sabato 29 febbraio 2020

Il giovane cinema che piace all’estero, Elio Germano e i D’Innocenzo Bros commentano i loro premi alla Berlinale 2020


Abbiamo incontrato i nostri tre moschettieri al Festival di Berlino 2020 mentre il produttore di Volevo nascondermi vuole uscire presto in sala.

Emozione, risate, una birra rilassante. Il nostro cinema esce a piene mani da questa 70° edizione della Berlinale, con il primo anno di un direttore artistico italiano, Carlo Chatrian, oltre a un giurato come Luca Marinelli. Orsi d’argento in mano, per la sceneggiatura ai fratelli gemelli trentenni Fabio e Damiano D’Innocenzo e come miglior attore per Elio Germano. Quest’ultimo sorride compiaciuto quando gli ricordiamo, sequestrandolo con qualche collega della stampa italiana appena finita la premiazione, come sia entrato in un novero di attori come Volontè o Mastroianni, avendo vinto due premi in due dei maggiori festival internazionali come Berlino e Cannes.

“Dai, magari a 50 anni vincerò anche la Coppa Volpi”, ha scherzato l’attore. “Sono contento già quando i film vanno in concorso e ottengono quindi una vita all’estero, al di là di quella spesso breve nel nostro paese. Già il fatto che una giuria come quella di quest’anno abbia visto il film, come i presenti qui a Berlino, è un grosso risultato, davvero gratificante. Sono convinto che ogni volta anche un premio per un attore va in realtà al film, a tutti quelli che hanno fatto un gran lavoro, dal regista Giorgio Diritti ai truccatori, ai volontari. È stata una lavorazione faticosa e, anche senza il riconoscimento di stasera, ce ne saremmo ricordati per molto di questa esperienza. È un momento bellissimo per l’Italia del cinema, sono contento di essere in tutti e due i film, così diversi e che abbiano ottenuto entrambi un orso. Ormai viaggiamo bene all’estero con un nuovo cinema, diverso, che non scimmiotta i successi precedenti. C’è poi in corso un ricambio generazionale, con una libertà di linguaggio che il cinema può offrire, con voci diverse per età o provenienza, penso agli immigrati di seconda generazione; ognuno può raccontare delle storie con il proprio punto di vista, senza che siano standardizzate.”

Germano ha poi voluto commentare un contagio che lo preoccupa particolarmente, “che provoca danni pesanti più del virus: la paura, quella che contagia senza mascherine, ma con quello che leggiamo da casa o sui telefonini, una psicosi devastante alimentata da tante persone. Da sempre, in fondo, la paura è stato uno strumento per controllare i popoli, l’antidoto è da sempre la conoscenza e la cultura, il cinema possono aiutare ad aprire gli occhi, a riaccendere i cervelli e spegnere i telefoni e la televisione, non solo a distrarre.” A proposito della voglia del cinema di tornare in sala, il produttore di Volevo nascondermi, Carlo Degli Esposti, ha tenuto a prendere una posizione chiara con gli italiani. 

Cercheremo di essere i primi a uscire, per rompere la paura che la sala adesso genera, e questo successo ci aiuterà. Appena ci saranno i presupposti minimi, in accordo con 01 e Rai Cinema vorremmo fare da apripista. Questa o la prossima settimana, se ci saranno apertura a scacchiera le cavalcheremo con Volevo nascondermi, lo faremo nonostante una situazione postbellica, ma ne saremo orgogliosi anche se sarà molto complicato.”

Particolarmente entusiasti, presentati da una Bérénice Bejo raggiante, commossi e con parole di amore fra gemelli sul palco che hanno commosso giurati e pubblico, Fabio e Damiano D’Innocenzo si sono detti entusiasti che il loro premio sia andato proprio alla sceneggiatura di Favolacce. “Una cosa che ha un senso poetico strordinario”, ci hanno detto, “ce lo aspettavamo, chissà, siamo dei profeti, ma è una storia che parla di noi che cerchiamo di capire cosa possa essere la vita, innovativa, un scrittura che parla a tutti, un omaggio di inventiva e rabbia. Ci abbiamo messo anni a dirigerla, ma ogni volta l’abbiamo ripresa in mano senza fare quasi cambiamenti, era perfetta. Ogni film ti permette incontri che vanno mantenuti anche al di fuori del lavoro, con produttori attori, maesteanze, incontri che ti fanno crescere anche personalmente e creano una famiglia. Per noi che siamo gemelli il rapporti di sangue, la famiglia, è cruciale. Girando La terra dell’abbastanza non sapevamo se potevamo fare gli sceneggiatori o i registi, l’abbiamo fatto in apnea, capendo se riuscivamo a gestire una macchina produttiva e distributiva importante. Ora abbiamo preso consapevolezza e sappiamo che sarà il nostro lavoro per i prossimi trent’anni."



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There Is No Evil dall'Iran vince l'orso d'oro, premi anche a Elio Germano e i gemelli D'Innocenzo al Festival di Berlino 2020


Lo splendido affresco sulla pena di morte in Iran in quattro parti ha conquistato giuria critica e spettatori della Berlinale 70.

Sono stati annunciatii premi della 70° edizione della Berlinale, la prima della nuova direzione a due, artistica del valdostano Carlo Chatrian, e amministrativa di Mariette Rissenbeek. Il presidente di giuria, Jeremy Irons, insieme ai suoi colleghi della Giuria Internazionale, tra i quali il nostro Luca Marinelli, a giudicare dai risultati molto attivo in sede di verdetto, Bérénice Bejo e Kenneth Lonergan, hanno riconosciuto la qualità dei nostri film in concorso,

Qui di seguito l'elenco completo del palmares.

Orso d'oro per il miglior film:
There Is No Evil di Mohammad Rasoulof

Orso d'argento Gran Premio della Giuria:
Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman

Premio 70° Berlinale per l'innovazione:
Delépine e Kervern per Effacer l'historique

Orso d'argento per la miglior regia:
Hong Sang-Soo per The Woman Who Run

Orso d'argento per la migliore attrice:
Paula Beer per Undine

Orso d'argento per il miglior attore:
Elio Germano 
per Volevo nascondermi

Orso d'argento per la miglior sceneggiatura:
Fabio e Damiano D'Innocenzo
 per Favolacce

Orso d'argento per il miglior contributo tecnico:
per la fotografia di DAU. Natasha

Premio per la migliore opera prima:
Los Conductos di Camilo Restrepo

Premio per il miglior documentario
Irradiés di Rithy Panh
Menzione speciale:
Notes from the Underworld, di Tizza Covi e Rainer Frimmel

Panorama - Premio del Pubblico, fiction

 Otac di Srdan Golubovic
Futur Drei (Stitches) di Faraz Shariat
3° Hap di Maria Sodahl

Panorama - Premio del Pubblico, documentari:
Welcome to Chechnya di David France
Saudi Runaway di Susanne Regina Meures
Petite Fille di Sebastien Lifshitz



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Berlino 2020 - Previsioni e bilancio

Sono otto solitamente i film che vengono premiati alla Berlinale, poi può succedere che qualche film venga premiato due volte, è accaduto negli anni scorsi ma di rado. Il bilancio complessivo è buono, con una leggera tendenza in crescita nella seconda parte del festival, talché si fa fatica a escludere i film, ad individuarne dieci che non meritano affatto, e bisogna trovarne dieci tenuto conto che i film nel complesso erano 18. Ebbene fra gli otto premiati, non ci sarà, crediamo El prófugo, il primo film in concorso, di origine argentina che non abbiamo nemmeno recensito, non dovrebbe esserci nemmeno First cow, il film americano ambientato nell'800, neanche il film brasiliano Todos os mortos, nemmeno Siberia, non certo uno dei migliori film di Abel Ferrara, e probabilmente Schwesterlein, ottimi attori ma per il resto film troppo tradizionale (e fra gli attori, Nina Hoss è già stata premiata con Yella tredici anni fa), probabilmente neanche habitué dei festival, peraltro altrove già premiati ci saranno, mi riferisco al film di Hong Sangosoo e a quello di Tsai Ming-liang. Saremmo inorriditi se fra i premiati ci fosse Berlin Alexanderplatz, ma uno dei due attori potrebbe essere premiato. Escluderemmo anche il film di Sally Potter, anche se, pure in questo caso, sia Elle Fanning che Javier Bardem (pur troppo celebre) sono bravissimi. Difficile dire cosa succederà ai due italiani. Improbabile che prendano uno dei premi maggiori (Orso d'Oro, Premio della Giuria, regia), in discussione potrebbe essere Elio Germano (presente in entrambi), ma che ha già vinto sia a Venezia che a Cannes o magari Favolacce per la sceneggiatura. Difficile anche capire che ne sarà di Undine di Christian Petzold che si è già aggiudicato, per il Concorso, il premio FIPRESCI. Addirittura impossibile comprendere che ne sarà di Irradiés, un film incomparabile con tutti gli altri. I due film francesi (Garrel e Délepine/Kervern) vorremmo che venissero premiati ma non sarà così.

Azzardiamo dunque un pronostico: i tre premi principali (Orso d'Oro, Premio della Giuria e regia) li prenderanno There is no evil, DAU. Natasha e Never, rarely, sometimes, always.
Come film innovativo potrebbe vincere Irradiés. Il premio alla sceneggiatura potrebbe andare a Favolacce, ma di buone sceneggiature ce ne sono tante, quella di Never, rarely…etc, quella, ovviamente, del film iraniano, e quella dei due film francesi. Il migliore attore – se si escludono gli attori celeberrimi: Dafoe, Bardem, – potrebbe toccare a uno dei due di Berlin Alexanderplatz oppure a Elio Germano. La migliore attrice è già più difficile: escludendo Nina Hoss che pure lo rimeriterebbe, restano Érica Rivas di El Prófugo, Paula Beer di Undine, Blanche Gardin di Effacer l'historique, Sidney Flanigan di Never, rarely, sometimes, always, Natalia Bereznaya di DAU. Natasha e appunto Elle Fanning nel film di Sally Potter. Noi lo daremmo a Blanche Gardin o a Natalia Bereznaya. Il premio tecnico, che di solito è un direttore della fotografia, potrebbe toccare a molti: la camera a mano di DAU. Natasha, ma anche Paolo Carnera per Favolacce o Matteo Cocco per Volevo nascondermi.
Se poi, per il premio tecnico, dovessero premiare il sound design, beh, non ci sarebbe gara: quello del film di Tsai Ming-liang.



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The alien - Forum

Un giorno dovremmo tornare a chiederci se la mancanza di libertà politiche ed espressive, non aiuti l'individuazione di un linguaggio indiretto, allusivo, che è poi spesso la caratteristica della poesia. Nascosto fra le pieghe di Forum, la sezione storicamente più ostica della Berlinale, è assolutamente da segnalare il primo lungometraggio del quarantacinquenne regista iraniano Nader Saeivar, intitolato Namo, il titolo internazionale è The alien, ovvero l'alieno. Il film inizia come un breve romanzo di Christa Wolf, intitolato Che cosa resta, non a caso un testo, almeno in parte, prodotto in un regime con limitazioni alle libertà espressive.

