanzo, Il mistero di Jacob Street (The Jacob Street Mystery o – come recita il rivelatore titolo alternativo – The Unconscius Witness, 1942). Freeman è tra i più importanti giallisti inglesi del post-Conan Doyle. Col nome di Clifford Ashdown produsse raccolte di racconti dedicati a Romney Pringle, investigatore in incognito dietro la fittizia identità di agente letterario. Ma la gloria imperitura gli arrise col vero nome quando ideò la sua grande creazione: il dottor John Thorndike, precursore e modello per qualsiasi detective che faccia sue le armi della scienza per dipanare le matasse del crimine. Fin dal suo esordio, L'impronta scarlatta (The Red Thumb, 1907), Thorndike si piazza nella casa di King's Bench Walk (attribuita a Christopher Wren) col suo Watson personale Cristopher Jervis e il fido assistente di laboratorio Nathaniel Polton, per diventare l'eroe del razionalismo positivista applicato alla detection. Esprit positivista tipico della poetica di Freeman che – spinto all'eccesso – produrrà il delirio lombrosiano di Una vendetta scientifica (A Savant's Vendetta), romanzo “fuori serie” su una giustizia privata di impressionante virulenza. Non è tutto. La concezione rigidamente geometrica del plot – che accomuna Freeman a S.S. Van Dine e al suo impareggiabile Philo Vance – lo spinge a una inedita sperimentazione strutturale, invertendo i termini del poliziesco classico. Ed ecco la seminale short story Premeditazione (A Case of Premeditation), dove nelle prime venti pagine (L'eliminazione del signor Pratt) si assiste all'esecuzione del delitto, laddove le restanti venti (Segugi a confronto) sono occupate dalla sua ri-costruzione tramite indagine. Praticamente lo schema che ha fatto la fortuna del Colombo televisivo.

Tom Pedley, pittore di paesaggio; Thomas, fotografo di moda

Detto questo, qual è il grado di parentela tra il pittore paesaggista Tom Pedley, che in un piacevole e assolato pomeriggio verso la fine di maggio del 1930 piazza il suo cavalletto tra i cespugli di Gravel-pit Wood, un'oasi boschiva resistente tra le costruzioni della periferia londinese che la circondano dappresso; e Thomas, fotografo di (e alla) moda che in un giorno primaverile verso la metà degli anni ‘60 si prende una vacanza dal frenetico vortice della swingin' London per andare a puntare il suo obiettivo dentro un parco suburbano silente e presago? Più di quel che si potrebbe pensare misurando la distanza storica tra i nostri due eroi dello sguardo. C'è che mentre Pedley è impegnato a dipingere il suo nostalgico stralcio di natura fuori dal tempo, baluardo contro l'assedio del progresso in forma di speculazione edilizia, è distratto dall'ingresso nel suo campo visivo di due uomini e una donna che iniziano uno strano andirivieni, un enigmatico carosello relazionale. Appena a casa, Tom butta giù uno schizzo di quanto ha intercettato nel suo appostamento, intitolandolo sagacemente “Qualcuno origlia”.
Con le stesse dinamiche, più o meno, si svolge una scena simile davanti all'occhio mobilissimo e all'obiettivo prensile di Thomas. I movimenti e i gesti furtivi di una coppia clandestina gli prendono lo spazio di un rullino tra un servizio di moda e l'altro.

Lotte Schiller, artista modernista

Fin qui le scene madri scopiche. Ma il bello deve ancora venire, ché in entrambi i casi gli sviluppi della vicenda tireranno in ballo nuovamente il discorso sull'arte e sul suo rapporto con la realtà. Seguiamo Freeman. Già dimenticato lo schizzo frutto casuale dell'appostamento pomeridiano, entra in scena una bizzarra vicina di casa di Pedley, guardacaso artista dilettante. E allora si va facendo chiaro che lo scrittore inglese (per sue ragioni di intreccio giallo, ma con un gusto speculativo a sé stante) sta buttando giù un curioso trattatello sulla questione. La petulante signorina Lotte Schiller, seguace delle “nuove” tendenze astratte, per fare un complimento al nostro orgoglioso paesaggista – sostenitore incorruttibile dell'arte “classica”, ancorata alle ragioni del vero – dice di una sua opera: “Sembra quasi una fotografia”. Provocando l'immediato risentimento del pittore, che risponde piccato: “La mia è un'interpretazione il più possibile fedele della natura ma risulta, ovviamente, molto lacunosa” – intendendo che in quelle lacune, in quegli interstizi negati alla fedeltà fotografica, risiede il campo d'intervento dell'artista. Al che lei ribatte: “La pittura figurativa deve essere molto difficile e, in fin dei conti, voi non potete competere con un fotografo. Questo è il vantaggio dell'arte astratta. Non si tenta di imitare niente in modo particolare ma semplicemente di esprimere la propria personalità in termini di forma astratta e colore.” (p.19) Astrazione quindi come rifugio del dilettante che voglia esprimersi liberamente in barba alle complicazioni tecniche della verosimiglianza, del resto ormai inutili quando a fare (e meglio) il mestiere del ritrattista o del paesaggista ci sta il fotografo e il suo mezzo, oggettivi e scientificamente esatti (“obiettivi”, puntualizzava Bazin).
D'altra parte – giusto una pagina più avanti – i giudizi dell'inveterato tradizionalista Tom sulle opere dell'invadente vicina sono tranchant. Di fronte alla sua Sinfonia in verde e blu, imbarazzato, chiosa nominalisticamente: “A me non piace molto chiamare le cose con il nome sbagliato. Sapete, non è una sinfonia. Una sinfonia è una combinazione di suoni, mentre questo lavoro è…è (non ce la fa a dirlo) ebbene è un quadro”. Con buona pace di Whistler e di decenni di contagi sinestetici tra musica e pittura, via Skrjabin e Kandinsky. Non migliore fortuna hanno le opere più figurative di Lotte, basate sull'essenzializzazione delle forme, corteggianti il gusto neo-primitivo. Per concludere la questione, una bella dichiarazione di chiusura mentale: “Non so niente di quest'arte modernista tranne che è completamente diversa dall'arte che ho sempre conosciuto e praticato. Non possiamo discuterne in quanto non parliamo la stessa lingua.” Linguaggio e mondi diversi, inconciliabili, nessun dialogo possibile: la querelle degli antichi e dei moderni finisce in un muro contro muro. Ed ecco l'affondo estetico dell'ormai scatenato Pedley: “Quando dipingo un quadro aspiro alla bellezza e visto che non c'è niente di più bello della natura, cerco quanto più possibile di riprodurla fedelmente. E siccome un quadro è un'opera creativa e non una mera rappresentazione, come l'illustrazione di un testo scientifico, cerco di comporre i miei soggetti in modo tale che comunichino sensazioni gradevoli e interessanti. Però, a quanto pare, l'arte modernista rifugge dalla fedeltà alla natura e da ogni sorta di interesse intellettuale o emotivo.” (bum) E ancora: “Sono convinto che le forme astratte siano pertinenti alle scienze esatte, mentre la pittura e la scultura si occupano di cose visibili e tangibili.” La bellezza è verità, la verità bellezza, per Keats come per Pedley, e la verità di natura è la verità per eccellenza, questo il concetto. Anche se già nell'arte classica – nella scultura greca per esempio – la mimesi non andava a esaurirsi nella “semplice” riproduzione del reale, ma implicava un processo di essenzializzazione, perfezionamento, assalto all'idea platonica. Astrazione, dunque. Ma tant'è. Nel suo eden incorrotto dalle controversie della modernità (come Gravel-pit Wood, assediato dai palazzi ma fieramente resistente), Tom è rimasto forse a Constable, all'epoca bella della pittura pre-dagherrotipo. Una visita all'ala Turner della Tate Gallery probabilmente già lo sconcerta, con le sue dissoluzioni cosmiche della forma nella luce. Andare più in là potrebbe essere pericoloso, essendoci la possibilità di scontrarsi frontalmente con le nebbie pulviscolari di Monet o coi parallelepipedi di Cezanne. Picasso non lo nominiamo neppure. Per non dire della frase di Giacometti da noi posta in esergo, che con la sua spavalda paradossalità avrebbe mandato in definitivo cortocircuito i neuroni del buon Pedley. In questa posizione indubbiamente manicheista – condivisa senza esitazione dagli altri personaggi con cui il pittore si confronta, e quindi offerta come sentire comune – si stagliano con limpidezza i ragionamenti dell'uomo “medio” del Novecento di fronte alle proposte dell'avanguardia, coi suoi luoghi comuni inveterati, e le comode scorciatoie di pensiero: arte astratta come fuga dal “vero”, e quindi dall'emozione, che solo l'immediata riconoscibilità naturale e antropomorfica del soggetto garantirebbe; separazione netta tra campo delle scienze esatte (che sottintende la loro aridità puramente intellettuale) e della creazione artistica (che sola può toccare le corde del cuore umano); ergo, recisa incomprensione, rifiuto, nostalgia per un passato dove l'arte era per tutti, e senza infingimenti si offriva alla comprensione immediata dell'intellettuale come dell'incolto.
Un'epoca in cui tutti potevano capire, ma a pochi erano riservati i mezzi, le conoscenze tecniche per “fare”, mentre oggi, signora mia... Illuminante a tal proposito la rievocazione dell'accostamento alla pittura da parte di Lotte: un'amica la invita a una mostra di “maestri moderni” e lei, mai interessatasi di arte in vita sua, rimane folgorata. “I quadri erano così diversi da tutto ciò che avevo visto in precedenza, così originali e bizzarri. Sembravano fatti da bambini.” (p.22) E quando ci si applica, meraviglia, anche lei riesce a replicare quelle forme elementari (laddove Picasso aveva dovuto superare Raffaello per tornare all'infanzia del tratto). Pedley, mentre le insegna a usare i colori ad olio, non perde l'occasione di infierire: “anche una dilettante (stava per dire “anche uno scemo”) può stendere strisce di colore su una tela e mescolarle.” Salvo aggiungere: “Ma, naturalmente, bisogna indovinare le strisce.” (p.25) Avesse letto Kandinsky poteva parlare della “necessità interiore” della forma, ma tant'è: tutto sta nel tirare a indovinare, magari azzeccando la combinazione gradevole, quel certo non so che a dirimere tra il pastrocchio casuale (quello che “anche un bambino dell'asilo...”) e l'opera consapevole. Del resto la discriminante della tecnica ha segnato anche la contrapposizione di un grande “passatista” come De Chirico alle dominanti forme astratte della sua epoca.
La narrazione prosegue sfoderando una disquisizione sul ritratto in pittura e fotografia, su come quest'ultima possa cogliere la forma in un momento dato, ma non “il carattere saliente e permanente” di una personalità, come fa l'artista (pp.30-31); e poi ancora l'obbligatoria tirata retorica di Pedley sull'impostura dell'arte moderna, alimentata da critici compiacenti e amatori pseudo-intellettuali, per concludere: “I primi modernisti erano, a mio avviso, veramente bizzarri. Alcuni di loro erano dichiaratamente folli. Però al giorno d'oggi è impossibile giudicare. Perché il problema, Polton, è che nel momento in cui accettiamo prodotti rozzi e infantili come opere d'arte lasciamo campo libero agli imbroglioni.” (Pp. 35-36). Ecco il fulcro della mentalità borghese: originalità, rifiuto delle regole date intesa come follia tout court, bizzarria incomprensibile d'artista, eppure ancora accettabile, di fronte alla furbizia smaccata e in malafede degli epigoni.
Dopo questo intro spiccatamente teorico, attacca la sezione poliziesca vera e propria, ma non è che a pagina 76 – con l'inizio della seconda parte – che Jervis si prende il carico della narrazione, entra infine in scena Thorndike a dipanare le intricate vicende fin lì delineatesi, e si entra nell'agone delle disquisizioni tecnico-legali-scientifiche padroneggiate insuperabilmente dal nostro eroe del microscopio. Eppure si viene a scoprire che nel travestimento al centro del piano criminoso, che non sveliamo, la “finta” arte moderna ha un ruolo cruciale. Da cui si deduce un ovvio sillogismo: l'arte modernista (o almeno la moda che ha innescato), come truffa, né più né meno.

