sabato 30 novembre 2019

Il concorso del Torino Film Festival 2019 è stato vinto dall'islandese A White, White Day


Hlynur Pálmason dal grande nord si aggiudica Torino 37, migliori attori Battiston e Fresi, mentre il pubblico premia l'indie americano Ms. White Day.

Si conclude l'edizione 2019 del Torino Film Festival, la 37esima, con tutti premi, il palmares completo. Partiamo dal concorso internazionale, la Giuria di Torino 37, presieduta da Cristina Comencini (Italia) e composta da Fabienne Babe (Francia), Bruce McDonald (Canada), Eran Riklis (Israele), Teona Strugar Mitevska (Macedonia) ha assegnato i seguentipremi:

Miglior film, con un premio in denaro di €18.000 

A WHITE, WHITE DAY di Hlynur Pálmason (Islanda/Danimarca/Svezia)

Premio Fondazione Sandretto Re Rebaudengo (€ 7.000) a:

LE RÊVE DE NOURA di Hinde Boujemaa (Tunisia/Francia/Qatar)

Premio per la Miglior attrice a:

VIKTORIA MIROSHNICHENKO e VASILISA PERELYGINA, per il film Dylda / Beanpole di Kantemir Balagov (Russia)

Premio per il Miglior attore a:

GIUSEPPE BATTISTON e STEFANO FRESI per il film Il grande passo di Antonio Padovan (Italia)

Premio per la Miglior sceneggiatura a:

WET SEASON di Anthony Chen (Singapore /Taiwan)

PREMIO DEL PUBBLICO 

MS. WHITE LIGHT di Paul Shoulberg (Stati Uniti)

TFFdoc

INTERNAZIONALE.DOC

La Giuria di Internazionale.doc composta da Sara Fattahi (Siria), Vladimir Perisic (Serbia), Erik Negro (Italia), assegna i seguenti premi:

Miglior film per Internazionale.doc (€ 6.000) a:

143 RUE DU DESERT di Hassen Ferhani (Algeria/Francia/Qatar)

Con la seguente motivazione: Un’umile osservazione dei cambiamenti di spazio e tempo. Con Malika e lo sguardo del regista ci tuffiamo in un imprevedibile viaggio sociopolitico attraverso il cuore del deserto.

Premio Speciale della giuria per Internazionale.doc a: KHAMSIN di Grégoire Couvert e Grégoire Orio (Francia)

Con la seguente motivazione: Un tentativo di comprendere il passato attraverso l'arte al fine di reinventare una possibilità di futur

ITALIANA.DOC

La Giuria di Italiana.doc composta da Eleonora Mastropietro (Italia), Pippo Mezzapesa (Italia), Annina Wettstein (Svizzera) assegna i seguenti premi:

Miglior film per Italiana.doc (€ 6.000) a: FUORI TUTTO di Gianluca Matarrese 

Con la seguente motivazione: Per il coraggio e la freschezza con cui il regista realizza un racconto intimo, rendendo il dramma della propria famiglia emblema di una crisi economica dilagante.

Premio Speciale della giuria per Italiana.doc a: L’APPRENDISTATO di Davide Maldi

Con la seguente motivazione: Un racconto di formazione all’interno di un universo chiuso, capace di condensare forza visiva, delicatezza e paradosso.

PREMIO FIPRESCI 

La Giuria composta da Francesco Grieco (Italia), Diana Martirosyan (Armenia), Heidi Strobel (Germania) assegna il Premio Fipresci (Premio della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica) per il Miglior film a: LE RÊVE DE NOURA di Hinde Boujemaa (Tunisia, Francia, Qatar)

Con la seguente motivazione: Per la sua atmosfera realistica e la sua storia veritiera, caparbia, limpida e suggestiva, girata in un luogo specifico e marginale; il film affronta infatti problemi globali riguardanti scelta, libertà, responsabilità e convenzioni sociali conservatrici, che si basano anche su bisogni umani semplici e basilari nonché sulle fondamenta di ogni società: rivalità, felicità, dominio. Per la recitazione straordinaria e spontanea allo stesso tempo, per la sceneggiatura di grande effetto, per i suoi temi universali e sinceri, “Le rêve de Noura” di Hinde Boujemaa vince il premio FIPRESCI del 37 ° Torino Film Festival.

PREMIO CIPPUTI 

La Giuria, composta da, Altan (Italia), Paolo Mereghetti (Italia), Cosimo Torlo (Italia) assegna il Premio Cipputi 2019 – Miglior film sul mondo del lavoro a: 

OHONG VILLAGE di Lungyin Lim (Taiwan/Repubblica Ceca)

Con la seguente motivazione: Lungyin Lim mette a confronto nel suo film le due facce del lavoro: quella dura e sfinente di chi fatica ogni giorno a guadagnarsi da vivere e quella gratificante e sognata di chi avrebbe trovato la strada per la ricchezza. Così il figlio del povero pescatore che torna a Taiwan dalla Cina dopo aver inseguito i miti del successo e del denaro diventa lo strumento di un confronto dove i sogni devono fare i conti con la realtà e le sirene del guadagno nascondono sconfitte e delusioni.



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Jane Got a Gun, l'incredibile storia del film maledetto con Natalie Portman


Trascinato per oltre due anni, con defezioni continue tra gli attori e la regia, è stato un flop colossale.

Jane Got a Gun, film western con Natalie Portman, Joel Edgerton e Ewan McGregor potrebbe risultare un film del 2016, con una premiere di pochi giorni prima in Germania, nel dicembre 2015. Dietro questo lungometraggio diretto da Gavin O'Connor, demolito dalla critica e flop economico pesantissimo, si cela una delle lavorazioni più disperate e protratte degli ultimi anni in quel di Hollywood.
Due parole sulla trama, per contestualizzare le notizie sul casting: quando la banda del bandito John Bishop (McGregor) riduce in fin di vita suo marito Bill (Noah Emmerich), la volitiva Jane (Portman) decide di chiedere l'aiuto del suo ex Dan Frost (Edgerton).