All'improvviso, sulla strada abbastanza trafficata di una cittadina multietnica del nord-ovest dell'Iran, compare una macchina, che stazionerà lì ininterrottamente per giorni, con due individui a bordo. Tutti si chiedono quella macchina che ci faccia lì, tutti si chiedono quella macchina per chi sia lì. Quel che fin dall'inizio appare evidente è che la macchina sia dei servizi di sicurezza. Ciò che rende ancor più inquietante questa novità è peraltro la continua presenza di elicotteri nel cielo della città, e poi l'autoradio del protagonista non fa che raccontare movimenti di protesta contro il regime…

Il protagonista? L'attenzione dello spettatore e degli altri personaggi comincia inesorabilmente a concentrarsi appunto sul protagonista, Bakhtiyar, un uomo mite e risoluto che insegna storia in un liceo (ma ancora è precario, lo attende proprio in questi giorni l'esame per una possibile stabilizzazione definitiva) e arrotonda guidando il taxi. Bakhtiyar è di origine curda, anche se conosce il farsi meglio del curdo, ma non parla il turco, lingua nella quale alcuni si esprimono in questa zona di confine. Bakhtiyar è un uomo mite sì, ma non particolarmente incline ai compromessi, per esempio quando scopre un allievo a copiare una prova di esame vorrebbe sospenderlo, ma il preside lo convince a soprassedere, essendo il padre uno dei più generosi sponsor della scuola…

Ciò che fa sì che l'attenzione si concentri su di lui è, da un lato, il fatto che nel condominio al centro del film lui sia uno degli ultimi arrivati e, dall'altro, che il padre, pur ormai vecchissimo e affetto da Alzheimer, in passato è stato politicamente attivo, e adesso vive insieme al figlio. Quanto basta per immaginare che i signori della macchina siano lì proprio per lui. Con lenta e impercettibile inesorabilità l'equilibrio apparente di Bakhtiyar cade a pezzi: malgrado in quella strada, in quel condominio nessuno abbia la coscienza completamente a posto - uno ha sottratto denaro alla banca dove lavora, un altro ha il figlio dipendente da droga e/o farmaci che tende costantemente a perdere il controllo - i vicini cominciano a guardarlo di traverso, anche il rapporto con la moglie, fin qui affettuoso, si sgretola, e anche la professione rischia di saltare, visto che la reazione dell'insegnante all'interrogatorio che dovrebbe condurre alla sua stabilizzazione non va affatto nella direzione auspicata dai superiori, Bakhtiyar, esasperato dall'ottusità dell'ispettore, si ribella.

I dialoghi sono straordinari, la sceneggiatura perfetta, non a caso scritta da Saeivar a quattro mani insieme a Jafar Panahi, responsabile anche del montaggio, la regia lineare e sobria. Insomma, cinema iraniano "at his best".

(Namo); Regia: Nader Saeivar; sceneggiatura: Nader Saeivar, Jafar Panahi; fotografia: Vahid Biuote; montaggio: Jafar Panahi; interpreti: Bakhtiyar Panjeei (Bakhtiyar), Sevil Shirgi (Sevil ), Naser Hashemi (Mr. Solat), Hadi Eftekharzadeh (Mr. Dvod), Firoz Ageli (Mr. Reza); produzione: Avaye Nafas; origine: Iran 2020; durata: 93'



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There is no evil - Berlino 2020

Il concorso della Berlinale 2020 si conclude col botto, con un film che potrebbe mettere d'accordo tutti, aggiudicandosi l'Orso d'Oro. Il film è intitolato There is no evil, diretto dal regista iraniano Mohammad Rasoulof, giunto al settimo lungometraggio nell'arco di una ventina d'anni. Il film ha un unico paradossale difetto che potrebbe penalizzarlo per l'ottenimento del massimo riconoscimento: il regista non ha il permesso di girare, gli è stato ritirato il passaporto e quindi non ha potuto presenziare alla prima berlinese, col che, premiandolo, verrebbe a configurarsi una costellazione identica a quella capitata a Jafar Panahi, esattamente cinque anni fa, quando vinse l'Orso d'Oro per così dire in contumacia, dopo essere stato, sempre in contumacia, presidente di Giuria. Con la differenza che Taxi Teheran era un buon film e il premio, per carità legittimo, parve prima di ogni altra cosa un gesto politico, in questo caso sarebbe un premio a un film importante, con una sceneggiatura eccellente, costruito ottimamente e altrettanto ottimamente recitato.

Il film è diviso in un prologo e tre episodi. Il prologo descrive la giornata tipo di una perfetta famiglia borghese, con quello stile meravigliosamente realistico ma mai banale che contraddistingue alla stregua di un patrimonio genetico, intergenerazionale, la quasi totalità del cinema iraniano: il padre Heshmat esce dal lavoro, dopo aver caricato in macchina e poi scaricato un sacco contenente la razione di riso a lui spettante, torna a casa, si cambia d'abito, libera il gattino dei vicini che si è incastrato accanto alla caldaia condominiale al piano interrato, va a prelevare la moglie insegnante, va a ritirare lo stipendio in banca, ritira da scuola anche la figlia, va insieme a loro a fare la spesona settimanale al supermercato, a trovare la mamma/nonna malata, amorevolmente accudendola, va a mangiare la pizza con moglie e figlia. Poi, unico segnale disturbante, prende delle pastiglie e finisce a letto addormentandosi all'istante. La sveglia, del resto, sarà alle 3 del mattino. La giornata ricomincia. Doccia, neanche il tempo di far colazione, prende la macchina, Teheran piovosa, uggiosa, si apre un cancello automatico, s'intuisce che Heshmat lavora in un carcere. Inizia il turno di lavoro, si prepara finalmente la colazione, ma la colazione deve, seppur brevemente attendere, perché si accendono delle spie rosse che poi diventano verdi. Heshmat deve solo premere un bottone. La macchina da presa inquadra piedi ciondolanti. E così veniamo a sapere che, con la più grande nonchalance, Heshmat di mestiere fa il boia. Heshmat svolge con compunzione e senso del dovere il proprio mestiere, Heshmat obbedisce. E sulla dicotomia obbedienza/disobbedienza vertono i tre episodi successivi, l'ultimo dei quali riguarda – a occhio e croce una ventina d'anni dopo – lo stesso personaggio del primo episodio, o comunque un personaggio che ha compiuto un gesto analogo a quello compiuto vent'anni prima, nei credits, in realtà, i nomi dei personaggi sono diversi.

Nel primo episodio (Lei disse: “Ce la farai”) il protagonista Pouya, un soldato di leva, addetto materialmente alla squadra che si occupa di esecuzioni capitali e incaricato di togliere lo sgabello da sotto i piedi ai condannati all'impiccagione, si ribella e rifiuta di compiere il gesto, rischiando la pelle, ma alla fine ottenendo il risultato auspicato di non macchiarsi di quel delitto e quindi fuggendo con la propria ragazza che l'aspetta fuori del medesimo carcere che avevamo visto nel prologo (era stata forse lei a pronunciare le parole di cui al titolo?). I due felici si allontanano accompagnati dalle note di Bella Ciao cantata da Milva, canzone di opposizione in tutto il Medio Oriente.

Nel secondo episodio, il più drammatico e forse il più bello (Compleanno), il protagonista, Javad, anch'egli soldato di leva, ha compiuto la scelta opposta, quell'ordine l'ha eseguito e per premio ha ricevuto una licenza nel corso della quale va a trovare la sua ragazza che con tutta la famiglia vive in una casa di montagna, in atteggiamento di aperta resilienza al potere, peccato che la festa di compleanno - che avrebbe dovuto coincidere con l'ufficializzazione della proposta di matrimonio - si trasformerà in qualcosa di profondamente altro (che non riveleremo, il film uscirà in Italia per la Satine Film), provocando una serie di reazioni a catena e di shock sia in lui che nella fidanzata Nana. Anche in questo episodio non un dettaglio fuori posto, non una parola in più.

Il terzo e ultimo episodio (Baciami), a cui invece un taglietto di cinque-dieci minuti non sarebbe guastato, è anch'esso ambientato in una zona semi-desertica, dove vive una coppia isolata dal mondo, senza telefono e senza internet: lui fa il medico e l'apicultore insieme alla sua (nuova) compagna di qualche anno più giovane. Scopriremo che non ha molto tempo davanti a sé perché presenta tutti i sintomi di un tumore al polmone. L'episodio è incentrato sulla visita della nipote proveniente dalla Germania. Fin dall'inizio – in mezzo alle molte telefonate che la ragazza fa al padre in Germania e al suo stupore rispetto a un mondo che fa fatica a comprendere – capiamo che c'è una rivelazione importante che ci attende, che la ragazza è stata convocata appositamente in Iran proprio per venire a sapere qualcosa di cui era all'oscuro. Lo spettatore intuisce abbastanza presto che tipo di rivelazione possa essere e intuisce anche quale sarà la reazione della ragazza, interpretata dalla figlia del regista, essa stessa cresciuta in Germania (ad Amburgo, il film è stato anche cofinanziato da film commission tedesche) e che in questo film negozia, almeno in parte, le vicende famigliari. E anche qui si parla di obbedienza/disobbedienza alla legge: legge morale vs legge dello Stato, trascendendo il caso specifico iraniano e assurgendo a questioni di valenza transnazionale e sovratemporale. Quando ai produttori, in conferenza stampa, è stato chiesto di dire qualcosa di più in merito alla logistica delle riprese, la risposta è stata comprensibilmente laconica, tenendo conto, lo ribadiamo, che Rasoulof tecnicamente avrebbe il divieto di girare, pur non essendo agli arresti domiciliari. Appare, al momento, improbabile che il film possa essere distribuito nelle sale iraniane, troppo scomode sono le questioni che affronta, troppe sono le infrazioni alla politica restrittiva e censoria delle autorità locali. Eppure si tratta di un film eccellente, nient'affatto manicheo e fazioso, ma delicatissimo nel porre questioni etiche di straordinario spessore.

(Sheytan vojud nadarad); Regia: Mohammad Rasoulof; sceneggiatura: Mohammad Rasoulof; fotografia: Ashkan Ashkani; montaggio: Mohammadreza Muini, Meysam Muini; interpreti: Ehsan Mirhosseini (Heshmat), Shaghayegh Shourian (Razieh ), Kaveh Ahangar (Pouya), Mahtab Servati (Nana), Mohammad Valizadegan (Javad), Mohammad Seddighimehr (Bahram), Baran Rasoulof (Darya); produzione: Cosmopol Film, Europa Media Nest, Filmiran; origine: Iran-Germania-Repubblica Ceca, 2020; durata: 150'



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Favolacce - Berlino 2020

Dopo il loro primo lungometraggio La terra dell'abbondanza, che ha riscosso un notevole successo ed era stato presentato proprio qui a Berlino nella sezione "Panorama" nel 2018, i due giovani registi, classe 1988, Damiano e Fabio D'Innocenzo, fratelli gemelli, inseparabili nella vita e sul set sono arrivati con una consapevole maturità anche a questa loro opera seconda, Favolacce.