L'assassinio come opera d'arte

Non solo. Nel solito, mirabile ragionamento esposto da Thorndyke nell'ultimo capitolo, il quadro sbozzato da Pedley – il “testimone inconscio” – in quel pomeriggio di maggio avrà un ruolo fondamentale per la risoluzione del mistero, anzi dei due misteri legati dal fil rouge artistico che abbiamo dipanato fin ora. Il che ci distoglie per un attimo dai ragionamenti teorici per ricondurci al nucleo enigmatico della visione, che ci ha condotto all'associazione mentale Freeman-Antonioni. Come si sa, quando Thomas va a sviluppare le foto scattate nel parco periferico nota qualcosa di strano, e innesca il processo di blow up (ingrandimento, letteralmente; ma anche rivelazione – di ciò che all'occhio nudo è invisibile; ed esplosione – delle latenze celate nella realtà fenomenica, della sua ambiguità semantica), andando a scoprire gli indizi visivi di un delitto: una pistola che spunta tra le fronde, la macchia di un corpo a terra.
Lo spunto è sorprendentemente simile, non c'è dubbio alcuno. L'abissale differenza si palesa nei rispettivi sviluppi delle vicende. In Freeman (ovverosia nel giallo classico di stampo inglese, incentrato strutturalmente sul whodunnit) il quadro è uno degli elementi che conducono tramite logica indiziaria a una soluzione – ferrea, logica, inattaccabile – ribadente il trionfo della razionalità sullo squarcio (metafisico, diremmo) di tenebra che il delitto ha aperto nel tessuto della società, sconcertando i buoni e onesti cittadini non a disposizione delle chiavi euristiche atte a penetrarne il labirinto, almeno fino all'intervento del dio del ragionamento (si chiami Thorndyke, Holmes, Poirot) che rimette le cose a posto. In Antonioni, all'inverso, secondo il suo proverbiale procedimento del “mistero aperto” (di cui la scomparsa di Anna in L'avventura è esempio paradigmatico), le stesse premesse metodologiche conducono al nulla, alla dissoluzione dell'intreccio, allo svanire beffardo di ogni possibile soluzione (o alla sua beffarda trasformazione in libertà d'interpretazione, che ha l'effetto di moltiplicarla all'infinito). Il tarlo metafisico qui non si fa stroncare dall'insetticida della ragione, ma rode le radici della narrazione fino a farla crollare su sé stessa. Thomas trova il cadavere (la macchia si transustanzia in carne), ma si perde nei propri dubbi, nella propria irrequietezza congenita, nelle lusinghe della notte londinese, e il tangibile corpo del reato (inquieto come l'Harry hitchcockiano) si dilegua, lasciandolo solo sul cuor della terra, una invisibile palla da tennis in mano, per poi dileguarsi anche lui con un fade che lo manda a sparire nel verde del prato.
Lo stesso avviene per il discorso collegato al pretesto giallo, che anche qui riguarda l'arte e la sua concezione. Se Freeman sembra non nutrire dubbi sul valore di testimonianza dell'arte “classica”, con Antonioni il moderno irrompe a complicare irrimediabilmente le cose. Non più quadri fedeli “come fotografie” al reale, e che pure del reale colgono quel “di più” garantito dall'occhio superiore dell'artista; no, qui si tratta di fotografie (proprio quell'arte dell'oggettività di cui parlavano Lotte e Bazin) che tendono pericolosamente all'astrazione, all'illeggibilità, alla disintegrazione del sembiante, e lungi dal rivelare il reale lo opacizzano al quadrato.