A Hollywood circola da sempre, dietro le quinte, una "Black List" delle sceneggiature giudicate tra le migliori ma non ancora trasformate in lungometraggi. Il copione di Jane Got a Gun, scritto da Brian Duffield, rientra in tale lista intorno al 2011. Nel maggio del 2012 viene annunciato che Natalie Portman, fulcro della sfortunata operazione fino alla fine, interpreterà la protagonista, diretta dalla stimata regista scozzese Lynne Ramsay; contestualmente, nei mesi successivi, Michael Fassbender si avvicina al ruolo dell'ex Dan, mentre Joel Edgerton è scritturato per interpretare il villain Bishop. Se tenete a mente la sinossi di cui sopra, più di un elemento dovrebbe suonarvi diverso. Proseguiamo.

Comincia il 2013, e a marzo Fassbender fa sapere di non poter più dedicarsi al film, impegnato con X-Men Giorni di un futuro passato. La Ramsay non si scoraggia, ma compie un passo curioso: sposta Edgerton sul ruolo dell'ex Dan e propone il villain Bishop a Jude Law, che accetta. Appena una settimana dopo, nel primo giorno di riprese, un colpo di scena colossale spiazza la troupe e la stampa che segue il progetto: Lynne Ramsay non si presenta sul set, abbandonando quindi la lavorazione a se stessa senza preavviso. Un evento assai raro. Solo tempo dopo Lynne rivela le motivazioni del gesto: a suo dire la produzione, pur promettendole una cifra sostanziosa, le ha imposto all'ultimo minuto una lavorazione rapidissima che le impedirebbe di realizzare il film come vuole, negandole persino il final cut.
In 24 ore i producer trovano al volo come regista sostituto Gavin O'Connor. Lo attende una sfida non indifferente: al suo arrivo, Jude Law esce. Candida la motivazione: Jude voleva lavorare specificamente con la Ramsay, il progetto non gli interessa più. Ad aprile sembra che il villain possa avere le fattezze di Bradley Cooper. S'intravede una luce alla fine del tunnel? Neanche per idea: un mese dopo Cooper si tira indietro, non potendo conciliare quest'impegno con American Hustle. Una settimana dopo ancora è Ewan McGregor a salvare la situazione e raccogliere la parte di Bishop.

Non ci sono tuttavia turbolenze solo nel casting. Dalla fuga della Ramsay, il set non si è mai davvero fermato, ma il cambio di regia e attori ha spinto a una rielaborazione del copione di Duffield, a opera di Edgerton stesso e di Anthony Tambakis, già collaboratore di O'Connor. Come se non bastasse, anche il celebre direttore della fotografia Darius Khondji ha lasciato perdere l'impegno, in solidarietà con la Ramsey, sostituito da Mandy Walker. Tra ritardi e reshoot, la produzione termina alla fine del 2013, però qualcuno non sembra credere più al film, che viene parcheggiato fino alla fine del 2015, quando si progetta un'anteprima a Parigi in pompa magna, con conferenza stampa e interviste, per il 16 novembre. Tre giorni prima però si consuma la tragedia del Bataclan: la promozione è annullata.
Il lungometraggio arriva nelle sale americane nel gennaio 2016, quasi in punta di piedi. Tra America e resto del mondo incasserà 3 milioni di dollari, a fronte di un budget di 25. Un bagno di sangue.
Ammettetelo, se siete arrivati fin qui, forse ora avete la curiosità di vedere il film...



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Presentazione e brindisi a Monti. Tre autori per la neonata collana editoriale SenzaBarcode

Tre autori, tre libri, un natale di cultura con SenzaBarcode.

L'appuntamento è per venerdì 6 dicembre, dalle 18:30, al caffè Bohemien in via degli zingari 36; a due passi dalla fermata Cavour della metro A, nel cuore di Monti, uno dei Rioni simbolo della Movida romana.

L'occasione è la presentazione di 3 autori, i primi della collana editoriale SenzaBarcode edita da Rupe Mutevole. Andrea Barricelli, Germano Zampa e Mario Boyer presentano le loro opere, rispettivamente Troiade, La luce e la notte e La crisi del progetto. È l'associazione SenzaBarcode guidata da Sheyla Bobba ad organizzare e promuovere l'evento "sono entusiasta! So di avere a che fare con tre autori sorprendenti, capaci di scrivere bene, emozionare e divertire, ma specialmente con tre persone eccezionali. Sono quindi onorata di accompagnarli in questa presentazione che è apripista di progetti esaltanti". Dichiara la Bobba che recentemente, oltre al sito omonimo all'associazione, SenzaBarcode.it, ha aperto una web-radio, "sono tutti strumenti utili per il raggiungimento dei nostri scopi statutari che prevedono, tra le altre cose, il diritto alla conoscenza e la libertà informazione".

Ogni autore ha scelto un suo sponsor, accompagnatore o comunque testimone per cominciare questo percorso letterario. Germano Zampa, famoso oncologo, è presentato da Mario Boyer che in questa sede è nella doppia veste di autore e sostenitore, conosce Germano da tempo e addirittura distribuirà agli ospiti un piccolo dossier, una guida alla lettura. “La luce e la Notte è destinato ad entrare nella storia della letteratura per la qualità e l'originalità del linguaggio. Gran parte della narrazione rimanda al fantastico, all'irreale senza che il romanzo appartenga al surrealismo ed è permeata di una acutissima vena ironica e di disincanto verso ogni certezza scientifica, religiosa, filosofica”. Andrea Barricelli è accompagnato da Lorenzo Coppolino, redattore di Mangialibri che di Troiade dice “Un viaggio attraverso il poema epico più famoso di tutti i tempi con lo sguardo tagliente e beffardo di chi sa usare l'ironia come la più affilata delle armi. Mito, epica e leggenda si fondono in un calderone di goliardia estrema, cultura pop e puro divertimento grazie a una narrazione dinamitarda e irresistibile. Senza il minimo timore reverenziale, l'autore si diverte a destrutturare nello spirito e negli avvenimenti il poema omerico, strappando sorrisi e risate. Con i suoi personaggi grotteschi, caricaturali e sopra le righe quest'opera è già un piccolo mito”.



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Esce nelle sale 'Colomba legend', il secondo film western di Vito Colomba

Dopo che l'Italia intera ha conosciuto nel 1989 Vito Colomba grazie al suo primo film, il trash cult western Quattro Carogne a Malopasso, e alle apparizioni al Maurizio Costanzo Show e a Mai Dire Tv, il 5 dicembre 2019 esce nelle sale, distribuito da Ahora!Film, quello che, a tutti gli effetti, può essere considerato il sequel: Colomba legend.