Il titolo, di stampo pasoliniano, è già degno di nota e infatti potremmo subito intuire di che tipo di film si sono occupati questi ragazzi così spontanei e geniali al contempo, nati a Tor Bella Monaca e cresciuti in varie località del litorale romano. Lo spiegano con disinvoltura durante la conferenza stampa in un clima di assoluta serenità, nonostante le tematiche siano molto difficili e oltretutto di stampo autobiografico.

«È difficile trovare parole sintetiche e abbastanza efficaci per descrivere i temi che volevamo affrontare nel nostro secondo progetto. Anche perché abbiamo scelto di usare le immagini per raccontare la storia piuttosto che la sola scrittura. La scrittura è troppo precisa, troppo inequivocabile. E non bastava per questa storia. C'è molto silenzio nel film e, paradossalmente, quando i personaggi parlano comunicano ancora meno di quando stanno in silenzio. Disagio, solitudine e apprensione trovano il loro luogo ideale all'interno delle famiglie di Favolacce: la casa - ciò che siamo soliti pensare come un nido, sebbene forse teneramente limitante - diventa nella storia il posto in cui convivono intolleranza, freddezza e ansia. Basta dare un'occhiata alle statistiche sui casi di violenza domestica per renderci conto di quanto questo corrisponda purtroppo a verità. Volevamo indagare sull'interruzione di comunicazione di queste famiglie, immerse nella stagnazione di sterili abitudini, dove forse solo le tragedie hanno la capacità di scuotere le cose».

È così che riassumono la scelta di voler affrontare un argomento per cui si presuppone una grande maturità personale e stilistica: rappresentare il dolore di un'infanzia spezzata, il non detto, lo squallore celato dalle apparenze piccolo borghesi è molto complicato e rischioso. Il tutto si svolge nella provincia romana, ma potrebbe essere di qualsiasi luogo non-luogo nel mondo occidentale, un topos, un microcosmo in cui si dipanano le povertà umane.

È incredibile l'affresco reso dei bambini, protagonisti del film, attraverso delle inquadrature che ne rilevano la loro bellezza ingenua e accattivante, tipica di coloro che stanno conoscendo la vita attraverso centinaia di scoperte continue: il sesso degli adulti, quello curioso degli adolescenti, la cattiveria insospettabile, il sospetto e i segreti indispensabili per poter sopravvivere a casa.
È nei luoghi emblema della protettività che si svolge tutto quanto, di solito, non dovrebbe accadere: la violenza, la solitudine e l'alienazione sociale. È quello che succede ai piccoli protagonisti di questo lavoro dei fratelli D'Innocenzo, che ne hanno rivelato, come si diceva, l'autobiograficità, facendo riferimento alla loro infanzia non semplice, in dei quartieri in cui si cresce in fretta e c'è poco tempo per sognare.

Questo è il centro propulsore di Favolacce: voler sognare a tutti costi nonostante la brutalità della vita e delle famiglie. La voce narrante dei due fratellini Alessia e Dennis non sono che la materializzazione dei ricordi reali dei registi, che dichiarano di avere accelerato la realizzazione di questo lavoro perché non volevano perderne il sapore dei sentimenti con il passare del tempo, visto che lo hanno scritto a soli 19 anni.
La spontaneità e la verità della loro parola emerge con veemenza e attraverso una forza incredibile. È grazie alla potenza della realtà che si riescono a definire quegli spazi grigi altrimenti impossibili da decifrare: i genitori dei bambini sono persone qualunque, ordinarie, che al contempo possono essere la causa di fenomeni anomali potentissimi, generati nei loro figli a causa di una incomunicabilità e assenza di responsabilità impressionanti.

È molto raffinato il modo in cui viene rappresentata l'assenza di dialogo tra genitori e figli, una modalità fatta di non detti, di parole e gesti inutili, pronunciati senza uno scopo preciso e in contesti sbagliati. Nella calma provincia di un paese qualunque i genitori - interpretati da un intenso Elio Germano e una ormai comprovata brava attrice come Barbara Chichiarelli - non si accorgono che il loro figlio Dennis aveva provato a costruire una bomba artigianale, sotto ai loro occhi, proprio come il suo “strano” compagno di classe.

Favolacce viene raccontato proprio dal più emarginato dei compagni di scuola, che vorrebbe cambiare la storia a causa dello straziante e drammaticissimo finale, indotto dalla figura di un ambiguo maestro, crudele e vendicativo. Un'azione grave, che di certo scuoterà l'anima del pubblico italiano, che molto probabilmente rimarrà senza parole davanti alle inquadrature conclusive del film, dove ci si rende coscienti dell'insopportabile dolore che avrebbe accompagnato i ragazzi per tutta la loro vita.
In questo film si è indagato il sentire infantile in modo profondo e shoccante, pochi lavori sono riusciti, di recente, a cogliere in maniera così definita gli stati emotivi e i forti disagi di un periodo dell'esistenza, in cui a dispetto di come molti non sanno o più semplicemente vogliono dimenticare, si formano le coscienze e l'interiorità si avvia a definire l'uomo per sempre. Forse alcuni uomini preferirebbero non esserlo e fissare i loro ricordi lì dove il tempo, lo spazio e la crudeltà della vita non possono più fargli del male.

(Favolacce) Regia: Damiano e Fabio D'Innocenzo; sceneggiatura: Damiano e Fabio D'Innocenzo; fotografia: Paolo Carnera; montaggio: Esmeralda Calabria; interpreti: Elio Germano, Barbara Chichiarelli, Gabriel Montesi, Max Malatesta; produzione: Pepito Produzioni, Rai Cinema, Vision Distribution, Amka Films Productions, RSI; distribuzione: Vision Distribution; origine: Italia, Svizzera; durata: 98'



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Siberia - Berlino 2020

Abel Ferrara continua nella sua ricerca della “black side” dell'animo umano o di tutti gli anfratti insospettabili delle molteplici esistenze che possono appartenere ad un uomo.
Tutto questo avviene attraverso Siberia, presentato alla 70° edizione della Berlinale, con la presenza di un magnifico Willem Dafoe nel suo settimo film a fianco del regista italo-americano, con cui finora ha sicuramente sperimentato un modo di lavorare profondo e di certo non convenzionale.
Non è un caso, che il sodalizio continui nel tempo, perché solo un attore completo come Dafoe può realmente compensare i momenti di afasia della sceneggiatura, riempendone i vuoti attraverso una interpretazione che potremmo definire complementare alle intenzioni artistiche di Ferrara.

Siberia è un viaggio dell'animo umano nel omonimo luogo geografico dove vive il protagonista, vendendo alcolici, in un piccolissimo e sperduto bar, ai pochi abitanti di un ex campo di concentramento; qui la vita scorre con dei ritmi lenti e in un'atmosfera rarefatta.
Tra i pochi personaggi siberiani, appare molto suggestiva la presenza della donna in attesa di un potenziale figlio del protagonista Clint, che sembrerebbe, più che altro, un simbolo della concezione dell'amore secondo il regista.

Elemento centrale di tutto il film è il senso di colpa, che perseguita Clint, partendo dal ricordo d'infanzia in cui andava a pesca con il padre, poi fantasma della memoria in più riprese, e che si materializza soprattutto attraverso la scena, in cui una sua amante lo accusa di avergli rovinato la vita: non a caso anche qui osserviamo la presenza di un figlio.
È come se Ferrara intravedesse nelle future vite un motivo salvifico a l'interno di percorsi oscuri, le molteplici vite/luoghi del protagonista si riassumono in una visione unitaria dell'"Heart of darkness" e di un uomo apparentemente comune ma con una vita interiore molto complessa e problematica.

Le immagini del film, sempre molto suggestive, vanno dagli spazi desolati siberiani al deserto, evocando gli stati emotivi del protagonista sempre circondato da stupendi cani da slitta, anche essi emblema di un rapporto ancestrale dell'uomo con l'istinto mai sopito e la natura più antica.
Chi non amerà un film come Siberia, potrà forse contestarne i tratti stilistici, ma non si può non apprezzarne il continuo desiderio di sperimentare e, in particolar modo, quello di mettersi in gioco attraverso una ricerca dell'Io più profondo ne l'uomo contemporaneo.

Ferrara e Dafoe sono un binomio vincente nel contestare stilemi e canoni usuali del cinema e della recitazione: un modello molto moderno per coloro che vedono il film come una occasione di viaggio nei meandri più misteriosi del animo umano.

(Siberia) Regia: Abel Ferrara; sceneggiatura: Chris Zois, Abel Ferrara; fotografia: Stefano Falivene; montaggio: Fabio Nunziata; musica: Joe Delia; interpreti: Willem Dafoe, Dounia Sichov, Simon Mc Bourney, Cristina Chiriac; produzione: Vivo Film, Maze Pictures, Rai Cinema; origine: Italia, Germania, Messico; durata: 92'



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Isabella - Berlino 2020

Due attrici, una più giovane e inesperta, l'altra più adulta e apparentemente consapevole: il nuovo film di Matías Piñeiro (già conosciuto per A propósito de Buenos Aires, 2006 e per Viola, 2014) è la sua personalissima versione di un Eva contro Eva in cui le relazioni personali non vengono mai esplicitate, ma rimangono sottese e si disperdono all'interno di un'intelaiatura frammentata ricostruibile attraverso i propri dettagli estetici. Mariel e Luciana non sembrano avere niente in comune, al di fuori di un obbiettivo: recitare la parte di Isabella nella ben nota pièce di Shakespeare, Misura per misura. E il film stesso procede a tentoni, ricostruendo l'amore incondizionato che lega Mariel alla sua professione e soffermandosi sulla dolorosa indifferenza di Luciana, ragazza talentuosa ma volubile. Il racconto abbraccia un lasso di tempo indefinito fra i due o i tre anni, sottolineando le incongruenze e le ambiguità del rapporto fra le due donne, ma anche della relazione che intercorre fra la maschera teatrale e la vita di chi la indossa. La pellicola gioca con il testo shakespeariano non soltanto nel continuo passaggio fra commedia e tragedia, ma soprattutto nei nodi che allacciano l'imperturbabile testardaggine di Mariel a quella di Isabella e la malcelata sfacciataggine di Luciana a quella di Angelo.

Esistenza e dramma s'intersecano fra loro, generando innumerevoli quadri al cui interno i personaggi vagano senza seguire una meta precisa ma ripetendo sempre le stesse frasi – una in particolare: «If he had been as you and you as he, you would have slipt like him; but he, like you, would not have been so stern» (ovvero: «Se fosse stato lui al vostro posto e voi al suo, sareste voi del pari caduto nello stesso suo peccato; solamente che, lui, nei vostri panni, non sarebbe con voi stato sì crudo»). Questa sorta di sentenza viene pronunciata con cadenza quasi ossessiva, trasformandosi rapidamente in gioco e poi nuovamente in verdetto, per svuotarsi definitivamente al termine della pellicola. Le parole perdono e acquistano il proprio significato solo se pronunciate sul palcoscenico, poco importa che quest'ultimo si trovi all'interno o all'esterno di un teatro. Motivo ricorrente è quello delle pietre, oggetti che le due attrici utilizzano per esercitarsi e che Mariel deciderà di inserire, in svariate tinte, nella sua personalissima pièce: per Piñeiro la recitazione è un'arte solida e malleabile che ognuno dipinge a suo modo. È infatti anche l'utilizzo schietto e quasi viscerale del colore a contraddistinguere la visione durante tutto l'arco narrativo: il viola e le sue sfumature – che, per un breve istante, virano addirittura in un rosso sanguigno – accompagnano lo spettatore dall'inizio alla fine del lungometraggio, guidando il suo occhio di cornice in cornice.