Per speculum, in aenigmate

Ci torna sulle dita questa parola bella e pericolosa, rivelazione, e il carico di senso spirituale che la riflessione baziniana ci ha posato sopra. Ora, le foto di Thomas sembrano appunto assumere il ruolo di rivelatori di una realtà occulta che all'occhio nudo è celata. Ma il loro percorso semantico condurrà inevitabilmente alla deriva del significato, a quella “sincope” del senso individuata da Barthes in Antonioni. A una rivelazione dunque dell'infinita ambiguità del visibile, dove i segnali della trascendenza e il peso dell'immanenza si vanno a confondere.
Allo stesso tempo, il percorso formale delle foto conduce dal realismo all'astrazione, e allora viene in mente un altro teorico della rivelazione, evocata ripetutamente da Vassily Kandinsky ne Lo spirituale nell'arte. Per l'artista russo l'opzione astratta vale come riflesso dell'interiorità, e via per la creazione di un'arte spirituale. Di qui la sua insistenza su formule come “suono interiore”, “necessità interiore” della forma, volte a scongiurare qualsiasi pericolo di estetismo fine a se stesso. Da parte sua Antonioni si è espresso così: “Noi sappiamo che sotto l'immagine rivelata ce n'è un'altra più fedele alla realtà, e sotto questa un'altra ancora, e di nuovo un'altra sotto quest'ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Il cinema astratto avrebbe dunque una sua ragione di essere.” Di tentativi di cinema astratto la storia è piena, dall'avanguardia storica di Richter e Eggeling all'underground di Brakhage & Co., proprio negli anni di Blow-up, e anzi forse proprio il coté apparentemente “naturalista” del meccanismo di riproduzione cinematografico ha spinto gli artisti d'avanguardia a dissolvere l'elemento organico nella pura forma, o a trascurarlo in favore della geometria. La domanda che tali esperimenti pongono non è banale: possono le arti basate sulla realtà sensibile fare un salto nel buio (o nella luce) della non figuratività? E se sì, come? Il blow-up, l'ingrandimento che va a disintegrare il dato visibile di partenza è una delle possibilità, e sarà praticato da Antonioni anche nella pittura con la serie delle Montagne incantate, e poi ripreso tra gli altri da Brian De Palma (vedi lo zoom all'indietro dai pixel sullo schermo del circuito chiuso all'inizio di Raising Cain). Ma il mezzo preferito dal regista emiliano rimane l'organizzazione del profilmico dentro l'inquadratura, dove il dato concreto non viene scavalcato, ma è il punto di vista a trasformare il noto in incognito. Ecco le insorgenze astratte rilevate da Bonitzer (il gusto per la “macchia”, il tachisme) e Burch (le inquadrature UFO, l'ambiguità di forma e scala) nell'opera antonioniana. Sulla consapevolezza di Antonioni in queste fughe formali non possono esservi dubbi: basti aprire la sceneggiatura di Tecnicamente dolce, progetto non realizzato, a pagina 87, dove le pareti devastate e bruciacchiate di una casa sono paragonate a un Burri.
In Blow-up il tema è affrontato esplicitamente quando Patricia accosta gli ingrandimenti di Thomas ai quadri astratti di Bill, che d'altronde dice che trovare dei significati per i propri quadri è come indagare sull'enigma di un libro giallo. L'astrazione è quindi l'interrogazione su un mistero, il mistero stesso dell'esistente, e del nulla che gli è sotteso. Interrogazione sempre aperta e senza soluzione all'ultimo capitolo: Dio resta celato, lasciando l'uomo nelle tenebre. Non è un caso allora se si possono individuare dei tratti che ricordano una gamba nel quadro di Bill: in quella che forse è la prima enunciazione dell'arte astratta, Le chef-d'oeuvre inconnu di Balzac, nell'inaudito quadro di Frenhofer spunta dalla nebulosa di colori solo un piede di donna. Affrontando il racconto nella sua lezione americana sulla visibilità, Calvino parla di indecidibilità nel rapporto tra il mondo di cui facciamo esperienza, quello catturato dall'arte come oggetto finito e quello di infinite possibilità che vive dentro l'artista.
Se Freeman arrivava in ritardo all'appuntamento col dibattito su realtà e astrazione, Antonioni riprende il discorso su arte realistica e astratta applicandolo alle arti della riproducibilità tecnica e del mito baziniano del “realismo integrale”, e a un altro snodo storico: la contrapposizione dell'ormai dominante opzione astratta con una nuova scuola che torna alla figuratività, descrivendo una realtà vista attraverso le lenti deformanti delle comunicazioni di massa, della pubblicità, della costruzione del consenso. L'iperrealismo, insomma, di cui la pop art è l'espressione più a la page. Blow-up è immerso nella cultura pop degli anni Sessanta e se ne fa anzi esso stesso espressione tra le più alte e memorabili (insieme alle sperimentazioni baviane degli stessi anni, 5 bambole per la luna d'agosto in testa), dai colori caramellati alla messa in scena di un mondo dove vige il culto illusorio del feticcio, sia il manico della chitarra di Jeff Beck lanciato al pubblico in delirio (e abbandonato subito fuori dal locale-tempio) o l'elica acquistata dall'antiquario, bella e inutile.
Se l''perrealismo è un'analisi della superficie delle cose e l'astrattismo un viaggio nel profondo della percezione, il loro discorso si sostiene e annulla reciprocamente. L'uno – aggiornando l'insegnamento di Duchamp – svela l'illusione degli oggetti, della merce, svincolati dalla loro funzione e “ridotti” (o forse esaltati?) a pure icone estetiche senza valore concreto; l'altro parte da pretese mistiche di rivelazione per arrivare al collasso psichico (quello del pittore balzachiano) o all'impotenza ermeneutica (quella del fotografo antonioniano). Tocca allora a un altro tipo di arte – plastica, corporea – sostituire le ingannatorie profondità della pittura, della foto, del cinema. Come ha notato Marsha Kinder, nel gioco dei mimi della scena finale “l'ambiguità tra illusione e realtà è accuratamente controllata, ed è basata su un intenzionale atto di immaginazione”. Thomas sospende l'incredulità e rilancia la palla. Se sia una perdita o una vittoria in fondo non ha molta importanza. Maya, comunque, regna sovrana.

Addenda: altri occhi che uccidono

Considerando l'opera estrema di Freeman, vengono alla mente altri gialli incentrati sulla visione, e in particolare su situazioni che richiamano quella dello spettatore cinematografico: ovviamente il delitto scorto casualmente “in the blink of an eye” dal finestrino di un treno all'altro in Istantanea di un delitto di Agatha Christie, straordinaria intuizione “fotogrammatica” hitchcockiana; ma ancor più pregnante quello a cui è costretto impotente ad assistere impotente il detective voyeur chiuso in un padiglione sulla spiaggia ne L'inseguimento del signor Blu di Gilbert K. Chesterton, con l'oblò rotondo a fare da schermo di proiezione della realtà esterna, e inoltre da meccanismo di illusione ottica, con il carosello della vittima e del carnefice che all'occhio di Muggleton si scambiano di posto, e potrebbe essere la gag pre-slapstick del poliziotto e del cinese per il Nickelodeon di Edison. Mentre la spiaggia trafficata di pierrot e predicatori in cui il detective è costretto da padre Brown di fronte alla fallacia dei propri sensi potrebbe affiancarsi al parco mattutino del finale di Blow-up, coi suoi mimi stile Wimbledon. Come poi in Antonioni, tutto è sotto gli occhi dell'uomo, pur allenato a guardare, e che pure fino alla fine rimarrà cieco rispetto all'inganno perpetrato ai suoi danni.
D'altra parte la lezione del rullino di Thomas sarà cruciale per tutti quei registi che cercano di saldare un filo tra lo sguardo, l'interpretazione della realtà, la sua natura ontologicamente indecifrabile. Il mondo diventa una sorta di cruciverba ottico dove l'inganno è sempre in agguato a beffare i sensi o le loro protesi manuali o meccaniche. Ed ecco le brucianti, ossessive visioni ambigue dei testimoni argentiani (Tony Musante in L'uccello dalle piume di cristallo, il recidivo David Hemmings in Profondo rosso), le morbose geometrie vedutistiche del pittore di Peter Greenaway (The Draughtman's Contract), i rivelatori filmini amatoriali di José Luis Guerín (Tren de sombras). O, esempio supremo, gli appostamenti incrociati di Michael Mann in Heat: le guardie fotografano i ladri, ma quando vanno a investigare su cosa questi stavano osservando, scoprono che sono loro, l'oggetto misterioso che ha scavalcato il campo visivo: cacciatore e preda (evanescenti) precipitano nell'abisso del punto di vista.



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Una goccia maledetta per il Festival di Siviglia

La goccia maledetta, l'ultimo cortometraggio noir diretto da Emanuele Pecoraro, in gara al prestigioso Festival NIAFFS di Siviglia, nella prima settimana di Luglio.

C'è molta attesa per questo mini-film, prodotto e distribuito da Angelo Bassi per Mediterranea Productions, interpretato dalla bellissima Nadia Bengala e da Lorenzo Lepori, con la partecipazione di Francesca Anastasi.

Si tratta di una storia horror, il cui soggetto è tratto dal racconto La goccia, pubblicato da Mezzelane Editrice, elaborato dalla sapiente penna di Roberto Ricci, il formidabile scrittore di gialli anconetano, soprannominato “Il parrucchiere del brivido”.

A mettere mano alla sceneggiatura hanno invece pensato Lorenzo De Luca e Pierfrancesco Campanella, quest'ultimo anche produttore esecutivo e organizzatore generale dell'opera.

Un lavoro basato sull'ossessione di un addio sentimentale non gradito, che degenera in modo inaspettatamente sconcertante. La realtà della cronaca nera odierna è piena di episodi violenti dovuti proprio alla non accettazione di essere abbandonati dal partner. In questo senso, La goccia maledetta è un prodotto di strettissima attualità, valorizzato oltretutto dalla straordinaria performance interpretativa di Nadia Bengala, che qui, come non mai, ha modo di rivelare le sue intense qualità recitative.

Il regista Pecoraro per l'occasione conferma lo spiccato talento già dimostrato nel suo corto del debutto, intitolato Solitudini pericolose, poi confermate nel documentario lungometraggio 28… ma non li dimostra.

Il cast artistico è completato da Sacha Rossi, direttore della fotografia, Laura Camia, art director, Marco Pagliarin, tecnico del suono di set e montatore, Gianfranco Tortora, responsabile della post-produzione audio, e Sebastiano Greco, che si è occupato della color correction video. La goccia maledetta è stato girato tra Montalto di Castro e Pescia Romana, presso l'Hotel Ospite Inatteso e in una villa privata, per gentile concessione del sig.Giuseppe Simonelli.