Scritto dal produttore Maurizio Macelloni e diretto da Vito Colomba (affiancato da Rosario Neri, che ha curato anche la fotografia), il film è stato girato tra Custonaci e San Vito Lo Capo, in provincia di Trapani, sfruttando la bellezza delle location naturali, quali le cave di Custonaci e la Riserva Naturale Monte Cofano.

Sinossi

La storia di Colomba legend si sviluppa esattamente vent'anni dopo le vicende di Quattro carogne a Malopasso, il film western girato in piena autonomia da Vito Colomba nel periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, che vede protagonisti i figli degli storici personaggi, Parker e Nelson. Dopo le malefatte del bandito Parker, i cittadini di Custon City si vedono costretti a fronteggiare una nuova minaccia: tre banditi mascherati che compiono crimini a ripetizione terrorizzando l'intera città. Bill Nelson Junior, ossessionato dalla morte del padre, è convinto che i responsabili siano proprio i quattro figli di Parker, tre maschi e una femmina, abbandonati vent'anni prima, il giorno della loro nascita, davanti ad un convento di frati. Non soddisfatto dell'operato dello sceriffo, si mette sulle loro tracce e si batte affinché la verità venga a galla una volta per tutte. Ma saranno davvero loro i colpevoli di questi efferati crimini? O c'è sotto qualcos'altro?

Ecco il trailer:



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TORINO FILM FESTIVAL - FESTA MOBILE - LONTANO LONTANO

Roma, anni Duemila e quasi venti. Il Professore staziona da un bar all'altro, un bianchetto di qua un altro di là, saluta i baristi, fa conversazione, lascia sul conto. Incontra Giorgio, per gli amici Giorgetto, si siede al sole con lui, parlottano della pensione, dei soldi che non bastano mai, sono in crisi ma non lo danno a vedere, ci bevono su. L'estate, i gratta e vinci, i sanpietrini, i vicoli ciechi, il mercato, la città vecchia, com'era prima, negli anfratti in cui poco cambia. La tabaccaia parla per caso a Giorgio di un amico dello zio che è andato a vivere all'estero, dove i pochi spicci della pensione gli consentono una vita agiata in un clima mite. La dritta casuale diventa il cacciavite perfetto per mettere in moto un desiderio di cambiamento messo a dormire molto tempo prima. Così alla banda formata dal Professore e Giorgio si aggiunge Attilio, robivecchi col banco a Porta Portese: il trio è pronto a rivoluzionare la propria vita.

Attraverso la semplicità geniale di una trama lineare e sospesa in cui l'attesa e la costruzione di qualcosa diventano più importanti della cosa stessa, assistiamo come spettatori a una musicale commedia della vita, a giorni estivi caldi e appaganti in cui non accade quasi nulla ma quel nulla è tantissimo. La delusione, l'indecisione, il ripensamento; la salute, la burocrazia, il sapere; il combattere, l'insegnare, l'amore: i tre eroi, pensionati settantenni, camminano lievi su terreni pericolanti, acrobati innati nell'esercizio di una quotidianità senza più doveri né oneri. Sono i bravi guaglioni della commedia all'italiana, sono ironici viaggiatori del tempo, sono generosi natanti della bella e dolce vita romana.

La morbidezza dell'accento romano, gli scorci trasteverini, un odore traspirante di popolanità e borghesia, di affitti non pagati, di tirare a campare, di file alla posta e visite a un notabile con una passione per la grappa che, dall'alto della sua sapienza, può illuminare i tres amigos sulla destinazione del loro trasferimento. Si ride, si piange, si sospira con empatia, si applaude la meraviglia pacifica con cui si risolve tutto con il minor spreco di energie possibile.

Un modo felice di raccontare la vecchiaia, senza lamentele o piagnistei, senza lo spettro costante della morte, senza retorica né moralismi. Giorgetto, Attilio e il Professore si incontrano e si ritrovano pieni di tempo libero, annoiati, ciondolanti come cani sciolti e puri come se ciò che gli è rimasto fosse solo il proposito di essere felici.

(Lontano lontano); Regia: Gianni Di Gregorio ; sceneggiatura: Gianni Di Gregorio, Marco Pettenello; fotografia: Gogò Bianchi; montaggio: Marco Spoletini; musica: Ratchev & Carratello; interpreti: Ennio Fantastichini, Giorgio Colangeli, Gianni Di Gregorio, Daphne Scoccia, Salih Saadin Khalid, Francesca Ventura, Silvia Gallerano, Iris Peynado, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka; produzione: Bibi Film, Le Pacte, Rai Cinema; distribuzione: Parthénos; origine: Italia, 2019; durata: 92'



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TORINO FILM FESTIVAL - FESTA MOBILE - MIENTRAS DURE LA GUERRA

Cos'ha che non va il nuovo film di Alejandro Amenabar? Eppure le avrebbe tutte, le carte in regola per riuscire ad essere un'opera importante e grandiosa, in virtù di ambizioni piuttosto rare nel cinema spagnolo contemporaneo, lanciatissimo nel presente e verso il futuro, e assai meno disposto a ripensare la storia recente di un Paese che, come il resto d'Europa, sta conoscendo derive nazionaliste e conservatrici mescolate ai sempre più aspri separatismi interni, focolai di pericolosi vichiani ricorsi storici troppo simili alle cupe e drammatiche atmosfere che scuotevano gli animi di una popolazione divisa tra ideali antimonarchici e impetuosi venti di destra e di sinistra nella Spagna di quel 1936, anno in cui in piena guerra ‘civíl' il generalissimo Francisco Franco salì al potere per restarvi, con la repressione e la violenza tipiche di una dittatura anacronisticamente fascista, fino al 1975.