Particolarmente suggestiva è la scena in cui Mariel, quasi senza accorgersene, attraversa i diversi pannelli della sua scenografia: un espediente con cui il regista mette in evidenza la mutabilità dell'esistenza umana e della sua imitazione. Gli avvenimenti si susseguono a singhiozzo e in maniera sapientemente disarticolata, l'impressione che ne deriva è quella di assistere ad un'eterna replica: Mariel lavora alla sua pièce, Mariel fa il provino, Mariel e Luciana si conoscono, Mariel lavora alla sua pièce, Luciana fa il provino, Mariel e Luciana si conoscono, Mariel e Luciana si separano, Mariel fa il provino, Mariel lavora alla sua pièce, Mariel e Luciana si ritrovano, Mariel lavora alla sua pièce. Piñeiro crea un meccanismo perfettamente congegnato per far perdere allo spettatore qualsiasi punto di riferimento, disorientandolo e talvolta sconcertandolo attraverso la maniacale reiterazione delle stesse frasi. Ogni termine, ogni voce viene affrancata dal proprio contesto originario e reinserita in quadri inaspettati, riorganizzando l'immagine d'insieme così come Mariel riordina morbosamente le tinte e le sfumature che andranno a comporre la propria opera teatrale.

Le riprese sono durate quattro anni – più o meno l'intervallo di tempo in cui si muove la pellicola – e il risultato è un'architettura estremamente complessa, involuta, in cui personaggi e persone si scambiano la maschera fino a smarrire la propria identità.
Isabella è una dichiarazione d'amore per il cinema, per la recitazione e per la vita stessa che con la recitazione continuamente si mescola: il film vorrebbe aprire lo sguardo di chi osserva riflettendo sulla parola e inoltrandosi sulle forme e i toni che essa riceve nel momento in cui viene pronunciata.

(Isabella); Regia: Matías Piñeiro; sceneggiatura: Matías Piñeiro; fotografia: Fernando Lockett; montaggio: Sebastián Schjaer; interpreti: María Villar (Mariel), Agustina Muñoz (Luciana), Pablo Sigal (Miguel), Gabi Saidon (Sol); produzione: Melanie Schapiro, Le Fresnoy - Studio national des arts contemporains, Tourcoing origine: Argentina / Francia 2020; durata: 80'



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À l'abordage - Berlino 2020

Un po' Eric Rohmer, un po' Little Miss Sunshine, il nuovo film di Guillaume Brac è un road movie dai toni leggeri e divertiti, in cui le relazioni umane s'intrecciano delicatamente sotto il sole della Francia meridionale. Come ogni commedia estiva che si rispetti, le prime immagini s'aprono su tutt'altro scenario, ovvero a Parigi: è qui che i due giovani protagonisti, Felix e Alma, s'incrociano per la prima volta e, quasi per caso, si ritrovano a condividere una notte d'amore fra la Senna e le strade della città insonne. Il giorno dopo la ragazza fugge verso sud, per trascorrere le vacanze dai suoi parenti, e lo spettatore può benissimo intuire cosa succederà nei prossimi 90 minuti: Felix deciderà di sorprenderla mettendosi sui suoi passi, coinvolgendo in questa piccola avventura improvvisata l'amico Chérif e un driver goffo e maldestro il cui nome, Édouard, è già tutto un programma. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, tuttavia, il viaggio si esaurisce nel giro di qualche inquadratura: giusto il tempo che occorre per tracciare una breve panoramica sui personaggi e per scatenare un piccolo incidente da cui la storia potrà finalmente avere inizio. Vagando fra i pertugi del paesino in cui soggiorna Alma, infatti, la macchina di Édouard subisce un piccolo incidente e rimane fuori uso per una settimana. L'intreccio riprende a svolgersi come da copione: se i tre ragazzi sembrano raggiungere la loro meta piuttosto facilmente (tutto accade nel giro dei primi 15-20 minuti!), sarà poi molto più difficile ripartirne. E gli eventi prendono una piega inaspettata, lasciando entrare nella pellicola una serie di nuovi volti dai contorni bizzarri, ma mai veramente eccessivi: da un infermiere-surfista insopportabilmente bohémien al suo amico esistenzialista e vagamente puerile, da un'artista di strada mascherata a una giovane madre abbandonata dal compagno.

Quello messo in scena da Brac è un giro di vite dai toni esuberanti e malinconici, che sfiorano i protagonisti con tocco lieve lasciando all'intuizione di chi guarda il piacevole compito di immaginare gran parte dei retroscena. Ricorrenti sono gli attimi in cui Felix, dal carattere solitamente fin troppo impulsivo, si sofferma a contemplare il paesaggio, la natura, la brezza che “trasporta i ricordi”: c'è da chiedersi se la destinazione del suo viaggio sia veramente Alma (per la quale egli sembra nutrire un'immotivata ossessione) o il desiderio di ritrovare le immagini di un passato ormai lontano. Non si comprende mai del tutto per quale motivo Felix tenda a manifestare una tale invadenza nei confronti della ragazza: i due, in fondo, a malapena si conoscono. Nemmeno il comportamento di quest'ultima, improvvisamente indifferente e talvolta perfino ai limiti della scorrettezza, trova una giustificazione logica all'interno dei dialoghi.

In generale, l'intreccio si svela soltanto attraverso gli sguardi, i gesti, i silenzi: Brac scrive una sceneggiatura che sceglie di non mostrare, almeno in parte, al pubblico. Anche il finale è brusco, quasi scortese, e gli avvenimenti narrati rimangono sospesi in sala nell'incertezza di una vicenda riportata soltanto a metà. Del resto, l'idea del film nasce da una cena fra il regista e la sua troupe di giovani attori esordienti: nella realtà come nella finzione, ognuno decide come e in quale misura esporre sé stesso, ripercorrendo la propria vita e decidendo cosa dichiarare e cosa omettere. Così fanno anche Felix, Alma, Chérif, Édouard, creando un piccolo quadro di genere dai contorni volutamente indistinti e imprecisi – ma non per questo meno limpidi. C'è una sottile linea che intercorre fra libera improvvisazione e mise en scène, ed è proprio su tale linea che i protagonisti riescono a trovare un equilibrio, alternando la convenzionale spensieratezza della commedia a una quotidianità ripresa quasi casualmente.

À l'abordage utilizza gli stessi termini con cui si parla di un ricordo gradevole, strizzando talvolta l'occhio a Rohmer, ma senza riprenderne le fila: la banlieue parigina emerge soltanto in forma di chiacchiera estemporanea, il viaggio somiglia molto più a una vacanza che non ad un tentativo di fuga e, tutto sommato, l'idillio estivo non si rompe neanche per un istante. La sensazione, usciti dalla sala, è quella di aver sfogliato un diario di bordo incompleto: per qualche momento ci si può ancora divertire ad immaginare come quest'avventura così inaspettatamente ordinaria possa andare a finire.

(À l'abordage); Regia: Guillaume Brac; sceneggiatura: Catherine Paillé; fotografia: Alan Guichaoua; montaggio: Héloïse Pelloquet; interpreti: Éric Nantchouang (Félix), Salif Cissé (Chérif), Édouard Sulpice (Édouard), Asma Messaoudene (Alma), Ana Blagojevic (Héléna), Martin Mesner (Martin), Lucie Gallo (Lucie), Cécile Feuillet (Cécile), Nicolas Pietri (Nicolas); produzione: Thomas Hakim, Grégoire Debailly, Arte France, Issy-les-Moulineaux; origine: Francia 2020; durata: 95'



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Last Knights: rilettura fantasy del mito dei 47 Ronin con Morgan Freeman e Clive Owen


Morgan Freeman e Clive Owen sono i protagonisti di Last Knights, ennesima versione della leggenda giapponese dei 47 Ronin.

Last Knights (2015) di Kazuaki Kiriya con Morgan Freeman e Clive Owen è una nuova lettura del mito giapponese dei 47 Ronin. Per quanto riguarda la storia vera, si tramanda che ebbe luogo nei primi del Settecento: Asano Naganori, signore (precisamente "daimyō") di Akō nel Kansai, fu costretto a commettere seppuku, cioè a suicidarsi, dopo essere stato provocato in un attacco ai danni di Kira, maestro di protocollo dello shōgun, di cui era ospite. Un'offesa alla quale non si poteva sopravvivere. I samurai di Asano furono quindi giudicati "ronin", cioè senza padrone, ma meditarono una vendetta, consumata però anni dopo, con un assalto alla casa di Kira, il maestro provocatore che aveva dato origine alla catena di eventi. I ronin riuscirono a sopprimere Kira, per poi rimettersi alla decisione dello shōgun sulla loro sorte: furono condannati al seppuku tranne uno, affinché tramandasse ciò che era accaduto.

Last Knights riambienta la vicenda tra i Mori. Il tradimento della storia diviene quello del ministro Geza Mott ai danni del vecchio nobile Bartok (Freeman), denunciato come traditore all'Imperatore: la sentenza viene eseguita dall'umiliato cavaliere Raiden (Owen), in realtà legatissimo a Bartok. La vendetta si consuma lentamente: Raiden aspetta che Geza abbassi la guardia, per sollevare la compagnia di soldati contro Mott. Al termine della storia, i rivoltosi saranno risparmiati? Il regista Kiriya aveva in precedenza diretto Goemon, dedicato al leggendario fuorilegge Ishikawa Goemon, vissuto nella seconda metà del Cinquecento.



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Sette anni in Tibet: la storia del vero Heinrich Harrer


La vita avventurosa dell'alpinista austriaco amico del Dalai Lama, morto nel 2006 a 93 anni, che Brad Pitt interpreta nel film di Jean-Jacques Annaud.

Nel 1997 il regista francese Jean-Jacques Annaud firma il film Sette anni in Tibet, con Brad Pitt e David Thewlis che racconta, con qualche libertà come avviene di solito nei film biografici, la storia delle esperienze del periodo passato dall'alpinista austriaco Heinrich Harrer nella regione proibita agli occidentali tra il 1944 e il 1951, dove divenne precettore e amico del quattordicesimo Dalai Lama e per la cui causa spese gran parte della sua lunga vita, terminata nel 2006. Una storia affascinante del secolo scorso che vogliamo ricostruire in breve.

Heinrich Harrer: un alpinista da record

Heinrich Harrer era figlio di un postino ed era nato il 6 luglio 1912 nella regione austriaca della Carinzia, dove si era distinto fin da giovanissimo nello sci e nell'alpinismo. La prima impresa in questo campo fu la scalata della parete nord dell'Eiger (3970 metri) nelle alpi svizzere, una parete quasi verticale che aveva già reclamato le vite di molti audaci scalatori. Assieme all'amico Fritz Kasparek e a Ludwig Vorg e Anderl Heichmair, tedeschi incontrati lungo il percorso, nonostante le continue valanghe e cadute di rocce, raggiunse la vetta il 24 luglio 1938. Reinhold Messner ha descritto l'impresa come “un momento glorioso nella storia della montagna che fece grande sensazione, visto che molti alpinisti erano periti nella scalata”.