Una curiosità: la colonna sonora originale del cortometraggio è stata elaborata dal noto ingegnere informatico Paolo Reale, consulente tecnico nei maggiori processi penali italiani e presenza abituale nel programma televisivo Quarto grado, grande appassionato di musica e con alle spalle significative esperienze nel mondo delle sette note.

Infine, da segnalare la splendida opera pittorica presente nei titoli, denominata Materia Cosmica, una creazione dell'artista lucano Mario D'Imperio.

Vedi il trailer: https://www.youtube.com/watch?v=3-q...

LA GOCCIA MALEDETTA (la scheda)
Regia: Emanuele Pecoraro – Produzione e distribuzione: Angelo Bassi per Mediterranea Productions – Soggetto: Roberto Ricci – Sceneggiatura: Pierfrancesco Campanella & Lorenzo De Luca – Fotografia: Sacha Rossi – Tecnico del suono e Montaggio: Marco Pagliarin – Make-up: Giovanna Carchia – Musiche originali: Paolo Reale – Mixage: Gianfranco Tortora – Color correction: Sebastiano Greco – Assistente operatore: Marco Gabotti – Aiuto regia: Fabrizia Bassi – Ispettore di produzione: Matteo Campanella – Riprese backstage: Alessandro Maggiolo - Interpreti: Nadia Bengala, Lorenzo Lepori, Francesca Anastasi

Produzione esecutiva e organizzazione generale: Pierfrancesco Campanella



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Marateale: il 31 luglio e il 1°agosto torna la kermesse cinematografica nella Perla del Tirreno

Marateale si farà. Nonostante la terribile pandemia mondiale legata alla diffusione del Covid19, con cui abbiamo dovuto fare i conti negli ultimi mesi e che ha messo in difficoltà tutti i settori professionali del nostro paese, la manifestazione lucana, che fino allo scorso anno portava il nome di “Le Giornate del Cinema Lucano a Maratea - Premio Internazionale Basilicata”, si terrà i prossimi 31 luglio e 1 agosto, come di consueto nella perla del Tirreno.

Il 31 luglio avrà luogo una prima giornata che avrà l'obiettivo di valorizzare i giovani talenti lucani, che si sono distinti per la creatività e per l'alto valore artistico delle loro opere. La seconda giornata, invece, sarà differente rispetto a tutte quelle proposte al pubblico in passato. Stavolta, infatti, sempre partendo dalla Basilicata, numerosi prestigiosi professionisti interagiranno all'interno di un contenitore, ideato come omaggio all'arte e alla cultura, con l'auspicio di un immediato rilancio.

Oltre a personaggi legati al cinema, al teatro e alla televisione, saranno presenti anche cantanti, musicisti, danzatori, oltre a diverse maestranze. Previste, all'interno del ricco programma, diverse masterclass che saranno tenute, tra gli altri, dal regista Massimiliano Bruno e dalla sceneggiatrice Ludovica Rampoldi. Attesissimi, inoltre, incontri con tre nomi tra i più apprezzati del panorama della danza internazionale: Kledi Kadiu, Anbeta Toromani e Alessandro Macario.

“In tantissimi, nelle ultime settimane, ci hanno chiesto se Marateale si farà. Come tutti, siamo consapevoli del periodo difficile che stiamo attraversando a livello economico e sociale ed il campo delle manifestazioni cinematografiche non è stato di certo escluso. Noi, però, siamo, e vogliamo essere, positivi e ottimisti. Spinti dell'amore per il cinema, per questa bellissima terra che è la Basilicata e per Maratea nello specifico, siamo lieti di comunicare che stiamo mettendo in campo tutte le nostre risorse per realizzare al meglio il nostro appuntamento con il pubblico che, di anno in anno, continua a crescere”, racconta con grande entusiasmo Antonella Caramia (Presidente dell'Associazione Cinema Mediterraneo) che organizza la kermesse. E aggiunge: “La Marateale, pertanto, si farà e sarà un evento di due giorni, 31 luglio e 1 agosto, che segnerà la rinascita del cinema in Basilicata, e a cui seguirà un altro importante evento come il Lucania Film Festival a Pisticci. Tutto questo, ovviamente, sarà realizzato rispettando i decreti governativi e regionali legati al covid19 e usando tutte le dovute precauzioni. Siamo orgogliosi che proprio Marateale segnerà l'inizio degli eventi dedicati al cinema e alla cultura in Italia”.

[nella foto: Antonella Caramia, Rocco Papaleo e Nicola Timpone]



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SOTTO LE STELLE DEL CINEMA (in totale sicurezza)… in 8 punti e ½!
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Agente Smart - Casino totale: il film da vedere e commentare insieme mercoledì 1° luglio con SimulWatch

La visione condivisa di mercoledì 1° luglio organizzata dalla redazione di Comingsoon.it su SimulWatch, la nostra app disponibile gratuitamente su Google Play e App Store, è una commedia che fa satira sul mondo dello spionaggio con i suoi cliché che esiste nella finzione cinematografica. Agente Smart - Casino totale è tratto dal una delle più celebri serie televisive degli anni 60 andata in onda anche in Italia inizialmente con il titolo Prendete Smart! e successivamente con Agente 86 Max Smart. La serie fu ideata da Mel Brooks e Buck Henry.
La versione cinematografica del 2008 è diretta da Peter Seagal. Ne sono protagonisti Steve Carell e Anne Hathaway, affiancati da Dwayne Johnson e Alan Arkin. L'appuntamento per vedere tutti insieme Agente Smart - Casino totale e commentarlo con amici e familiari, ognuno a casa propria, attraverso la chat di SimulWatch è fissato per mercoledì 1° luglio alle 20:30.

L'imbranato agente segreto Maxwell Smart, nome in codice Agente 86, agli ordini della Control in perenne lotta contro l'organizzazione criminale Kaos. ILa storia di Agente Smart - Casino totale inizia dopo un lungo periodo di inattività dell'aspirante agente Maxwell Smart (Steve Carrell) il quale riceve finalmente la sua grande occasione. L'imbranato agente viene incaricato, insieme alla sensuale collega Agente 99 (Anne Hathaway), di fermare un complotto volto a distruggere Los Angeles e a diffondere armi atomiche nel mondo. L'ingenuità e la sbadataggine di Max lo faranno finire in prigione, col sospetto di essere una spia doppiogiochista.

SimulWatch è la app creata da Coming Soon che è sia motore di ricerca di film all'interno di tutte le piattaforme di streaming legale operanti in Italia, sia una piattaforma attraverso la quale fissare appuntamenti condivisi per la visione di un film e commentarlo attraverso la chat interna con amici, parenti o perfino sconosciuti comodamente dal divano di casa vostra.
Il prossimo appuntamento con la visione condivisa SimulWatch sarà con: Dafne.



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L'amore a domicilio

Renato, grigio ma scaltro assicuratore, passa le giornate girando per Roma a caccia di vite altrui: non c'è studente, donna in carriera o giovane coppia che possa sfuggirgli. Con l'insistenza meticolosa e un po' ingenua tipica tanto dei frustrati quanto dei nevrotici, egli pone i suoi clienti davanti a tutto ciò che nella loro quotidianità non funziona – o potrebbe non funzionare. Renato è un mago delle ipotesi (disastrose) e degli scrupoli (inutili), l'impiegato perfetto: diciamoci la verità, non brilla per simpatia. Di personaggi simili se ne incrociano parecchi, ultimamente – e non solo al cinema.

Giunto al suo secondo lungometraggio dopo Sulla strada di casa, Emiliano Corapi traccia il proprio personalissimo ritratto del cosiddetto italiano medio. Il quale, tuttavia, sembra distanziarsi parecchio dalla sarcastica rassegnazione di un De Luigi, o dalla sfacciata indifferenza di un Edoardo Leo.
Il protagonista di L'amore a domicilio - dal 10 giugno su Amazon Prime Video - è fin troppo ordinario per riscuotere il pieno consenso di chi assiste alla sua piatta routine, e soprattutto ai suoi disperati tentativi per sfuggirvi o per rientrarvi a piacimento. Renato non ha ambizioni (per davvero!), gli basta trascorrere le sue giornate alternando il lavoro a qualche sporadico tentativo di dialogo con il padre, dal quale ovviamente non si è mai emancipato. Un giorno, forse per ottusità o forse per azzardare un puerile colpo di testa, accetta di dare un passaggio ad Anna, una ragazza dall'aspetto e dai modi decisamente poco ordinari. Si vede lontano un miglio che questa donna misteriosa dal forte accento siciliano nasconde qualcosa – per esempio, il fatto di essere un'ex rapinatrice finita agli arresti domiciliari. E di qui il primo piccolo colpo di scena: Renato ne sembra quasi sollevato. I due si frequentano a casa di lei, in un limbo sospeso fra realtà pubblica e sfera privata.