Arrivato al settimo titolo di una filmografia che ha inanellato svariati successi internazionali, e dopo un tentativo alquanto deboluccio nell'Horror made in USA con Regression, del 2015, Amenabar stenta nuovamente a ritrovare la felicità e la vigorosa potenza espressiva dei precedenti Mare dentro e Agorà, e neppure il nitore narrativo di The Others, o delle sue prime due opere, Thesis e Apri gli occhi (oggetto, quest'ultimo, addirittura di un fortunato remake statunitense con Tom Cruise, Vanilla Sky di Cameron Crowe). Ed è, va detto, un gran peccato. Mientras dure la guerra racconta i fatti del '36 dal punto di vista del grande scrittore, poeta e pensatore Miguel de Unamuno, nobile a autorevole figura cardine della cultura ispanica del primo Novecento, che in qualità di rettore dell'Università di Salamanca costituì per l'intera comunità intellettuale spagnola un riferimento imprescindibile. Amico di Franco, fu inizialmente tra i sostenitori dell'abbattimento della monarchia, passando poi dalla parte degli antimilitaristi quando si accorse dei metodi feroci e repressivi con i quali l'esercito andava impadronendosi della guida del Paese. Gli elementi per un solido affresco storico ci sarebbero tutti, e in molte sequenze di impatto spettacolare l'occhio di Amenabar organizza con sapienza virtuosa la scena e i movimenti della macchina da presa per infondere agli eventi illustrati l'alito dell'epica. Ciò nonostante, forse per colpa di una sceneggiatura (compilata dallo stesso Amenabar – che firma anche la colonna sonora – insieme ad Alejandro Hernandez) che a volte non riesce a sollevarsi al di sopra di una funzionalità un po' meccanica, il film scorre nel letto di un placida e indolente televisività, per quanto di fattura eccellente specialmente sotto gli aspetti estetici e visuali: ingiallita, seppiata, giustamente bagnata di una luce nostalgica è infatti la fotografia di Alex Catalan, e altrettanto eccellente risulta la ricostruzione storica di scene e costumi, rispettivamente affidati a due formidabili professionisti quali Juan Pedro de Gaspar e Sonia Grande. Giusti, senz'altro, però non memorabili, gli interpreti, per quanto somiglianti e aderenti alla fisicità dei personaggi reali, come Karra Elejalde, che indossa i panni di Unamuno, Santi Prego, che impersona un Generalissimo quasi timido e impacciato, eppure determinato nel suo diabolico disegno di eversione politica, e il sanguigno e volgare generale Millán-Astray, figura decisiva per la formazione ideologica e politica del Caudillo, di Eduard Fernandez.

Un'occasione perduta, firmata da un regista talentuoso dal quale sarà ancora lecito attendersi prove più convincenti in futuro, adatta tuttavia a ripassare pagine di Storia utilissime a una riflessione ponderata sul senso autentico di quanto sta (ri)accadendo nella Spagna odierna, e, allargando il raggio, in più parti del Vecchio Continente.

(Mientras dure la guerra); Regia: Alejandro Amenabar; sceneggiatura: Alejandro Amenabar, Alejandro Hernandez; fotografia: Alex Catalan; montaggio: Carolina Martinez Urbina; musica: Alejandro Amenabar; interpreti: Karra Elejalde; Santi Prego, Eduard Fernandez; produzione: Movistar +, Mod Producciones, Himenóptero, K&S Films; distribuzione: Buena Vista Internacional; origine: Spagna, 2019; durata: 107'



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TORINO FILM FESTIVAL - CONCORSO - FIN DE SIGLO

Ocho (Juan Barberini) è un bel quarantenne in vacanza da solo a Barcellona. Ha affittato una casa su Airb&b, un appartamento spoglio e austero. La mattina, dopo una frugale colazione, va in spiaggia dove vede da lontano un tipo (Ramon Pujol) che gli piace: lo segue in acqua ma non trova il coraggio né l'occasione di abbordarlo. Qualche ora dopo dal balcone lo rivede camminare per strada con indosso una maglietta nera con su scritto Kiss, il gruppo musicale anno ottanta pseudo metallaro. Lo chiama dall'alto, lo invita a salire finiscono presto a letto insieme (spiritosa la scena dei preservativi senza i quali Javi non vuole fare sesso).

Fin de siglo declina una storia d'amore attraverso gli anni, il presente è la fine del secolo, gli anni prima del Duemila, forse solo qualche mese prima, i due amanti sono inconsapevoli di essere reciprocamente il grande amore, quello che non si dimentica, quello che lascia un segno, quello che condiziona una vita.
I due uomini giocano alla seduzione con i termini invertiti, il sesso prima e la conoscenza dopo, secondo codici dell'omosessualità maschile non da tutti masticati. Vent'anni prima erano eterosessuali, avevano amici in comune, avevano passato una notte insieme, probabilmente proprio quella della svolta nella scelta sessuale: nelle conversazioni le loro posizione erano opposte da quelle di vent'anni dopo, il tempo porta cambiamento, il cambiamento porta movimento, il movimento è vita.

La poesia di un incontro fortuito sostituisce la consapevolezza della conoscenza: in potenza tutti possono essere l'oggetto d'amore di un altro, le caratteristiche personali sono casuali, non tessere di un puzzle che si deve comporre per forza in maniera perfetta. Oggetti simbolici trascendono il senso del tempo, la costruzione narrativa struttura il film in maniera originale, spiazzante, conturbante. Le carote nel frigo, lo stesso ballatoio, una piazza di Barcellona, l'amica cantante lirica sono scorciatoie per un passato e per un futuro sognato che i protagonisti sembrano aver dimenticato, che rimpiangono e ricordano, a cui anelano.

Una storia d'amore che trascende il tempo e lo spazio, che sorpassa i limiti, che esamina la memoria, il destino, i desideri e il desiderio. Un piccolissimo film con pochi attori, poche location, un unico interno, scritto diretto prodotto e montato dal regista Julio Castro: operazione all'arrembaggio giunta a destinazione con successo senza guasti al motore.

(Fin de siglo); regia: Lucio Castro; sceneggiatura: Lucio Castro; fotografia: Bernat Mestres; montaggio: Lucio Castro; musica: Robert Lombardo; interpreti: Juan Barberini, Ramon Pujol, Mia Maestro, Mariano Lopez Seoane, Helen Celia Castro-Wood; produzione: Lucio Castro, Inc.; origine: Argentina, 2019; durata: 84'



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Frozen 2, i temi e i messaggi per chi ha già visto il film


In zona spoiler, ci rilassiamo e discutiamo insieme dei messaggi che la storia trasmette.