I legami giovanili col nazismo di Heinrich Harrer

Nel frattempo Harrer, come molti giovani dell'epoca, si era iscritto alle SA naziste nell'ottobre 1933 (il ritrovamento della sua tessera è del 1996) e dopo l'annessione dell'Austria da parte del Terzo Reich, nel 1938 si era unito alle famigerate SS, dove il primo maggio divenne sergente e membro del partito Nazista. Dopo l'impresa descritta in precedenza, Harrer e i suoi compagni vennero accolti da Adolf Hitler, con cui furono fotografati. Nonostante questo, però, Harrer non ha mai commesso crimini né prima né durante la guerra e a confermarne la reputazione immacolata è stato il celebre cacciatore di nazisti Simon Wiesenthal. Nel suo libro “Sette anni nel Tibet” Harrer definisce la sua adesione al nazismo un errore di gioventù. Nel film Brad Pitt, quando viene definito un “eroe tedesco” risponde “grazie, ma sono austriaco”. Si tratta ovviamente di un'invenzione artistica perché all'epoca sarebbe stato estremamente pericoloso rispondere in tal modo e, ovviamente, nel libro il protagonista non dice niente del genere.

La prigionia e i sette anni in Tibet

Nel 1939, Harrer si unisce a una spedizione a quattro verso la parete Diamir del Nanga Parbat (8126 metri) nel Kashmir, per trovare una via alternativa alla vetta. Dopo aver concluso che l'impresa era fattibile, gli scalatori aspettarono a Karachi, nell'India britannica, alla fine di agosto, una nave cargo che li riportasse a casa. Alla fine, visto il ritardo della nave, decisero di avviarsi a piedi verso la Persia, ma vennero fermati da soldati britannici e riportati a Karachi. Due giorni dopo, con lo scoppio della seconda guerra mondiale, vennero dichiarati nemici e messi dietro il filo spinato per essere trasferiti in un campo vicino a Bombay. Assieme a Peter Aufschnaiter (Thewlis nel film) Harrer fuggì più volte (e fu più volte ripreso) verso il Tibet. Alla fine la fuga, con altri compagni di prigionia, ebbe successo: una parte si diresse a Calcutta e gli altri al confine col Tibet, dove riuscirono ad entrare in quattro. Alla fine Aufschnaiter e Harrer, che conoscevano la lingua tibetana, arrivarono alla capitale, Lhasa, il 15 gennaio 1946.

Due anni dopo Harrer lavorava come traduttore e fotografo per il governo tibetano. Convocato al palazzo di Potala, conobbe il giovane Dalai Lama (il quattordicesimo), per cui gli venne chiesto di fare un film sul pattinaggio su ghiaccio. Coi pochi mezzi a sua disposizione, Harrer costruì un cinema e divenne precettore del Dalai Lama a cui insegnò scienza, inglese e geografia. Fu l'inizio di un'amicizia straordinaria che durerà fino alla morte dell'alpinista. L'alpinista racconterà nel 1952 le sue avventure nel libro “Sette anni nel Tibet”, da cui Annaud trae il film quando è ancora in vita. Prima del film con Brad Pitt e David Thewlis, nel 1956 venne realizzato un documentario omonimo sulla storia, presentato al festival di Cannes.

Nel libro Harrer scrive:

Ovunque vivrò, avrò sempre nostalgia del Tibet. Spesso mi sembra di sentire ancora le strida delle oche selvatiche e delle gru e il battito delle loro ali mentre volano su Lhasa alla fredda e limpida luce della luna. Il mio desiderio profondo è che la mia storia possa creare comprensione per un popolo la cui volontà di vivere in pace e libertà ha ottenuto pochissima simpatia da parte di un mondo indifferente.

Ritorno al Tibet

Harrer raccontò la sua nuova visita in Tibet agli inizi degli anni Ottanta in “Ritorno al Tibet: il Tibet dopo l'occupazione cinese”, in cui espresse la sua disperazione nei confronti della distruzione perpetrata contro la cultura tibetana e il popolo pacifico per cui invocava comprensione e rispetto. Nel 2007 fu pubblicata postuma la sua autobiografia, “Beyond Seven Years in Tibet”. Tra le imprese di questo straordinario personaggio ci sono oltre 40 documentari e il Museo a lui intitolato, a Huttenberg in Austria, dedicato al Tibet. Nel 2002, dalle mani del suo amico di sempre, il Dalai Lama, Harrer ha ricevuto il Light of Truth Award per quanto fatto per diffondere la consapevolezza delle condizioni del Tibet, lo stesso premio che nel 1996 e nel 1998 era stato assegnato a Martin Scorsese e Richard Gere.



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Roads not taken - Berlino 2020

Sono ventiquattro ore di vita di Leo (Javier Bardem) il tema dell'ultimo film di Sally Potter, in concorso al festival del cinema di Berlino, Roads not taken. Le “strade non prese” del titolo, ovvero parafrasando le occasioni non colte, sono quelle che la vita di Leo gli avrebbe riservato, ma che lui non ha saputo o potuto o voluto percorrere. Trasferitosi da giovane dal Messico negli Stati Uniti, Leo vive a New York ed è gravemente malato, come si capisce fin dalle prime sequenze in cui vediamo uno schermo nero da cui si sprigiona un ronzio fastidioso, simbolo di come il personaggio vede il mondo: non coglie ciò che accade davanti ai suoi occhi, perché è completamente affondato nei propri ricordi e di conseguenza la realtà esterna gli risulta sgradevole. Il suo sguardo non va da nessuna parte, a volte balbetta delle sillabe incomprensibili. La malattia di cui soffre è una forma di Alzheimer o di demenza senile che lo riduce a stare in casa, accudito da una badante e, almeno per quella giornata, dalla figlia Molly (Elle Fanning), giovane giornalista con molti problemi sul lavoro, ma sinceramente affezionata al padre al punto di sacrificare per lui il proprio tempo e i propri impegni per lui.

È proprio il rapporto tra la giovane figlia e il padre mentalmente instabile il cuore del melodramma famigliare messo in scena in Roads not taken. Il comportamento stravagante di Leo, i mille contrattempi che si determinano dal dentista e in altri luoghi della città, il suo spaesamento costante e i tentativi di articolare parole comprensibili segnano due mondi paralleli che fanno fatica ad incrociarsi. La verità è che Leo entra ed esce continuamente, balzando senza criterio, nei tanti mondi paralleli in cui sta vivendo o immaginando situazioni mai accadute o rievocando segmenti del lontano passato, nei quali la realtà e l'immaginazione si incrociano senza soluzione di continuità. I tormenti dell'uomo, come si scopre nel corso dell'azione, sono dovuti a traumi del suo passato, traumi di cui la ragazza non sa praticamente nulla. Mentre altri personaggio, come la ex moglie, vogliono avere a che fare il meno possibile con Leo, la figlia Molly è l'unica che assistendolo cerca di capirlo, così che proprio attraverso la malattia arriva a conoscere più da vicino la vita del padre.

Le sequenze del film intrecciano varie storie, vere o immaginate, del passato: un matrimonio di passione consumato in Messico con una donna di nome Dolores (Salma Hayek); un'esistenza solitaria consumata su un'isola greca nel tentativo di scrivere un grande romanzo d'avventura. Sono due possibili direzioni di vita che Leo aveva sacrificato da giovane per stare con la moglie e la figlia a New York City così da diventare un padre responsabile e amorevole. Intrappolato nelle reminiscenze del passato e nelle fantasie, Leo affronta rimorsi e sensi di colpa in una dimensione del tutto onirica, senza più alcun contatto con vita reale, e Bardem riesce piuttosto bene ad esprimere tutta la tristezza disperata del personaggio che interpreta (un ruolo ben lontano da quelli cui è abituato).

Conosciuta per aver diretto film radicalmente femministi (The gold diggers, 1983; Orlando, 1992), già presente alla Berlinale nel 2017 con The party (Perché Si; Perché No), la regista britannica Sally Potter ha sempre scelto di occuparsi costantemente nelle sue opere dei rapporti tra donne e uomini. E lo stesso tema è in fondo affrontato anche in Roads not taken, benché in una chiave abbastanza differente, ovvero quella dell'amore incondizionato di una figlia verso il padre in un momento estremamente delicato, quando per una malattia mentale la realtà gli sfugge completamente di mano. La radice del film risiede in un'esperienza personale della Potter, ovvero la cura di un fratello minore affetto da una forma di demenza precoce. «Mi sono occupata di mio fratello per due anni, prima della sua morte – ha spiegato la regista durante la conferenza stampa seguita alla proiezione – e ho mutato profondamente le mie nozioni di salute mentale e abilità fisica e personale, insomma tutto quello che pensiamo che un essere umano completo dovrebbe essere e poter fare. Ascoltandolo parlare, ad esempio, non mi sembrava sconnesso, ma poetico». L'abilità della Potter è stata quella di trasformare le emozioni del suo specifico vissuto autobiografico in un racconto cinematografico intenso e commovente, un viaggio nella mente turbata del protagonista e delle sue molteplici dimensioni. Nonostante certe sbavature ed esagerazioni, e una sceneggiatura non esente da imperfezioni (alle volte si ha la sensazione di una story troppo artificiosa e a tesi), Roads not taken funziona piuttosto bene come macchina narrativa e focalizza con precisione chirurgica le possibilità esistenziali della malattia psichica così da dimostrare, riprendendo le parole della 71enne regista britannica che «nessuno di noi è un sé unico, dentro ognuno c'è una folla di personalità ed è proprio questa fluidità che volevo esplorare. La disabilità diviene così un dono».

(Roads not taken); Regia: Sally Potter; sceneggiatura: Sally Potter; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Emilie Orsini, Sally Potter, Jason Rayton; musica: Sally Potter; interpreti: Javier Bardem (Leo), Elle Fanning (Molly), Salma Hayek (Dolores), Laura Linney (Rita); produzione: Adventure Pictures; origine: Germania, 2020; durata: 85'



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(Zero Zero) Sette motivi per rivedere Agente 007: Missione Goldfinger

Il più celebre, amato, quintessenziale tra i venticinque film di James Bond realizzati fino a oggi (No Time to Die è il venticinquesimo, e arriverà nei cinema il 9 aprile). Ecco perché.