Ciò che più affascina il nostro italiano medio è proprio il divario che separa e definisce le due dimensioni, impossibile da colmare: da bravo maniaco del controllo, egli si destreggia abilmente fra l'appagante grigiore delle sue giornate e la follia rigidamente vigilata della sua nuova relazione. Nemmeno l'entrata in scena di Franco, ex di Anna appena evaso e intenzionato a portare a termine il colpo perfetto da casa di quest'ultima, può smuovere l'intorpidita tolleranza del protagonista. Al contrario: nell'allucinata pignoleria che lo contraddistingue, Renato si ritroverà coinvolto in un furto a mano armata pur di tenere sotto controllo lo spirito (troppo) libero della fidanzata.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare dalle premesse del film, ciò che anima questo grigio ma scaltro assicuratore non è l'amore folle nei confronti di Anna, quanto il desiderio di assaggiare alcuni frammenti delle esistenze altrui senza mai rendersene partecipe. L'uomo medio di Corapi è davvero medio, perché non si distacca mai dalla propria banalità ma tenta semplicemente di dargli un tono. Renato e Anna sono agli antipodi, eppure non si amano per questo, anzi: si ha quasi l'impressione che non si amino affatto ma, come ripetono costantemente, «stiano bene insieme».
In fondo, entrambi rimangono chiusi nell'esclusività del proprio ordinario, nel proprio bastarsi da soli, la loro reciproca vicinanza è un atto eternamente passeggero. Riuscitissimo e molto delicato, in tal senso, il finale – in cui il registra disattente tutte le aspettative e schernisce i luoghi comuni del genere.

L'amore a domicilio sembra scritto e pensato appositamente per questo periodo, in cui ogni italiano medio si riscopre organizzatore seriale dei suoi tempi e dei suoi spazi, in cui mondo esterno e realtà emotiva finiscono inevitabilmente per dividersi. Miriam Leone (qui immortalata sulla strada di casa per Catania) e Simone Liberati si parlano senza mai veramente parlarsi, ognuno riordinando l'universo a cui è comodamente abituato – che si tratti della rassicurante monotonia di Renato o della sfrenata emancipazione di Anna.
A quanto pare, secondo Corapi, la commedia non ha bisogno di essere sfacciatamente divertente per risultare credibile: al contrario, il film riesce ad attraversare vari generi senza mai perdersi d'animo, le vicende si delineano con un tatto notevole. In certi momenti la sensazione è quella di rivedere Smetto quando voglio in slow motion: una formula che, come la storia fra i due protagonisti, inaspettatamente funziona.

(L'amore a domicilio); Regia: Emiliano Corapi; sceneggiatura: Emiliano Corapi; fotografia: Vladan Radovic; montaggio: Marco Costa; interpreti: Miriam Leone (Anna), Simone Liberati (Renato), Fabrizio Rongione (Franco), Anna Ferruzzo (Silvana), Luciano Scarpa (Sergetto), Valeria Perri (Simona), Antonio Milo (poliziotto), Eleonora Russo (Dori), Gerry Mastrodomenico (professore), Andrea Mautone (avvocato); produzione: Andrea Petrozzi per World Video Production con Rai Cinema, in collaborazione con Frame by Frame e Marvin Film origine: Italia, 2020; durata: 89'



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Un lupo mannaro americano a Londra, per prepararsi ai 40 anni, in arrivo un Blu-ray Limited Edition

Un lupo mannaro americano a Londra celebrerà i suoi 40 anni l'anno prossimo, essendo uscito nel 1981, ma il cult di John Landis, horror fino a un certo punto e in buona sostanza opera non incasellabile e preziosa, festeggia già dal 7 luglio con una Limited Edition in Blu-ray nella collana "I Numeri 1". L'edizione da collezione Universal prevede un booklet fotografico di 16 pagine (con citazioni e immagini di scena) e un magnete con la locandina originale, oltre ai due dischi: di fatto non sembrerebbe una versione nei contenuti differente da quella disponibile da dieci anni, comunque non disprezzabile. Offriva infatti su disco separato contenuti speciali ricchissimi: intervista al regista e a Rick Baker, autore del make-up premiato con l'Oscar, poi ancora un commento audio degli attori, materiale di scena, storyboard, due featurette e un documentario realizzato per l'occasione. Non è improbabile che l'anno prossimo arrivino edizioni con nuovi speciali realizzati ad hoc per il quarantennale, ma per ora i collezionisti potrebbero essere interessati anche a questa incarnazione. Acquista su Amazon Un lupo mannaro americano a Londra in Limited Edition



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The Limits of Control, il dimenticato film di Jim Jarmusch con Gael Garcia Bernal, Bill Murray e John Hurt

The Limits of Control (2009), scritto e diretto da Jim Jarmusch, è uno dei film meno noti del grande autore americano: la curiosa vicenda ruota intorno a un uomo misterioso (Isaach De Bankolé), che viene mandato a Madrid per ricevere e in alcuni casi rispedire oggetti di varia natura, portati a lui da corrieri indecifrabili e filosofici. Chi è? Cosa fa? The Limits of Control sembra un oggetto volante non identificato. Vediamo se l'autore ci offre una chiave interpretativa, poi indaghiamo sul cast. Le dichiarazioni di Jarmusch vengono da interviste rilasciate a Daily Telegraph, New York Times e Interview Magazine.

The Limits of Control, la spiegazione del film secondo Jim Jarmusch

Imbarazza ammetterlo, ma The Limits of Control, secondo Jarmusch, non è nato per avere una spiegazione netta. Ecco cosa ci racconta il regista di Dead Man, Broken Flowers e Ghost Dog.

Trovarti in una situazione in cui non capisci certe cose è una grande ispirazione per l'immaginazione. [...] Non spetta a me dire cosa significhi. Si può interpretare in diverse maniere, e sono tutte valide. [...] Ma non volevo fare qualcosa di inerte. Volevo che fosse un trip, una specie di trance. Non pretendevo un sacco di cose cerebrali e difficili dal pubblico. Volevo che intrattenesse ma non fosse troppo concentrato sulla storia. [...]
Abbiamo un criminale molto tranquillo, concentrato su una qualche missione. I miei personaggi sono sempre in viaggio, il viaggio è la storia. [...] Ovviamente non vuole farsi intercettare dalle autorità, quindi dev'essere un criminale di qualche tipo. Ma non lo so con certezza.[...]

A me piace fare film d'azione, solo senza l'azione. [...] Sapevamo di costruire sulla ripetizione e sulle variazioni, ma non le avevamo progettate tutte, alcune le abbiamo trovate strada facendo. E' una fortuna poter fare un film così oggi, sapete? [...] Volevamo che le scene si accumulassero a mano a mano che il film avanzava, con uno sguardo su cose molto elementari, o su cose fuori contesto. Doveva essere come osservare un quadro.[...]
Mi piace il doppio senso del titolo. Si parla dei limiti del tuo autocontrollo? O dei limiti al controllo operato dagli altri su di noi? Con "altri" intendo chiunque voglia imporci una qualche sua visione della realtà?

The Limits of Control, chi è il protagonista del film

Al di là del cast di contorno di tutto rilievo, il protagonista di The Limits of Control non è molto noto al grande pubblico: si tratta dell'ivoriano Isaach De Bankolé, classe 1957, un attore dalla storia quasi romanzesca: nato in Costa d'Avorio, sognava di fare il pilota di aerei di linea, quando è stato coinvolto nel mondo dello spettacolo, scoperto per caso per strada a Parigi dal regista Gérard Vergez. E' riuscito a diplomarsi all'accademia d'arte drammatica Cours Simon e allo stesso tempo a laurearsi in matematica. In realtà anche lui è del clan Jarmusch, avendo preso parte a Tassisti di notte, Ghost Dog, Coffee and Cigarettes. Al di là del cinema indipendente, è un comprimario molto gettonato a livello internazionale: lo troviamo per esempio in Skeleton Key, Miami Vice, Black Panther e nella nuova versione di Shaft.

The Limits of Control, volti ricorrenti nel cast

Jarmusch è un regista che ama circondarsi di attori sodali, coi quali intraprendete un percorso creativo comune. Anche in questo caso tornano star che avevano lavorato con lui in precedenza: Bill Murray che era stato protagonista dello straordinario Broken Flowers, insieme a Tilda Swinton qui riproposta, poi ancora il compianto John Hurt che fu in Dead Man. Manca tuttavia un altro eterno complice di Jarmusch, l'attore e musicista Tom Waits, indimenticabile in Daunbailò, Mystery Train, Coffee and Cigarettes e nell'ultimo I morti non muoiono, del quale peraltro è coprotagonista Murray.