Da giorni è disponibile la nostra recensione di Frozen 2 - Il segreto di Arendelle, ma in questo articolo vogliamo cogliere l'occasione di spiegare meglio alcune tematiche e questioni inerenti il racconto: le avevamo appena accennate causa spoiler nella nostra recensione di Frozen 2, ma le recuperiamo ed espandiamo qui, per gli spettatori reduci dalla visione, disposti a riflettere un po' insieme a noi. Naturalmente, s'alza ora una marea di spoiler, quindi fermatevi immediatamente se non avete ancora visto il lungometraggio.

La dinamica tra Anna ed Elsa, in questo secondo film, esplora la difficoltà di mantenere immutato un rapporto di parentela, quando i membri della famiglia sono naturalmente spinti al di fuori del nucleo, crescendo. Ad Anna andrebbe bene continuare col gioco dei mimi all'infinito, all'interno del castello, ma Elsa sente di essere fuori posto. Rimettere le cose in ordine per Anna significherebbe mantenere un nucleo che si sta però già sgretolando. Non c'è niente di male nell'assecondare la rottura, perché il legame rimane, ma Anna dovrà comprendere che lasciar andare Elsa non significa dimenticarla. Bisogna ripensare l'equilibrio.
Il percorso verso l'età adulta è più evidente in Anna che in Elsa. La prima infatti, per tutto il film, tiene distante il povero Kristoff, che cerca il momento adatto per una proposta di matrimonio: significativamente, non riesce a trovarlo finché Elsa e Anna non troveranno un nuovo assetto familiare. Nella realtà capita a molti: sposarsi (o trasferirsi per una convivenza) implica il lasciarsi alle spalle la famiglia, che non sarà più avvertita allo stesso modo. Non per tutti è un passaggio facile da accettare: arduo pensare che la complicità regga con la distanza. Chi ama spesso deve confrontarsi con il mito della perfezione familiare dell'amato/amata.

Rimanendo sul percorso di Anna, che ci è apparsa più interessante di Elsa in questa storia, è prezioso notare come la sua maturità e la sua crescita viaggino parallele a una presa di coscienza sociale. Così come all'inizio del film Anna dà per scontato che Elsa rimarrà sempre accanto a lei, allo stesso modo dà per scontato che la diga abbia una funzione positiva, finanche simbolica per tutta la comunità di Arendelle. In modo molto intelligente, la sceneggiatura di Jennifer Lee lega la "libertà" di Elsa alla libertà da una bugia che si è tramandata negli anni: entrambe dipendono da Anna, che a poco a poco "scivola" nel ruolo di vera regina, un ruolo che invece a sua sorella è stato semplicemente imposto ma che non ha mai avvertito suo.

"Maturità" è quindi la parola chiave: la si richiede sicuramente alle donne, in una storia che è pregna di emancipazione femminile, ma la maturità viene in realtà richiesta a tutti. Ci sono tanti "altri" da rispettare in questo film: un altro membro della famiglia, che non necessariamente ha la stessa nostra visione del mondo solo per via del nostro legame di sangue. C'è poi l'altro che non si vede, al di là di un "muro", legato a noi da qualcosa che c'è sempre stato ma che avrebbe richiesto troppa tolleranza per essere capito. Il nonno di Anna ed Elsa scelse la strada dell'intolleranza: le due sorelle devono crescere come donne e come guida del mondo che abitano, quindi devono andare oltre quella visione. Un mondo molto attuale, visto che un "l'altro" è anche sicuramente la natura: dal pretendere di controllare gli elementi al pretendere di controllare le persone il passo è breve. Il soggetto di Frozen 2 è la sintesi perfetta, su tutti i livelli di lettura, del citatissimo proverbio "La mia libertà finisce dove comincia la tua".

Come sottolinea Olaf, il comportamento del nonno non è degno di Arendelle: la tradizione va rispettata, ma un simbolo come la diga si svuota di senso, se viene retto da una propaganda ipocrita. Il peso della verità è tale che tutto ciò che c'è di magico ad Arendelle, Elsa e Olaf in primis, stanno scomparendo sotto il peso di questa constatazione. Nel climax, davvero istruttivo se si ha la pazienza di discuterne con gli spettatori più piccoli, Anna deliberatamente attira i Giganti di Pietra verso la diga, per distruggerla. Essere disposti a distruggere qualcosa che è nostro, un simbolo, non è così semplice, anche se non ci rappresenta più. Eppure ogni tanto va fatto. Non a caso Anna, dopo la distruzione, accetta che Elsa parta per la sua vita. Ha imparato a distruggere le certezze deboli per costruirne altre, più solide e rispettose del prossimo.

Riguardo a Elsa, al di là delle polemiche e di ciò che nel film ancora non c'è, potrebbe essere anche davvero omosessuale. Esistono solo ammiccamenti, non necessariamente interpretabili così, eppure significativi. Già nel flashback infantile, Elsa non si riconosce nei sogni d'amore immaginati dalla piccola Anna, costruisce poi un breve momento di confidenza con una ragazza dei Northuldra e si scopre sempre più "diversa" dalla società che voleva omologarla in un contesto che non le appartiene del tutto. Non è un caso se alcuni commentatori americani, appunto omosessuali, si lamentano di questo "girare intorno alla questione" da parte della Disney. Nella canzone "Nell'ignoto / Into the Unknown" Elsa parla di un richiamo che la tenta ma che ha paura di seguire, personificandolo in una figura femminile, una "sirena". Ufficialmente parla delle sue radici e della verità che sta per scoprire, ma la canzone è ambigua. C'è sensualità e richiesta d'affetto nelle parole inglesi: "Are you out there? Do you know me? Can you feel me?" cioè "Sei lì fuori? Mi conosci? Mi puoi sentire?".
"I'm afraid of what I'm risking if I follow you", "Temo quello che rischierò, se ti seguirò": stando a parecchie voci, anche la Disney teme quello che rischierebbe, seguendo quest'evidente ispirazione.



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Butt Boy è un film (molto) originale che racconta di un uomo con l'ossessione di mettersi oggetti su per il...