No Time to Die, il nuovo film di 007 che - speriamo - farà il suo debutto nelle sale cinematografiche italiane il prossimo 9 aprile, alla vigilia di Pasqua, è il venticinquesimo film della serie ufficiale di James Bond, quella che ha preso il via nel 1962 con Agente 007 - Licenza di uccidere.
Tutti, o quasi tutti, i venticinque film della serie sono amati dai fan, ma come è normale che sia, alcuni titoli sono più amati di altri. Più amati, e destinati a diventare più famosi, a essere eletti a film simbolo della serie. E, se chiedete a chiunque sia fan di James Bond di nominare il più iconico del film che lo vedono protagonista, altissime sono le probabilità di sentirvi rispondere: Agente 007 - Missione Goldfinger.
Come hanno scritto sull'edizione britannica della rivista GQ, Goldfinger (come lo chiamano gli amici) sta alla filmografia bondiana come Sgt. Pepper sta alla discografia dei Beatles. Non è necessariamente il più bello, ma è il film che più di ogni altro sintetizza quintessenzialmente 007 e il suo mondo. Perlomeno il suo mondo prima della rivoluzione dolce arrivata con Casinò Royal e Daniel Craig.
E allora vediamo insieme quali sono gli elementi che rendono così speciale Goldfinger, terzo film della serie di James Bond, diretto da Guy Hamilton (succeduto al Terence Young che aveva firmato i primi due) nel 1964.

La ragazza d'oro: Jill Masterson

Nell'incipit del film, dopo aver distrutto un laboratorio per la produzione di droga in America Latina, 007 si reca a Miami Beach per una meritata vacanza. Ma il lavoro lo sorprende immediatamente anche lì: l'amico Felix Leiter gli chiede di tenere d'occhio un miliardario europeo, un certo Auric Goldfinger. James Bond lo fa ovviamente a modo suo: seducendo la sua assistente Jill Masterson (interpretata da Shirley Eaton) e facendolo proprio mentre lei è incaricata di aiutare il suo capo a barare al gioco. Per vendicarsi delle fatto di averlo fatto perdere (perché Goldfinger, come dice Jill "odia perdere") e del tradimento della ragazza, Goldfinger agisce a modo suo: dopo che James e Jill hanno consumato la loro inevitabile intimità, l'agente di risveglia per scoprire la ragazza morta sul letto, nuda, ricoperta interamente da una vernice d'oro che l'ha uccisa per "soffocamento della pelle". Siamo nel 1964, e c'è ancora un certo pudore, al cinema: tanto che, quando 007 scopre il corpo di Jill sul letto, la ragazza è sì nuda ma giace supina, e la sagoma del cuscino di una poltrona emerge quel tanto che basta per tenerle nascosti i glutei.
L'immagine di Jill ricoperta da vernice d'oro è una delle più iconiche dell'universo bondiano, e una foto di una Shirley Eaton dorata finì anche, promozionalmente, sulla copertina del celebre Life Magazine.

Il villain: Auric Goldfinger

Film dopo film, attore dopo attore, James Bond è - più o meno - sempre lui. A cambiare sono i villain, i cattivi contro cui Bond si deve battere. Alcuni, ovviamente, sono migliori di altri. Auric Goldfinger è senza dubbio uno dei migliori cattivi di sempre dell'universo bondiano,
Il nome, ideato da Ian Fleming, lo scrittore che ha inventato il personaggio di James Bond, deriva da quello di un architetto svizzero, Ernő Goldfinger, che aveva costruito la una casa vicino sua di Hampstead. Secondo degli articoli pubblicati dopo l'uscita del film da Forbes e dal New York Times, a ispirare il personaggio fu il magnate dell'industria mineraria Charles W. Engelhard, Jr..
Avido, baro (alle carte come nel golf), sadico e, nel libro, anche sessualmente perverso. Contrabbandiere d'oro. A interpretarlo, l'attore tedesco Gert Fröbe. Il piano di Goldfinger è quello di rendere inutilizzabile la riserva aurea degli Stati Uniti a Fort Knox con una bomba al cobalto radioattiva, per sconvolgere il mercato dell'oro, che possiede in enormi quantità, e di conseguenza farne aumentare esponenzialmente il valore, diventando ancora più ricco.
Si muove a bordo di una Rolls-Royce Phantom III che usa per contrabbandare l'oro, forgiando col metallo parti della carrozzeria, e su un aereo privato a bordo del quale incontrerà la sua fine.

Lo scagnozzo: Oddjob

Il fido maggiordomo, autista, guardia del corpo, tirapiedi e sicario di Auric Goldfinger è Oddjob: un colossale coreano muto (interpretato dal wrestler hawaiano, d'origine giapponese, Harold Sakata) dotato di una forza quasi sovrumana (è capace di sbriciolare una pallina da golf con una mano, e di spezzare una barra di metallo con un colpo di karate) e di una bombetta che nella falda nasconde una lama affilatissima, usata come un letale frisbee. In una celeberrima scena del film, per dare una dimostrazione della letalità del suo cappello, Oddjob lo lancia e recide di netto la testa di una statua.
Senza dubbio alcuno, è l'henchman più amato e famoso di tutta la saga di James Bond.

La Bond Girl: Pussy Galore

James Bond viene messo ko da Oddjob. Al risveglio si ritrova in un aereo privato, e di fronte a lui c'è una donna. Questo è il dialogo che segue:
- Lei chi è?
- Mi chiamo Pussy Galore.
- Forse sto sognando.

Un nome che è tutto un programma, quello della Bond Girl di questo film, che l'ha fatta entrare nella leggenda e che si cala alla perfezione nell'universo bondiano di Goldfinger, assai più carico di ironia di quanto non avvenisse nel primi due film, e a tratti volutamente caricaturale. Pussy Galore, interpretata da Honor Blackman (per decenni la Bond Girl più anziana di sempre, 37 anni all'epoca delle riprese, superata solo da Monica Bellucci in Spectre), è una pilota d'aerei, specializzata nel volo acrobatico, al servizio di Goldfinger e del suo piano diabolico contro Fort Knox. Ma il fascino di Bond riuscirà a far breccia nella sua dura corazza (e in quella che, nel romanzo di Fleming, è una dichiarata omosessualità, portandola dalla sua parte. Complice un pagliaio entrato nella leggenda.

Le battute

Il dialogo tra James e Pussy è solo un esempio di una serie di battute di Agente 007 - Missione Goldfinger che sono entrate nel mito per i fan di James Bond, ma non solo. Guy Hamilton, e gli sceneggiatori Paul Dehn e Richard Maibaum, inaugurarono col loro film la vera ironica di 007 che poi diventerà uno dei tratti caratteristici e distintintivi della serie cinematografica che la vede protagonista.
Lo scambio più celebre del film è quello tra Bond e Goldfinger che arriva quando 007 è prigioniero, legato a un tavolo, braccia e gamabi divaricate, con un letale un raggio laser che si avvicina lentamente al suo cavallo e minaccia di tagliarlo in due. "Si aspetta che io parli?" chiede 007 a Goldfinger. "No, mi aspetto che lei muoia," gli risponde sprezzante il villain.



Ne ha anche per i Beatles, James Bond, nel suo ultimo dialogo con Jill Masterson. I due stanno amoreggiando sul divano quando 007 si lamenta: "troppo calda". Il doppo senso è a portata di mano, ovviamente, ma quando James si alza, vediamo che riporta la bottiglia di champagne verso il frigorifero. Jill non pare contenta di questa interruzione, ma James le dice, prima di essere messo fuori gioco da qualcuno (che poi scopriremo essere Oddjob): "Figliola, ci sono delle cose che assolutamente non si fanno. Per esempio bere Dom Perignon del '53 a una temperatura superiore ai 4 gradi centigradi: sarebbe peggio che ascoltare i Beatles senza tappi nelle orecchie."

L'auto

A proposito di battute. Quando 007 si reca da Q per prendere possesso della sua auto d'ordinanza, si trova di fronte a una sorpresa. Questo è lo scambio tra i due.
- Dov'è la mia Bentley?
- È un po' superata temo.
- A me è sempre andata bene.
- Ordini di M, 007. Si servirà di questa Aston Martin DB5 modificata.

Agente 007 - Missione Goldfinger è infatti il film in cui per la prima volta Bond siede al volante dell'automobile con cui verrà maggiormente identificato, e che è considerata la Bond Car per eccellenza, tanto che perfino lo 007 di Daniel Craig la utilizza come vettura personale. Ma anche Pierce Brosnan aveva guidato un'Aston Martin DB5 in Goldeneye.

La canzone di Shirley Bassey

Last, but not least. Le title track di James Bond sono un altro degli elementi distintivi della serie, tanto da meritare una grande attenzione da parte dei realizzatori del film e del pubblico. In No Time to Die la title track è composta ed eseguita da Billie Eilish, ma è alla canzone "Goldfinger" eseguita di Shirley Bassey e composta da John Barry (musica) e Anthony Newley e Leslie Bricusse (parole) che la giovane cantante americana e tutti gli altri artisti che hanno composto e eseguito le canzoni dei titoli di testa dei vari film di 007 devono lo spazio e l'attenzione che hanno ricevuto.
Perché? Perché in Agente 007 - Missione Goldfinger per la prima volta viene inaugurata la tradizione della title track associata ai titoli di testa, e perché la canzone della Bassey è ancora oggi un vero e proprio mito.



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venerdì 28 febbraio 2020

Polanski miglior regista ai César fra le polemiche, mentre Adele Haenel lascia la sala urlando il suo disappunto


Cerimonia piena di tensione e polemiche quella dei 45° Premi César, con manifestazioni contro le candidature a Polanski fuori e dentro la Salle Pleyel e Les Miserables miglior film.

La 45° edizione della notte dei César è stata molto diversa delle altre. La grande comunità del cinema francese non si è mai presentata così divisa come stasera, nella consueta cornice dell’elegante Salle Pleyel. Nei giorni scorsi si sono dimessi in blocco tutti i membri del direttivo dell’Accademia, presidente compreso, dopo una lettera aperta firmata da decine di autori e attori del cinema francese che lamentavano mancanza di trasparenza, oltre che regole poco chiare e democratiche. In più questa sera alcune decine di militanti femministe si sono presentate nei pressi del tappeto rosso con fumogeni e creando tensioni con la polizia.

All’interno molte dichiarazioni polemiche e la volontà di rivoluzionare la composizione di questa istituzione ancora rimasta ancorata al passato. In più, poche ore fa, la decisione di Polanski, ma anche di tutto il cast del suo film di non partecipare alla serata. Particolare turbamento dopo l’annuncio del premio alla miglior regia a Roman Polanski, con Adèle Haenel che ha lasciato la sala urlando “vergogna”. Insieme a lei l'hanno poi seguita Céline Sciamma e altre persone presenti in segno di protesta.

Ecco l’elenco completo dei vincitori di questa 45° edizione dei Premi César.