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Noi: la spiegazione del finale e tante curiosità sul film

Se avete visto Noi di Jordan Peele e l'avete, come noi, amato moltissimo, non è detto che non siate rimasti perplessi dal finale e non vi siano sfuggiti alcuni riferimenti. Bene, non siete i soli, e se volete qualche chiarimento, sia pure non definitivo (si potrebbe scrivere un libro su questo film), accomodatevi. Chi non lo ha visto stia alla larga dal pezzo ed eviti gli SPOILER, peccato mortale per ogni cinefilo che si rispetti ma che, in questa circostanza, siamo costretti a commettere. Rispetto a Scappa - Get Out, Noi è più complesso, più lungo, meno interessato ai dettagli e più alla sostanza del discorso, per cui se vi siete chiesti da dove vengano le forbici dorate e chi abbia fornito le tute rosse a milioni di americani rinchiusi sottoterra, sappiate che probabilmente Peele non ci ha nemmeno pensato, perché non è questo che gli interessava e si possono lasciare anche in sospeso questioni di logica quando l'obiettivo a cui si mira è un altro, nel suo caso è pienamente raggiunto: confezionare un horror inquietante con una storia fantastica che parli però velatamente (ma neanche troppo) di noi e dei tempi in cui viviamo. Se non ricordate bene la storia di Noi, cominciamo da quella.

Cosa succede in Noi ovvero La trama dettagliata (con spoiler)

Nel 1986 la piccola Adelaide Thomas è in vacanza con i genitori sulla spiaggia di Santa Cruz e una sera si avventura in una specie di lunapark. Nel labirinto degli specchi a un certo punto la luce si spegne e mentre cerca l'uscita si trova faccia a faccia con un suo doppio. Per un'ora la bimba scompare e quando viene ritrovata non è in grado di parlare: un terapeuta incoraggia i genitori a farle fare attività creative, come disegnare e ballare per superare il trauma. Trent'anni dopo, Adelaide adulta va in vacanza col marito Gabe Wilson e i figli Zora e Jason. Appare tesa e preoccupata quando scopre che stanno andando a Santa Cruz e per la prima volta racconta l'episodio della sua infanzia al marito. Dopo aver visto un'ambulanza portare via un uomo morto, va in spiaggia con l'amica Kitty e la sua famiglia. Jason si allontana per andare in bagno e si avvicina al luogo dove trent'anni prima è sparita Adelaide, oggi cambiato, e vede un uomo con le mani macchiate di sangue. La madre, terrorizzata, lo ritrova. La sera, una famiglia composta da quattro persone vestite di rosso si palesa sul vialetto di casa e attacca i Wilson. Sono identici a loro, ma più selvaggi e mostruosi. A guidarli è Red, il doppio di Adelaide, che dichiara che sono Americani e inizia a raccontare con una strana voce la sofferenza che ha sempre vissuto, come sua ombra, rispetto al benessere e alla felicità di lei, che si è goduta la luce e che dunque odia profondamente. Dopo una serie di eventi la famiglia riesce a fuggire. Nel frattempo i loro amici, i Tyler, vengono aggrediti dai propri doppi e uccisi. A loro volta i Wilson, arrivati da loro in cerca di aiuto, si rendono conto di non essere gli unici perseguitati e riescono a uccidere i doppi dei Tyler. Dal telegiornale, apprendono che milioni di doppelgänger hanno assassinato le loro controparti in tutti gli Stati Uniti. I doppi iniziano a prendersi per mano formando delle catene umane. Alla fine si scopre che gli “Incatenati” sono dei cloni della popolazione americana, creati nel tentativo di controllare i cittadini tramite loro, esperimento fallito perché non è stato possibile ricrearne l'anima (che è unica), dopo il quale sono stati abbandonati nel sottosuolo per generazioni, dove imitano come zombi le azioni dei loro originali. Red, che è speciale, ha avuto un ruolo fondamentale nell'organizzazione e nella vendetta di queste masse dimenticate e proprio alla fine, dopo la morte dei cloni dei Wilson e una lotta all'ultimo sangue tra Red e Adelaide, scopriremo che in quel famoso incontro al lunapark il clone di Adelaide ha preso il suo posto nel mondo e quella che conoscevamo come Red è in realtà l'originale umano. La finta Adelaide, dopo aver ucciso la vera, si riunisce alla famiglia che ha potuto avere, grazie allo scambio di 30 anni prima. Nel frattempo le catene dei cloni si diffondono ovunque.

La spiegazione del finale

Più che una spiegazione del finale, che vi abbiamo raccontato nella sua svolta più scioccante, che ribalta completamente il senso di quello che abbiamo visto fino a quel momento, aprendo nuovi scenari e confermando la genialità di Jordan Peele nella costruzione delle sue storie metaforiche, si tratta di parlare dei temi del film, e di alcuni singoli e fondamentali momenti. Con qualche particolare che, soprattutto agli spettatori italiani, può essere sfuggito.

Hands Across America

L'azione pubblica degli Incatenati (Tethered in originale) fa riferimento a un evento chiamato Hands Across America, che si svolse domenica 25 maggio 1986 e alla cui pubblicità Adelaide aveva assistito in tv da bambina (mentre ritagliava con le forbici delle figure di carta unite, simbolo dell'evento) in quella che è la prima scena del film, dopo la scritta sui tunnel sotterranei che attraversano gli Stati Uniti. Quel giorno circa 6 milioni di persone si tennero per mano per quindici minuti, per provare a formare una catena umana attraverso gli Stati confinanti. Ovviamente era una pura utopia e un incubo organizzativo:solo nelle larghe aree urbane le catene raggiunsero ragguardevoli lunghezze. I partecipanti per prenotare il posto pagavano 10 dollari: vennero raccolti 15 milioni di dollari, detratte le spese, contro i 50 che ci si aspettava, devoluti ad organizzazioni benefiche per combattere la fame e la povertà. Moltissimi gli attori e i vip che parteciparono nelle rispettive città, tra cui Brooke Shields, Liza Minnelli, Yoko Ono, Harry Belafonte, Jerry Lewis, Robin Williams, Bill Clinton, Don Johnson, Chewbacca, C3PO, Pippo e Topolino (seriamente). L'iniziativa fu considerata un fallimento e venne molto criticata. La scena a cui Adelaide assiste da piccola in tv, con le persone che si tengono per mano e formano una catena umana, è il suo ultimo ricordo del mondo di sopra ed è ovvio che quando progetta un'azione dimostrativa per la gente di sotto, si rifaccia a quello che le è rimasto impresso allora.

Il doppio

L'idea di incontrare una persona identica a noi fa paura, perché per l'ordine naturale delle cose può esisterne solo una. Il doppio indica che vediamo gli altri, anche se in fondo sono come noi e dovrebbero avere i nostri stessi diritti, come potenziali minacce ai nostri privilegi. Alla fine, la rivelazione che Adelaide e Red si sono scambiate di posto, ci induce a chiederci se i veri cattivi non siamo proprio noi, che non a caso è il titolo del film (ovviamente in inglese anche US è un titolo doppio, che sta per noi ma anche per Stati Uniti). Quando diciamo noi, comunque, c'è sempre un LORO che vi si contrappone e spesso l'alterità, rappresentata in letteratura e cinema dal tema psicanalitico del doppio, è quello su cui proiettiamo le nostre stesse qualità negative o le nostre pulsioni aggressive represse. Il film di Peele insomma ripropone la dialettica del bene e del male che si bilanciano all'interno dell'individuo ma che in qualche caso vedono prendere il sopravvento il mr. Hyde che nascondiamo sotto le civili e gentili apparenze del dottor Jekyll. Corollario del doppio è il riferimento ai changeling, ovvero gli scambi che maligne creature fatate fanno dei bambini umani coi propri. E, ovviamente, c'è un sotto testo molto acuto: Red è un clone e quindi un essere inferiore, ma con le giuste cure mediche, l'affetto e la stabilità economica è riuscita a imparare a parlare, a costruirsi una famiglia e a integrarsi nel mondo normale, rubando l'anima e le opportunità di Adelaide, che al contrario è rimasta a uno stadio semilarvale, pur essendo intelligente e in grado di far progetti, mentre i veri cloni abbandonati a se stessi sono impazziti. L'ambiente in cui nasciamo e cresciamo è determinante e solo per caso noi non siamo al posto di chi temiamo o disprezziamo. Noi è anche un grido di allarme: se continuiamo ad ignorare chi ha meno di noi e ad escluderlo, per motivi economici, razziali o altro, non facciamo che alimentare uno squilibrio che finirà per distruggerci. Niente è lasciato al caso in Noi: l'oggetto scelto dagli Incatenati per uccidere (per dividere) sono le forbici, un oggetto composto da due parti unite insieme, che crea a sua volta altri doppi, una cosa di uso comune ma (specie negli horror) terrificante e letale. Tra i moltissimi riferimenti cinematografici di Peele possiamo citare le gemelline di Shining, I Goonies (il mondo di sopra e quello di sotto), L'uomo che visse nel futuro (da "La macchina del tempo" di H.G. Wells), La donna che visse due volte e Ragazzi perduti di Joel Schumacher, citato quando si dice che stanno girando un film: le riprese si svolsero proprio sulla spiaggia di Santa Cruz e ovviamente il tema è la minaccia venuta dall'esterno. L'idea però è venuta a Jordan Peele dall'episodio di Ai confini della realtà intitolato Immagine allo specchio, in cui una ragazza mentre attende l'arrivo di un pullman in una stazione di servizio, scopre l'esistenza di un suo doppio.