Nonostante l'assurdità della premessa, si tratta di un thriller tanto folle quanto serio. E a quanto pare ben riuscito.

Siete stanchi di sequel, prequel, reboot, remake? Avete voglia di storie originali e coraggiose?
Se sì, la pensa come voi anche Tyler Cornack, sceneggiatore e regista del film Butt Boy. Sapete che "boy" significa "ragazzo", potreste però non sapere che "butt" è l'equivalente italiano di "sedere", "chiappe" o, per essere un po' meno edulcorati, "culo".
Ecco, un buon pilastro della storia del film riguarda il didietro del protagonista e il personale piacere che prova nell'inserire all'interno oggetti di uso comune, a seconda come si senta quel giorno, di quale nuova intima sensazione abbia voglia di sperimentare. Ma attenzione, Butt Boy non è un film parodia, non appartiene al genere comico né a quello pornografico. Si tratta di un crime thriller, con sfumature di commedia e science-fiction, che è stato presentato al Fantastic Fest di Austin in Texas e, a quanto pare, è un buon film.
Ora, innalziamo il vessillo dell'originalità e difendiamolo continuando a leggere.

Con un budget molto low di 150 mila dollari, Butt Boy racconta la storia di Chip Gutchell, un uomo intorno ai 40 con un lavoro che detesta, un matrimonio ormai spento e che è anche preda del disorientamento di essere diventato un neo padre. Poi arriva il giorno del suo primo esame alla prostata che comporta un controllo per via rettale da parte del medico. In quella situazione, per quanto clinicamente fredda e motivo di disagio e d'ansia per molti, Chip trova conforto, relax e qualche curioso brivido. Leggermente sconvolto, l'uomo non sa porsi domande e tantomeno trovare risposte, ma è certo di voler sondare meglio quella sensazione.
A questo punto sono trascorsi soltanto tredici minuti dall'inizio del film e siamo di fronte a una delle più bislacche introduzioni di un personaggio viste in un film. No, ci dispiace, non faremo alcun doppio senso con la parola "introduzioni".

Chi altro poteva ingaggiare Tyler Cornack per il ruolo di protagonista se non se stesso? Si è saggiamente risparmiato la fatica di convincere qualcuno della bontà della follia che aveva in mente, assumendosi ogni rischio nel metterci la faccia. E anche il culo, certo.
La storia prosegue e l'attività di Chip diventa presto una dipendenza. Ha bisogno di parlarne, di confrontarsi, e lo fa partecipando agli incontri di gruppo con gli alcolisti anonimi, senza rivelare che alla bottiglia ci si attacca sì, ma non per bere. Qui, dopo molto tempo, conosce il nuovo arrivato Russel Fox, uno stereotipato poliziotto che lo trascina in un caso su cui sta indagando a proposito di un bambino svanito nel nulla. Il poliziotto però inizia a nutrire sospetti sul suo nuovo amico, tanto da indurlo a credere che abbia qualcosa a che fare con quella scomparsa.

I critici che hanno visto il film elogiano la serietà con cui l'autore maneggia il soggetto. Tanto è ridicola la premessa quanto austero è lo sviluppo. "Cornack allestisce la messa in scena come se fosse un film di Michael Mann o David Fincher" sostiene Rafael Motamayor, "nonostante la sua natura satirica, la storia è raccontata in modo diretto e senza ironia" scrive Stephanie Greenhaw che aggiunge "non avete mai visto niente del genere".
Butt Boy non è un film per tutti, è evidente. È disturbante, forse anche rivoltante, ma a quanto sembra geniale abbastanza da annotarselo e dargli una chance per quando comparirà prima o poi su una piattaforma streaming. Prendendo in prestito e adattando la battuta più famosa de Lo squalo, nonché una delle più citate della storia del cinema, ci sarebbe da dire "You're gonna need a bigger butt".
Qui sotto il teaser trailer di Butt Boy.



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via Cinema Studi - Lo studio del cinema è sul web

venerdì 29 novembre 2019

Women in charge: Highlights from Torino

 Beanpole (2019).

DB here:

Every day we’ve spent at the Torino Film Festival has yielded us fine and sometimes superb film experiences. . Herewith some examples, all probably coming to a screen (large, small) near you.

 

Extracurricular melodrama

Wet Season (2019).

From Anthony Chen (Ilo Ilo, 2013) comes a woman’s drama of professional and personal travail. Ling is a Malaysian teacher working in a Singapore boys’ school. She’s trying to get pregnant through in vitro fertilization , although her husband is reluctant. She takes care of her elderly father-in-law while pressing her mostly indifferent students to pass their Chinese examinations. Things take a drastic turn when, just as Ling’s husband drifts away from her, one boy becomes violently infatuated with her.

Poised and mild-mannered, Wet Season handles its melodramatic material with restraint. For instance, there’s the careful use of Ling’s car. She and her husband are introduced driving to work together, but the shots don’t show their faces. It’s an effective expression of their empty marriage. Similar shots recur throughout the film.

Denying us the standard view forces us to pay attention to the dialogue. Lest this be thought a simply byproduct of production constraints (it’s easier to shoot a rainy drive from the back seat), later we see Ling in a more standard angle.

The new framing allows us to see her accusing glance at Wei Lun.

And still other uses of the car enable Chen to stress Ling’s reactions to developments in the drama.

Here, as so often in film, simple but shrewd production choices can build strong emotional impact. By the end, when the typhoon has finally blown over, Ling can confront the future with some hope.

 

Horror diva

As indicated in our previous entry, the guest of honor for Torino’s horror retrospective was the star of 1960s Italian (and other) frightfests, Barbara Steele. She received the Gran Primio Torino on the opening night of the festival. Several of her films were shown, reminding me of the delirious ways that Italian filmmakers revised the genre. Take the two features I saw.

Mario Bava’s Black Sunday (La maschera del demonio, 1960), which came out the same year as Psycho, is in some ways more shocking. The opening, in which a spike-studded iron mask is pounded bloodily into the face of a witch still makes you jump. What follows is essentially an old-dark-house plot, with one character after another prowling around a castle and getting killed off by the undead witch Asa and her brother. Asa targets her descendant, the beautiful Katia, in the belief that taking her blood will grant her immorality.