Miglior suono: per Wolf Call     

Miglior montaggio: Flora Volpelière per Les Misérables 

Miglior colonna sonora originale: Dan Lévy per J’ai perdu mon corps

Miglior film d’animazione: J’ai perdu mon corps di Jérémy Clapin

Miglior fotografia: Claire Mathon per Ritratto della giovane in fiamme

Miglior scenografia: Stéphane Rozenbaum per La belle époque

Migliori costumi: Pascaline Chavanne per L’ufficiale e la spia

Miglior sceneggiatura non originale: Roman Polanski e Robert Harris per L’ufficiale e la spia

Miglior sceneggiatura originale: Nicolas Bedos per La belle époque

Miglior film straniero: Parasite di Bong Joon-Ho

Miglior documentario: M di Yolande Zauberman

Miglior opera prima: Papicha di Mounia Meddour

César du public: Les Misérables

Miglior speranza maschile: Alexis Manenti per Les Misérables

Miglior speranza femminile: Lyna Khoudri per Papicha

Miglior attrice non protagonista: Fanny Ardant per La belle époque

Miglior attore non protagonista: Swann Arlaud per Grazie a Dio

Miglior attore; Roschdy Zem per Roubaix, une lumiere

Miglior attrice: Anais Demoustier per Alice e il sindaco

Miglior regia: Roman Polanski per L’ufficiale e la spia

Miglior Film: Les Misérables



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There Is No Evil: recensione del dramma in quattro atti sulla pena di morte in Iran in concorso al Festival di Berlino 2020


Mohammad Rasoulof realizza in clandestinità un'opera ispirata sulla morte indotta di stato nella repubblica islamica.

La morte di stato in quattro atti. Il regista iraniano Mohammad Rasoulof continua il suo percorso di crescita nell’attenzione dei cinefili dei festival internazionali di riferimento con questo passo in avanti notevole. Un film girato in clandestinità, senza alcuna autorizzazione preventiva né successiva, tanto che gli è impedito presentarlo al di fuori dei confini del suo Iran. Una raccolta di quattro storie sulla pena capitale, legate tematicamente una all’altra in maniera spesso sottile e intelligente, in un paese in cui vengono messe a morte ogni anno oltre 500 persone. Sono altri esseri umani, in questo caso inquadrati nella burocrazia dello stato, spesso fra i soldati di leva, costretti a prestarsi ai due anni di servizio militare obbligatorio, a mettere in atto questo assassinio legalizzato. Ogni volta è una scelta, quella che fanno, se compiere o no un atto che per alcuni è una routine, un mestiere come un altro, mentre per altri può provocare una reazione che cambia la propria vita e di quelli che gli sono intorno.

Quattro persone sono poste in There Is No Evil di fronte a questa scelta. Un titolo che, più che ironia, dimostra la spesso evocata banalità del male all’opera, come il mostro si nasconda nella comune routine di personaggi che incontriamo ogni giorno per strada. Proprio da uno di questi incontri, con uno dei burocrati che ha interrogato e segnato il destino del regista senza più autorizzazione a dirigere film, è partito Rasoulof immaginando le sue storie, allargando il discorso alla pena di morte. Ma dietro alla superficie, è sempre l’autocrazia ormai in cancrena a essere l’antagonista principe del film, il cui scopo è la sua sopravvivenza stessa, in maniera più placida possibile, e non più il cittadino che rappresenta. Un regime ormai ridotto a operare per stimoli involontari e assenza di speculazione, qualsiasi essa possa essere stata in passato. 

Quattro mondi intorno a loro si quietano per un momento, prima di riprendere un moto placido nella stessa direzione, o di sconvolgerlo verso dinamiche inattese e impazzite, visto che la decisione eticamente più giusta è anche spesso quella più difficile. Quattro luoghi, generi e risultati diversi per un film che è un atto morale che non dimentica la complessità dell’animo umano, che non giudica ma rivendica la possibilità di criticare lo stato che regola un sistema così distorto, che obbliga piccole pedine, esseri umani fallibili, a rispondere con un sì o con un no a una scelta immorale: uccidi, perché lo devi fare per il tuo ruolo all’interno della società, o non farlo finendo però al di fuori della rispettabilità sociale, alieno in fuga espulso come rifiuto dalla repubblica islamica.

Impossibile non vedere dietro a questo dilemma morale quello del regista stesso, e degli artisti come lui, che devono cedere al controllo della censura, oppure entrare nell’illegalità o lasciare il paese per mantenere la propria fedina etica intonsa. Come successo da anni a Rasoulof, i cui film non sono mai stati mostrati nei cinema del suo paese, e la cui figlia Baran, che recita nell’ultimo episodio, è protagonista di una storia che somiglia molto al rapporto reale con il padre: una figlia che ha abbandonato il suo paese e che per anni non ha potuto frequentare il padre.

There Is No Evil è uno splendido concept movie morale composto da storie appassionanti e complementari, esemplari casistiche sulla fragilità dell’essere umano, sul confine talvolta sottile fra routine e arbitrio. La colpa e il destino sono sempre incombenti, giudici implacabili di un viaggio nei quattro angoli del paese che colpisce nel segno, specie nel primo e nel terzo episodio.



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Monster Hunter: Milla Jovovich e Tony Jaa nei teaser poster ufficiali del film

Basato sull'omonima serie di videogiochi, il film è diretto da Paul W.S. Anderson e arriverà prossimamente nei nostri cinema.

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Veronica Franco, Padrona del suo destino: vera storia della cortigiana raccontata nel film con Catherine McCormack


Padrona del suo destino con Catherine McCormack racconta della cortigiana e letterata veneziana Veronica Franco, vissuta nel XVI secolo.

Padrona del suo destino (1998) con Catherine McCormack, diretto da Marshall Herskovitz, è la rielaborazione della storia vera di Veronica Franco, realmente esistita nella seconda metà del Cinquecento nella Repubblica Veneziana. Il film interpretato anche da Jacqueline Bisset, Rufus Sewell, Oliver Platt, Joanna Cassidy e Naomi Watts ripercorre alcune tappe della vita reale della cortigiana, seppur con inevitabili licenze poetiche.

Veronica Franco: padrona davvero del suo destino?

Nata nel 1546 nella Repubblica Veneziana, Veronica Franco apparteneva alla classe intermedia dei "cittadini originari", collocati nella piramide tra i veri e propri patrizi e chi veniva dall'estero. Era in sostanza una classe a metà strada tra la nobiltà (di terra) e la borghesia attiva del commercio e di altri mestieri. Non si sa esattamente quando, se non in età giovanile, Veronica si sposò con il medico Paolo Panizza, ma il matrimonio naufragò, costringendola a mantenersi da sola: sotto la guida di sua madre Paola Fracassa, divenne una "cortigiana onesta", in sostanza una prostituta d'alto bordo, intellettuale e artista, in grado di legarsi a mecenati offrendo in cambio non solo il suo corpo, ma anche la sua presenza intellettuale. Il periodo tra il 1565 e il 1575 fu quello della sua massima gloria: la si trova inserita in un celebre "Catalogo de tutte le principal et più honorate cortigiane di Venetia" (comprensivo di tariffario) e la sua frequentazione dei circoli letterari la portò nel 1575 a pubblicare un suo libro di versi, "Terze rime".
La sua fortuna cominciò a declinare tra il 1575 e il 1580, quando l'arrivo della peste in città la costrinse a lasciare Venezia, finendo vittima di un saccheggio dei suoi beni e della sua casa, e per giunta affrontando al suo ritorno nel 1580 un processo per stregoneria da parte dell'Inquisizione (nel documento ufficiale si parla di un'accusa per "incantesimi"): pare si sia salvata dalla condanna per intercessione della nobiltà che aveva avuto rapporti con lei. Dopo il 1580, pubblicò un altro volume di versi, "Lettere familiari a diversi", una raccolta di lettere e sonetti dedicati al più prestigioso dei suoi amanti, il re Enrico III di Francia, al quale si era legata nel citato periodo di gloria cittadina. Dopo quella data, si perdono le sue tracce: si sa solo che morì nel 1591 sempre a Venezia, lontana dagli agi di cui aveva goduto in precedenza.

Veronica Franco e il film con Catherine McCormack

Padrona del suo destino si colloca già dall'inizio della storia nel 1583, quando nella realtà come abbiamo visto Veronica era invece già caduta in bassa fortuna. Viene rispettato il ruolo della madre Paola (sullo schermo Jacqueline Bisset) come insegnante delle arti amatorie, ma viene dato un nome, un volto e una passione all'uomo che poi l'aiuterà a salvarsi dall'Inquisizione: un Marco senatore della Repubblica Marinara, interpretato da Rufus Sewell, forse per dare corpo a un legame stabile che nei fatti una donna come Veronica cercò per tutta la vita, ma che le era precluso dal suo ruolo nella società. Il rapporto col re di Francia diventa politico, quando nel film viene spedita alla sua corte per richiedere un aiuto militare contro la minaccia turca (storicamente invece in quel momento sospesa, dopo la quarta guerra turco-veneziana di Cipro tra il 1570 e il 1573). La peste non gioca una parte importante nella vicenda, per via dello spostamento in avanti della ficiton rispetto alla realtà: l'epidemia coprì i due anni tra il 1575 e il 1577.



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Irradiés: recensione del dirompente documentario sulla memoria di Rithy Panh in concorso al Festival di Berlino 2020


Le radiazioni della malvagità umana che tormentano uno dei sopravvissuti dei genocidi del Novecento.

Il cinema della memoria assume un concetto del tutto originale e unico, quando si parla del cambogiano Rithy Panh. Un sopravvissuto, è così sintetizzabile tutta l’opera documentaristica, o meglio fra cinema e realtà, di questo autore sensibile e capace di sperimentare con la forma filmica. La famiglia venne espulsa dal regime dei Khmer rossi nel 1975 da Phnom Penh, capitale cambogiana. Uno dopo l’altro, quasi tutti i suoi familiari più stretti furono sterminati dalla fame e dagli stenti nei campi di lavoro nelle regioni più remote del paese. Il padre era un ministro e politico di rilievo, e come tale rappresentava uno dei primi nemici da rieducare per il regime khmer. Il giovane Rithy scappò a 15 anni e visse alcuni anni in Thailandia, in un campo di rifugiati. Poi arrivò a Parigi, dove ha studiato e si è formato, prima di tornare negli anni ’90 in Cambogia e fare avanti e indietro fra i due suoi paesi.

Proprio il ritorno dall’esilio l’ha spinto a scavare sempre più nella memoria, prima della sua famiglia, oltre che di sé stesso, poi del suo paese e in generale degli angoli del mondo che hanno subito stermini e regimi liberticidi. La sua è diventata presto una missione e un’ossessione: mantenere in vita la memoria, attraverso il cinema e il documentario in particolare, tanto da poterlo definire una sorta di Primo Levi del racconto per immagini

Il lavoro che l’ha fatto conoscere è stato S-21, la macchina di morte Khmer rossa (2003), in cui mise a confronto a distanza di trent’anni due prigionieri e i loro ex carnefici. Apprezzamento confermato poi con la nomination all’Oscar 2014 per L’image manquante, un primo tentativo di sperimentare con il documentario, spinto ora all’estremo con i 90’ di suggestioni dolorose, con immagini d’archivio e voce fuori campo, che in Irradiés ricostruiscono una specie di percorso fra l’onirico e il requiem in un’impossibile (ri)elaborazione del dramma dei sopravvissuti, di chi è stato irradiato dalle radiazioni nucleari, a Hiroshima e Nagasaki, ma più in generale dal morbo della malvagità umana.