Adelaide e Red: vite allo specchio

Un momento molto importante è quando l'Adelaide di superficie, per superare i suoi traumi, danza, e durante la sua esibizione la sua controparte, Red, ne segue i movimenti, mostrando una capacità che i cloni ovviamente non hanno. Gli altri si rendono conto che Red è diversa da loro e iniziano a seguirla, scegliendola come leader. Il motivo per cui Red è diversa, come abbiamo visto, è perché è lei l'originale intrappolato 30 anni prima sotto terra e vuole vendetta su chi le ha rubato la vita. Alla fine è il doppio usurpatore (quello per cui fino a quel momento abbiamo forse fatto il tifo) che fa appello alla sua natura violenta e uccide la vera Adelaide, continuando l'inganno con la sua ignara famiglia, con la parziale eccezione del figlio Jason (non a caso chiamato come il killer mascherato di Venerdì 13), che porta una maschera da mostro per tutto il film, ed essendo più piccolo ha un legame ancora profondo col suo doppio – cosa che gli consente di ucciderlo - e con la madre.

Geremia 11:11

All'inizio vediamo un ragazzo che sulla spiaggia porta un cartello con la scritta “Geremia 11:11” (numero non a caso doppio) che è lo stesso che trent'anni dopo verrà portato via in ambulanza morto e che Jason rivedrà sulla spiaggia. Il versetto relativo della Bibbia dice: “Perciò, così parla l’Eterno: Ecco, io faccio venir su loro una calamità alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò”. Geremia era un profeta che avvertì gli ebrei in esilio a Babilonia che Dio non era contento del fatto che adorassero falsi idoli e che questo avrebbe condotto alla caduta di Gerusalemme. Tradotto in quello che si vede nel film, i falsi idoli sono rappresentati dalla nostra dipendenza dalla tecnologia e dal denaro: nella famiglia Tyler le figlie sono costantemente al telefono, e vivono nel lusso. Ma quando Kitty (Elisabeth Moss) cerca di chiamare la polizia, in uno dei momenti più ironici del film, Alexa fa partire il brano “Fuck tha Police” degli NWA, che alla luce di quanto sta succedendo risuona perfino profetico.

I cloni non parlano

Come zombi, gli Incatenati mugolano o fanno versi ma non sono capaci di articolare le parole, con l'eccezione di Red, per i motivi che sappiamo. Il motivo del suo strano modo di parlare viene rivelato quando vediamo la piccola Adelaide strangolata dal suo clone, prima di essere imprigionata nell'inferno sotterraneo. La forza della stretta le ha danneggiato le corde vocali.

I conigli

Perché i cloni mangiano carne di coniglio cruda? E perché proprio i conigli? Jordan Peele in proposito ha detto che sono animali teneri e al tempo stesso inquietanti: “mettete il cervello di un coniglio in un corpo umano e otterrete Michael Myers”. La loro presenza nel sottosuolo è ipotizzabile come conseguenza di un esperimento di clonazione precedente a quello sugli esseri umani. Una volta liberati dai cloni si sono riprodotti e hanno costituito la loro unica fonte di cibo. La figlia di Adelaide, Zora, indossa due magliette: una con un coniglio bianco e l'altra con la scritta Tho che in vietnamita significa proprio coniglio. Seguendo un bianconiglio, poi, Alice si ritrovò a cadere giù per un pozzo per finire in uno strano e pericoloso mondo alieno e nella seconda parte delle sue avventure attraversò uno specchio. Inoltre, anche se pochi ci hanno fatto caso, i conigli sono una strizzata d'occhio al primo film di Jordan Peele, dove la canzoncina iniziale della caccia all'uomo era “Run, Rabbit Run”.



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X-Men, il video del ritrovo di Hugh Jackman, Patrick Stewart, Halle Berry e non solo a vent’anni di distanza

Sono passati ormai vent’anni dallo sbarco degli X-Men in grande stile al cinema, adattamento delle mitiche avventure a fumetti della serie omonima della Marvel Comics. Occasione da festeggiare con una reunion del cast originale, seppure via Zoom, come d’obbligo in epoca di coronavirus ancora molto attivo negli Stati Uniti. C’erano le star assolute della serie, come Hugh Jackman, Ian McKellen, Patrick Stewart, insieme a Halle Berry Famke Janssen. Una riunione in simpatia e serenità, turbata dall’irruzione nientemeno che di Mr. Deadpool in persona, Ryan Reynolds, poi è stata la volta di James McAvoy, nuova entrata di X-Men L’inizio del 2011, seguiti da Sophie Turner di Dark Phoenix, che si è unita alla live al grido di “Scusate, pensavo fosse una reunion di Game of Thrones!”.

A un certo punto spariscono tutti, lasciando solo il capogruppo Hugh Jackman, insieme al prezzemolino Reynolds, con un’altra sorpresa: l’arrivo di Liev Schreiber. Insomma, all’improvviso si è trasformato in una rimpatriata da X-Men le origini Wolverine.

Divertenti trovare e scenette a fin di bene, per sostenere Global Citizen, una piattaforma si sostegno sociale per una generazione che in tutto il mondo sta affrontando e cercando di risolvere la più grande sfida da decenni. Sulla piattaforma si trovano informazioni su come poter anche agire per dare una mano e attivarsi in prima persona.

Ma ecco il video



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Almodovar in Madres paralelas tornerà a raccontare la maternità con Penelope Cruz protagonista

Sono pochi i rapporti così speciali fra un autore e la propria attrice feticcio come quello fra Pedro Almodovar e Penelope Cruz, che torneranno a lavorare insieme nel film Madres paralelas, un ritorno al tema più caro del regista spagnolo, la maternità, in un dramma ambientato a Madrid. La preproduzione dovrebbe partire il prossimo ottobre, mentre le riprese sono previste per il febbraio del 2021, con un’uscita nelle sale a fine anno. Sono informazioni date a Variety dal fratello del regista, Agustin Almodovar, produttore di questo come degli altri film del grande cantore della donna al cinema.

Nonostante non ci siano ancora certezze o contratti firmati, come detto dovrebbe essere molto probabilmente la Cruz a recitare nel ruolo della protagonista. Per ora ha già letto e amato la sceneggiatura, difficile immaginare possa finire per rifiutare. Madres paralelas è un progetto a cui Almodovar pensa e lavora da molto tempo. La quarantena da tre mesi che ha costretto in casa gli spagnoli, come quasi tutti gli europei, ha fatto sì che riuscisse a rimettere mano sulla storia e a finire di scrivere la sceneggiatura.

La storia è quella di due madri che partoriscono lo stesso giorno, mentre il film segue le loro vite parallele nei primi due anni di vita dei bambini, secondo quanto dichiarato da Almodovar all’agenzia spagnola EFE, la prima a dare la notizia che Madres paralelas sarà il prossimo progetto per il regista, che a questo punto ha messo in attesa il lavoro di preparazione della sua prima opera in inglese, A Manual for Cleaning Women, adattamento della collezione di racconti della scrittrice americana Lucia Berlin pubblicata in Italia per Bollati Boringhieri con il titolo La donna che scriveva racconti.



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30 anni di Tartarughe Ninja alla riscossa: i segreti e le curiosità del film cult

Nel 1990 usciva negli States Tartarughe Ninja alla riscossa, poi anche nelle nostre sale in quel Natale: il film di Steve Barron compie 30 anni ed è disponibile in streaming su Amazon Prime Video. Girato nel 1989, di fatto conclude il decennio magico degli anni Ottanta, pieno di cult realizzati con tecnologie artigianali e analogiche, prima della rivoluzione digitale partita da Jurassic Park nel 1993. Per questo motivo ci sembra doveroso celebrare il film raccontandolo da tre punti di vista differenti.