Barbara, with bat-wing eyelashes and magnificently tousled hair, plays both Asa and Katia. In a bravura image, Bava uses visual effects to give us the two women in a fine widescreen composition.

The film’s endless play of highlights and shadow is really something. Although I’ve seen it before, I never appreciated its visual splendor until I encountered this DCP restoration. Kristin pointed out that we can see how the eyelights on Asa are flicked on and off so that she seems throbbing with supernatural energy.

Two years later, Barbara made for director Riccardo Freda The Horrible Dr. Hichcock (L’Orribile Segreto del Dr. Hichcock). It’s close to 1940s Hollywood Gothics in centering on uxoricide. But in a typical giallo fantastic twist, the husband who dispatches one wife accidentally tries to kill a second to revive the first. There are 1940s motifs such as the sinister housekeeper (Rebecca), the dominating portraits of Wife #1, the efforts to gaslight Wife #2, and even a glowing glass of milk (Notorious) with which Dr. H hopes to dispatch his new wife–played, of course, by Ms Steele.

Freda has recourse to the fog and sinister noises of Black Sunday, but Bava’s labyrinthine secret passages and torture chambers are replaced by rooms stuffed with sinister chachkies. And Hichcock is in Technicolor, so Freda gives the dank Victorian parlors a subdued color design. Barbara is right at home here too, rolling her eyes apprehensively as she’s given the poisoned milk.

In all, the Torino horror retrospective was a bracing reminder of a genre that has shaped popular cinema to this day. The presence of Ms Steele was a wonderful bonus.

 

Cops, moles, and femmes fatales

The Whistlers (La Gomera, 2019).

When a film is grounded in a basic genre formula, much of your enjoyment comes from seeing not only fresh twists of plot but also felicities of sound and image. That was my response to Corneliu Porumboiu’s The Whistlers (La Gomera), a quietly flashy neo-noir.

Everything is there. We have the intricate schemes of cops, crooks, and everybody in between in pursuit of mattresses stuffed with cash. There’s the tired, seen-too-much cop who works for the gang, not least because of the wiles of a stupendously gorgeous femme fatale. There are the Eurotrash thugs and heavies supervised by a calculating boss, and flashbacks that lead you to wonder who exactly is conning whom.

But Porumboiu tinkers with the familiar narrative mechanics. In an age of cellphones and video surveillance, the crooks must communicate in a frankly analog code: they whistle their messages, disguised as birdsong. The tough supervisor who suspects our protagonist is a mole isn’t the usual overbearing male, but rather a woman with her own femme fatale streak. She’s as suspicious of surveillance as the crooks, stepping outside her bugged office to negotiate extralegal stings with her staff.

Likewise, Porumboiu gives up the “free-camera” straying and fumblings that we see in so many films these days. He locks down his camera to create precise, radiant images. Here’s Gilda, yes, you heard that right, smoking and waiting for trouble.

It’s a pleasure to see crisp frame entrances and exits, along with tracking shots reserved for climactic moments, as when the gang steps into a police ambush mounted on a disused film set. A well-judged sense of framing enables an  overhead shot in which the dark blood of a dead man at a work station flows into the mouse and lights it up in a discreet crimson flash.

The Whistlers isn’t as rich, I think, as the director’s earlier policier, Detective, Adjective, but it’s  a satisfying genre exercise. It yields dry wit (sleek fashionista gangsters struggling to load mattresses into a small car) and surprise twists–not least the epilogue, which brings back the coded whistles in an amusing sound gag.

 

Women at war

Beanpole (2019).

Another way to put it: The Whistlers is that rarity today, the thoroughly “designed” film. Here all the stylistic and narrative choices stand sharply revealed as part of what we are to notice, and enjoy. (Other instances: the Coens, Almodóvar.) Another example at Torino is the already widely-praised Russian drama by Kantemir Balagov, Beanpole.

Leningrad: World War II is winding down, and two women must face the postwar world. Iya and Masha have been gunners at the front. Iya was invalided out because of episodes of “freezing,” seizing up in a sort of paralyzed trance and making clicking sounds until the spasm eventually passes. Now she works in a hospital patching up wounded soldiers and taking care of Masha’s child, born at the front. Masha eventually returns and takes a job at the hospital as well.

But their friendship suffers through a horrific accident that plunges the towering and slender Iya, the beanpole  (dilda, “tall girl”) of the title, into shame and depression. Masha, more aggressive in remaking herself as the war ends, drives the second half of the film. She begins a pragmatic relationship with the weak soldier Sasha. When he brings her home to meet his parents, proud members of the Bolshevik bourgeoisie, she supplies all her backstory about life on the front that fills in crucial gaps.

Beanpole‘s few characters–the two women, Sasha, and a weary doctor supervising the clinic–throb with a Dostoevksian intensity. With her paralysis and quiet mournfulness, Iya recalls Prince Myshkin; some shots virtually sanctify her.

As in Dostoevsky’s novels, nearly every scene is worked up to a furious emotional pitch. The nosebleeds that seem to pass contagiously among characters is virtually a sign of passions under pressure.

The tension is carried through lengthy, often silent stares shared between characters thrusting themselves at one another. Balagov relies on close-ups and tight two-shots running very long; there are about 325 shots in the film’s 131 minutes. Here Iya helps a dying soldier to smoke in a perfectly composed two-shot in the wide format.

Without prettifying Leningrad during and after the siege, the film’s pictorial design is ravishing. The main sets are designed to complement one another. The hospital is bathed in a creamy light, while the night streets radiate a golden glow.

The apartment Iya and Masha share is ripe in dark greens and reds, the result of years of tearing away layers of wallpaper. (See our top image.) The doctor’s apartment offers a warmer, less distraught balance of reds and greens.

The palatial home of Sasha’s parents yields another register, one of tidy, frosty elegance.

And the clinic is given a dose of red and green by the painted walls and the presence of little Pashka.

The pictorial harmonies and modulations are just one part of this gripping, exhilarating film. Beanpole will be distributed by Kino Lorber in the US and Mubi in the UK.


We wish to thank Jim Healy, Emanuela Martini, Giaime Alonge, Andrea Alonge, Silvia Saitta, Lucrezia Viti, Helleana Grussu, and all their colleagues for their kind help with our visit.