Un virus, quello del male, che rischia di propagarsi di generazione in generazione, e in risposta al quale da anni Rithy Pahn è in cerca di un antidoto. Le immagini sono durissime, difficile non distogliere lo sguardo davanti a corpi deformati dalle radiazioni, ad arti mozzate, e ferite profonde di ogni genere. Un incubo a occhi aperti generato come flusso di coscienza da chi quell’incubo, a occhi chiusi, continua a viverlo da tanti anni, sentendosi, come dice lui, “uno scarto della macchina dello sterminio”. È questa la sua definizione, implacabile, di sopravvissuto. Un dolore che “si esprime attraverso tutto quello che faccio, creo, con il terrore di dimenticare e l’ansia di tradire”.

Tante sensazioni che ci assalgono, da spettatori del film, in un’esperienza di immersione sensoriale da accettare così com’è, irradiati anche noi di una minima parte di quell’oscurità, di quel limbo della perversione umana, da custodire come memoria involontaria per le future generazioni.



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Red: Helen Mirren da sovrana d'Inghilterra a regina dell'action e del mitra

Ecco come l'attrice premio Oscar è diventata agente della CIA dalla mira infallibile nel film con Bruce Willis, John Malkovich e Morgan Freeman.

Red è un godibilissimo action movie in cui alcuni ex agenti della CIA in pensione sono costretti a tornare in azione perché l'agenzia ha deciso di eliminarli. Il motivo? Segreti che i nostri conoscono e che non devono essere rivelati a nessuno. il titolo del film è un acronimo di Reduci Estremamente Pericolosi e la regia è del tedesco Robert Schwentke, a cui dobbiamo anche The Divergent Series: Insurgent e The Divergent Series: Allegiant.

ispirato all'omonimo fumetto scritto da Warren Ellis, disegnato da Cully Hamner e pubblicato da DC Comics, Red ha un cast strepitoso, formato da Bruce Willis, Morgan Freeman, John Malkovich e da Helen Mirren. Immaginare quest'ultima nella parte di un'eroina sembra strano, e invece l'attrice è favolosa mentre impugna armi, corre e si nasconde, e l'esperienza è stata per lei talmente divertente e adrenalinica da spingerla a riprendere il ruolo dell'impavida Victoria Winslow nel sequel Red 2.

Perché Helen Mirrem ha detto sì a Red

Sono due la ragioni che hanno spinto la fascinosa Morgana di Excalibur (ve la ricordate?) a dire sì a Robert Schwentke e al film. La prima è il desiderio di cambiare aria, o meglio genere, e di fare qualcosa di nuovissimo e azzardato. "Avevo bisogno di una scossa" - ha raccontato l'attrice mentre era sul set. "Mi sono buttata a capofitto nel film, domandandomi però: cosa dirà la gente che mi ha visto nei panni della Regina Elisabetta? Probabilmente si sentirà tradita". I dubbi e le incertezze di Helen erano legittimi, ma bisogna ammettere che Red non è stato l'unica scelta coraggiosa della sua carriera. Che dire allora del feroce e sarcastico Il cuoco, il ladro, sua moglie e l'amante di Peter Greenaway?
Il secondo motivo è Bruce Willis, uno degli attori preferiti della Mirren, che lo ha sempre considerato "Una persona incredibile, affabile, modesta, accogliente e che si impegna al massimo sul lavoro, oltre che un simpatico vecchio bislacco".

Victoria Winsolw come Martha Stewart

Per interpretare uno spietato cecchino in gonnella, l'attrice Premio Oscar non si è ispirata a una combattente o a un'eroina da fumetto. No, la sua prima e unica fonte di ispirazione è stata Martha Stewart, celeberrima conduttrice tv e regina del lifestyle, del bon ton e del ménage domestico. Di Martha Stewart Victoria Winslow ha il taglio di capelli, l’efficienza, lo spiccato senso pratico, l’eleganza. Victoria gestisce un bed and breakfast dove ogni cosa è impeccabile, dove si beve il miglior caffè del mondo e le lenzuola profumano di pulito, dove i vasi sono pieni di rose gialle e bianche fra cui nascondere, all’occorrenza, un piccolo mitra. Un po’ in stile Marta Stewart è anche l'abito bianco che l'attrice indossa in una delle sequenze più gustose e articolate del film. Helen ha deciso di abbinare al vestito una pochette grigia che le aveva regalato Giorgio Armani e che è diventata un oggetto di scena fondamentale, ricettacolo di cose da scambiare o nascondere.

La preparazione fisica e le armi

Anche se il fisico impeccabile che mostra orgogliosamente sui vari red carpet farebbe pensare il contrario, Helen Mirren è una donna piuttosto pigra che detesta la ginnastica, e ogni volta che la chiamano per un film, la prima cosa che pensa è: oh, no, mi toccherà rimettermi in forma. Solitamente non comincia per tempo e, quando mancano solo due settimane all’inizio delle riprese, si ritrova a correre e a massacrarsi di addominali e push up. Per Red il suo allenamento è consistito più che altro nell’apprendimento dell'uso delle armi. I suoi maestri sono stati due poliziotti californiani in pensione, che le hanno insegnato a maneggiare pistole di ogni foggia e armi più grosse. Sparare le è piaciuto, e molto, e dopo il film ha giurato a se stessa che non avrebbe mai tenuto un'arma in casa.
L'attrice ha imparato infine a sparare senza battere ciglio, cosa praticamente impossibile per chiunque.



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Roma, 4 e 5 marzo: Sono Partita di Sera, omaggio a Gabriella Ferri all'OFFOFFTheatre

Mercoledì 4 e giovedì 5 marzo, all'OFF/OFF Theatre risuona la Voce di Roma, quella di cantastorie dell'indimenticata Gabriella Ferri, ricordata dalla pièce "Sono Partita di Sera". Il testo, scritto dall'autrice Betta Cianchini, è interpretato da una straordinaria Valentina De Giovanni che in scena veste i panni della popolare cantante testaccina, accompagnata dalla chitarra classica di Gabriele Elliott Parrini e diretta dalla regia di Camilla Piccioni in una produzione a cura di Florian Metateatro.

Nella stagione teatrale della sala di Via Giulia, che il direttore artistico Silvano Spada ha dedicato ai valori assoluti, non poteva mancare un tributo a colei che con la sua storia, ha reso immortali le storie di tanti. La voce dei romani è un riconosciuto ed indiscutibile valore per la città e per la sua tradizione, che travalica i confini capitolini e si rinnova, ogni qualvolta che un'artista decide di omaggiarne la memoria. Gabriella Ferri rivive così grazie alla talentuosa interpretazione di Valentina De Giovanni che, in un duetto chitarra e voce, consuma i ricordi una vita non facile ma restituita al pubblico con la leggerezza di un sorriso. La storia della donna e dell'artista viene sussurrata sullo sfondo di una Roma verace, a cui manca la sua anima più bella: Gabriella!

SINOSSI:

“Sono partita di sera” è una storia “lieve, lieve”, come l'anima della donna che la racconta. Una storia su una Roma che non c'è più. Non c'è più come la voce della più grande artista romana di tutti i tempi: Gabriella Ferri. La donna sul palco si racconta ed ha una voce splendida e potente e le canzoni saranno sì quelle di Gabriella, ma non a caso si è scelto di NON richiamare l'attenzione con il nome della grande artista testaccina nel titolo. Il nome dell'Artista vuole essere onorato, non “usato”. Non è solo un Recital, è la storia di ciò che è perduto. E' la storia di una donna che ha regalato 1000 volti e 1000 canzoni ad una Roma che non le ha ridato in cambio neanche una Via, una Piazza, un vicoletto. È il racconto a ritroso del coraggio spensierato di una ragazza che vendeva le lamette per strada, che aveva le scarpe con la para e che aveva un padre che ballava, che era il “mejo tacco de trastevere”. Quante storie simili ha visto Roma? Tante. Ma quante avevano quegli occhi azzurri e malinconici e quella voce possente e vellutata? Solo una! Una donna che si sentiva “sempre a metà” ma che è stata la più grande voce che Roma ci abbia mai regalato, “e per intero”. Ma la verità di Gabriella è solo sua. In questa pièce si ricerca il cuore e l'urgenza delle sue parole e delle sue canzoni. “La verità è quella che è utile per vivere”, scriveva di sua mano. Ed ancora: “E' il dramma della mia fragile ricerca di un po' di speranza fra i fantasmi che il mondo mi ha donato: la miseria, la paura, il tentativo di credere, la paura del male”

GLI SCRITTI DI GABRIELLA:

Per scrivere questo racconto sono state fondamentali le parole, le poesie, i disegni ed i racconti della stessa Ferri, che ci hanno praticamente prese per mano e condotte nei meandri degli arabeschi mentali argentati e affascinanti di questa donna forte, selvaggia, madre, leonessa ma al contempo impaurita, cardellino e fiocco di neve. Un'intelligenza straordinariamente acuta, inquieta come solo le anime vive e palpitanti sanno essere. Che troppe domande si pone e che troppa poca arroganza depone nelle sue risposte. E che sente il bisogno incessante di cercare e ricercare. Un bisogno logorante e sfiancante. Che solo la sua voce instancabile saprà sublimare. Ma non per sempre.

NOTE DELL'AUTRICE BETTA CIANCHINI:

Ho scelto di dedicarmi con amore, passione ed in punta di piedi all'idea di Valentina De Giovanni di mettere in scena le canzoni di Gabriella Ferri per la grande ed immensa stima per questa grande Artista e perché la Voce dell'attrice ed interprete dei brani: Valentina De Giovanni appunto, ritengo che possa essere l'unica a ridarci la sua immensità e la sua straziante malinconia, pur nelle sue corde vivaci, taglienti ed ironiche, poiché Gabriella Ferri era nero e bianco, risata e pianto. Ma il mistero del suo segreto è ineffabile e solo suo. E nelle pieghe della sua vita avventurosa, dietro al suo magnifico sorriso sarcastico e beffardo, dietro a quella donna bellissima e sinuosa che amava vestire i panni del clown, si cela e si nasconde il fuoco indomabile di un'artista dalla eccellente sensibilità, che mai ha smesso di cercare "l'attimo fuggente, quello per cui vivi nell'affanno. Felice e triste". Un'artista che non sapeva "quale riva l'avrebbe accolta fredda e serena". E noi le sue canzoni forti e volitive e la sua vita intraprendente e piena di "giornate arruffate, di colori e di insegne luminose", le vogliamo ricordare. Col dovuto ossequio e rispetto.

“Pasolini mangiava qui sotto.

Com'era? Il grugno più bello del mondo.

Mi guardava e non mi diceva niente. Io passavo, lo guardavo e tiravo dritta.

La Magnani sempre il cappottello e una pacca sulla spalla.

Gli occhi scintillavano.

Fellini mi voleva al Circo.

Mina mi passava a prendere sulla Tuscolana”.

Ho letto queste sue parole e mi sono commossa. Tuttora rabbrividisco di fronte a questi nomi che sono la nostra cultura. E che le strade per lo più ignorano.

Spegniamo la TV!

OFF/OFF THEATRE

Via Giulia 19 – 20 – 21, Roma / DIREZIONE ARTISTICA SILVANO SPADA

Costo Biglietti: Intero 25€; Ridotto Over65 18€; Ridotto Under35 15€;

Dal Martedì al Sabato h.21,00 – Domenica h.17,00

Info e Prenotazioni: +39 06.89239515 - offofftheatre.biglietteria@gmail.com

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