Tartarughe Ninja alla riscossa, come furono realizzate le tartarughe

Se si pensa al reboot Tartarughe Ninja del 2014, è facile immaginare come siano stati resi sullo schermo Michelangelo, Donatello, Raffaello e Leonardo: computer grafica, in performance capture e animazione manuale in post-produzione, come integrazione. Prassi. Tra il 1989 e il 1990 questa era fantascienza, quindi le umanoidi tartarughe ninja ideate per il loro fumetto da Kevin Eastman e Peter Laird dovevano essere fisicamente presenti sul set.
Quando la Golden Harvest decise di produrre l'adattamento, si associò alla Limelight Entertainment, che aveva sotto contratto il regista Steve Barron: era un allineamento di pianeti, perché Barron aveva diretto già diversi episodi della serie fantasy The Storyteller, ideata dal creatore dei Muppet, Jim Henson. Il suo legame con Henson avrebbe potuto coinvolgere nella produzione il Jim Henson Creature Shop per la creazione di costumi, pupazzi e animatronic.
Negli studi londinesi di Henson, gli elaborati costumi per Tartarughe Ninja alla riscossa furono creati in 18 mesi: stando allo stesso Jim, si trattò fino a quel momento delle creature più complesse a cui avessero dato mai vita. I performer, oltre a indossare i loro scafandri per trasformarsi nei quattro fratelli, portavano nascosti nelle teste i rumorosi apparati necessari a muovere i muscoli facciali, telecomandati esternamente da burattinai: Josh Pais, interprete di Raffaello, paragonò l'esperienza a un giro "alla Stazione Centrale di New York, all'ora di punta, con la testa in una lattina". I costumi inoltre rallentavano i movimenti, tanto che le sequenze con le Tartarughe Ninja furono girate a 22-23 fotogrammi al secondo, in luogo degli usuali 24, in modo tale da risultare leggermente accelerate in proiezione... e quindi meno goffe!
Il saggio ratto Splinter era invece un classico Muppet, mosso da più persone diverse: il veterano Kevin Clash (attivo anche su Labyrinth) e un suo collega si occupavano della performance di testa e arti, mentre un terzo burattinaio telecomandava la sua mimica facciale.
Discorso diverso per i flashback: se vi sono sembrati sgranati e sfuocati, ciò si deve all'uso della pellicola Super 8, per volere di Barron. Non fu tuttavia lui a dedicarsi a questi segmenti: furono affidati alla seconda unità, diretta da Brian Henson, figlio di Jim e in futuro autore in proprio.

Tartarughe Ninja alla riscossa, il film che nessuno voleva fare

Oggi adattare un fumetto in un cinecomic sembra un affare a cui nessuno sa dire di no, ma le cose non stavano così negli anni Ottanta. Sin dalla prima pubblicazione del fumetto nel 1984 si era pensato di trarne un film, ancora prima che partisse la serie tv animata omonima nel 1987: ebbene, si era rivelato praticamente impossibile trovare qualcuno interessato a rischiare. Il progetto fu rifiutato da Walt Disney, Columbia, MGM, Orion Pictures, Paramount e Warner, spaventate dal flop dei Dominatori dell'universo del 1987, per nulla aiutato dalla popolarità del cartoon televisivo. Finalmente il film fu avviato grazie all'allora piccola New Line, all'epoca legata solo al cinema di serie B o indipendente. Per questa ragione, paradossalmente Tartarughe Ninja non è annoverabile tra i "blockbuster", ma anzi è stato per decenni considerato il più remunerativo film indie mai realizzato: costato appena 13.500.000 di dollari (equivalenti a 26.750.000 di oggi), ne portò a casa nel mondo oltre 200, di cui ben 135 (pari a 267 attuali) solo negli States! Diede origine a due seguiti, Tartarughe Ninja II - Il segreto di Ooze (1991) e Tartarughe Ninja III (1993).
Ironia della sorte: Corey Feldman, uno dei Goonies, accettò di doppiare in originale Donatello accontentandosi di 1.500 dollari (!), sicuro che si trattasse dell'impegno per un B-movie che a stento avrebbe tirato su qualche dollaro in home video.

Tartarughe Ninja alla riscossa, qualche curiosità

Le Tartarughe Ninja avevano un fan d'eccezione, Robin Williams! Amico di Judith Hoag alias April dopo Cadillac Man, le spiegò in cosa consistesse il franchise, basandosi sulla sua collezione. Judith accettò il ruolo, battendo le altre attrici in lizza, molte delle quali divenute poi star di prima grandezza: Sandra Bullock, Nicole Kidman, Jennifer Beals, Marisa Tomei, Lorraine Bracco, Winona Ryder Melanie Griffith, Sean Young e Brooke Shields! L'attrice rimase tuttavia scottata sia dalla velocità di produzione delle scene che la riguardavano (sei giorni!) sia dalla violenza del film finito, a dir il vero invisa anche allo stesso Jim Henson, che prese le distanze dal risultato finale, pur mantenendosi orgoglioso dal lavoro svolto sugli animatronic. Jean Paige Turco ereditò la parte di April nel secondo e terzo lungometraggio del ciclo.
Come forma di ringraziamento per il duro (e asfissiante!) lavoro negli scafandri, ai quattro interpreti fisici delle Tartarughe furono concessi cammeo nel film: il Michelan Sisti di Michelangelo per esempio è il fattorino delle pizze.
Se avete buon occhio, realizzerete che il capo dei "giovani perduti" comandati da Shredder ha un volto noto: è un giovanissimo Sam Rockwell, non all'esordio assoluto, perché era già stato nel cast di Ultima fermata Brooklyn nel 1989.
Presumiamo inoltre che il vero appassionato di Quentin Tarantino possa fare un salto sulla sedia leggendo i credits dei montatori: al suo primo incarico in lungometraggio, c'è qui infatti la compianta Sally Menke.
Anche molti giovani future star maschili gravitarono intorno al progetto in fase di casting, per il ruolo di Casey Jones andato poi ad Elias Koteas. Volete qualche nome illustre? Keanu Reeves, Christian Slater, Johnny Depp, Emilio Estevez, Jason Patric, Kiefer Sutherland, Alex Winter e River Phoenix. Scopri Amazon Prime Video



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Jim Carrey racconta Hollywood in un libro satirico di memorie, e ha paura che Tom Cruise possa picchiarlo

Jim Carrey è pronto a dire tutto su Hoillywood, ma a suo modo, satiricamente, addirittura in maniera distorta, come lui stesso ha detto presentando il suo libro di memorie Memoirs and Misinformation al New York Times. Scritto insieme a Dana Vachon, sarà nelle librerie americane a luglio, dopo ben otto anni di lavoro di scrittura a quattro mani. Viene raccontata la storia di una versione di finzione di Jim Carrey che si muove per Hollywood in cerca di senso, dopo anni di successo come attore.
Viene definito “un romanzo semi-autobiografico” intento a creare una sorta di Hollywood parallela, l’unico bizzarro modo in cui Carrey ha voluto declinare la sua versione di memoir.

Non c’è niente, a questo punto della mia vita artistica, di più noioso dell’idea di scrivere fatti reali della mia vita in qualche forma di ordine cronologico”, ha detto l’attore. “Cercare di espandere il mio brand: non troverete niente di simile, in questo libro. Jim Carrey è un avatar di chiunque si trovi nella mia posizione: dell’artista, della celebrità, della star. Quel mondo con tutti gli eccessi e la voracità, la vanità, l’essere autoriferiti. Alcune cose sono molto vere, ma non saprete cosa è vero e cosa non lo è, ma anche gli aspetti di finzione del libro rivelano una verità”.

Il primo incontro con Jim Carrey nel libro ce lo presenta come un attore solitario sommerso dal privilegio e dalla ricchezza. È a un punto della sua carriera in cui “sta scegliendo fra il ruolo di protagonista in un biopic su Mao tse-tung e un film di studio basato su un giocattolo per bambini”. Una seconda possibilità a Hollywood gli arriva dopo aver incontrato una giovane ragazzina ingenua di nome Georgie, facendo squadra con lo sceneggiatore Charlie Kaufman per un “nuovo film che si spinge oltre i limiti”. Come noto, Carrey ha realmente lavorato con Kaufman in Se mi lasci ti cancello.

La particolarità del libro Memoirs and Misinformation è la presenza di versioni di finzione di grandi star del cinema come Gwyneth Paltrow, Nicolas Cage o Anthony Hopkins, fra gli altri. Sempre parlando con il New York Times, l’attore ha detto di aver mandato una lettera di spiegazione a ogni persona citata nel libro, spiegando cosa intendesse fare con il suo romanzo. “È satira e parodia, ma fatta anche con reverenza. La maggior parte delle persone presenti nel libro sono persone che ammiro molto”. 

Qualche esempio? Nicolas Cage, pensate, è addirittura un collezionista di teschi di dinosauro, nonché nella finzione migliore amico di Carrey. I due si sono molto parlati durante la scrittura, rassicura Carrey, e Cage ha avuto solo parole di incoraggiamento per il progetto. “Non hai idea, Jim, sono molto onorato, amico”, ha risposto una volta saputo, mentre Carrey gli ha assicurato di avergli riservato “le battute migliori”.

Poi però c’è la questione Tom Cruise, che viene citato come "Laser Jack Lighting” per ragioni legali. “Si fa tutto per divertimento”, ha aggiunto Carrey al Times, anche se non è proprio sicuro al 100% che Cruise la prenderà bene. “Si tratta semplicemente di prendere in giro la litigiosità di Hollywood. Conosco Tom Cruise, potrebbe picchiarmi, ma prenderò le botte per un’opera d’arte. Penso invece che lo amerà”.

Memoirs and Misinformation sarà disponibile dal 7 luglio, anche in una versione audiobook letta da Jeff Daniels, compare di Carrey in Scemo e più scemo.



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