For more Torino images, visit our Instagram page.

Cynthia Hichcock (Barbara Steele), trapped in a coffin by her husband, in The Horrible Dr. Hichcock (1962).



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Ms. White Light, la ragazza che aiutava a morire in un concorso del TFF37 che parla spagnolo

Una breve storia d’amore argentina, un Cube basco folle e divertente e l’originale viaggio di una ragazza che empatizza con i malati terminali.

Parlano spagnolo due dei più interessanti film presentati nel concorso del Torino Film Festival 2019. Due film che più diversi non potrebbero essere, anche se è il primo, lo spagnolo El Hoyo, quello più originale e signfiicativo, una sorta di Cube dei giorni nostri, per l’ambientazione geometrica, costretta spazialmente e misteriosa, in cui sono ambientate le sue vicende. Trascinante, ironico e spiazzante, è quello che ci voleva in un concorso 2019 sottotono, decisamente inferiore rispetto agli anni scorsi, che spesso ci avevano regalato ottime sorprese e vere scoperte. È un film basco, a essere precisi, diretto da Galder Gaztelu-Urrutia, che racconta di un uomo che si sveglia in una cella ampia, con a fargli compagnia solo un vicino nel letto accanto e una copia di Don Chisciotte della Mancia di Cervantes, uno dei molti inserimenti ironici e colti di questo racconto molto politico. Siamo in una vera prigione, ma sviluppata in senso verticale, con un ascensore che ogni giorno sposta in verticale piatti e piatti di cibo, più abbondante e ricercato in alto, fatto solamente di avanzi man manco che si scende di piano. Mondo distopico, in cui il segreto per scappare non è certo facile da scoprire, nel film sorpresa di quest’anno. Dopo averlo visto, guarderete alla panna cotta con occhi diversi.

Restiamo in Spagna, ma anche qui in una regione autonoma, la Catalogna, e ancora più nel dettaglio a Barcellona, per il film dell’argentino Lucio Castro dal titolo Fin de siglo, fine secolo. C’è in effetti un’atmosfera dolente e da passaggio epocale nascosta in una storia piana, semplice se non addirittura minimalista. Ocho l’argentino e Javi il catalano si incontrano a Barcellona. Pochi fronzoli, si piacciono e fanno sesso, mentre ognuno è impegnato con un altro partner: Javi ha una relazione col compagno da qualche anno, ha una figlia e vive a Berlino, invece Ocho è di base a New York, dove è impegnato in un rapporto che dura da vent’anni. Quasi per azzardo scoprono che proprio venti sono gli anni di distanza dal loro primo incontro, in cui si erano sempre piaciuti. Venti sono anche gli anni che rimandano a un fine di secolo in cui sogni e speranze erano diverse, per il mondo, per dei giovani ventenni e per una storia d’amore la cui importanza non è legata certo alla sua durata. Può bastare in fondo un attimo o un cambio di prospettiva per cambiare radicalmente le cose. Interessante davvero come opera prima, anche grazie a due attori convincenti come Juan Barberini e Ramon Pujol.

A proposito di sorprese, e di originalità, uno dei film a cui ci siamo più affezionati del concorso è Ms. White Light di Paul Schoulberg, che abbiamo recuperato nelle ultime ore. Quasi tutto girato in interni, soprattutto in ospedali, il film racconta di Lex (la Robert Colindrez della serie I Love Dick), una giovane che ha un talento parricolare, quello di riuscire a entrare in sintonia con chi sta morendo. La sua è un’empatia tanto naturale con quella specifica categoria di persone tanto quanto lo è l’incapacità di relazionarsi a qualsiasi livello con chiunque altro. Vive e lavora con il padre, lui gestisce la parte commerciale e marketing, premendo per aprirsi alla modernità della comunicazione, ai social, lei è quella che va sul campo, o meglio accanto al letto dei pazienti in fin di vita. Sono pagati da familliari incapaci a gestire una situazione così definitiva, o quantomeno ad accompagnarli alleviando le ultime ore. 

Un mestiere decisamente particolare, che può ricordare qualcosa di simile che viene praticato in Giappone, in un film eccentrico, una black Comedy in cui un’ironia trattenuta acida e ‘scorretta’ si alterna a momenti di dramma più tradizionale, che ha il merito di fregarsene di un tabù tipicamente occidentale come la morte. Perché, in fondo, “stiamo tutti per morire”, e imparare ad affrontare quel momento per tempo può aiutare a vivere in pieno gli anni che ci sono concessi precedentemente, come Lex impara conoscendo una sua giovanissima cliente, guarita miracolosamente e vogliosa ora di sistemare lei la sua vita e quella del padre, oltre a un insolito medium che, anche lui, “viene assunto per agevolare la dipartita dei clienti”. Quello che accomuna questo gruppetto curiosamente assortito, dall’andatura claudicante come le loro vite e il look da rappresentanti di aspirapolveri del midwest, sia per gli uomini che per le donne, è la solitudine. Uno sguardo molto contemporaneo sull’assenza di comunicazione, con il paradosso che per Lex diventa possibile dialogare solo con chi sta morendo, mentre ancora non ha chiarito una buona volta con il padre la morte della madre in un incidente.

Deludente, invece, il secondo film diretto da italiani del concorso, pur di produzione e ambientazione americana. Now is Everything è l’opera prima di Valentina De Amicis e Riccardo Spinotti, figlio di Dante, qui presente come direttore della fotografia e produttore. In America dagli anni ’80, Spinotti padre è stato candidato a due Oscar, per L.A. Confindential e Insider. Ha lavorato con Michael Mann, Brett Ratner, Michael Apted, Sam Raimi e Anthony Hopkins, che proprio in Now is Everything interpreta un piccolo ruolo. Fin dalla prima scena vediamo proposti cliché noir lynchiani, fra telefonate in piena notte, hotel misteriosi dai corridoi infiniti, fra femme fatale, dark lady, protagonisti tutti bellissimi, voci fuori campo in cerca di poesia che stonano nell’umoristico involontario e una seconda parte più on the road alla ricerca di una camera a spalla nella natura e nell’esistenziale che sembra una parodia di Malick. Opera prima piena di presunzione, priva di originalità e decisamente non riuscita.



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Ivano Scolieri: “Pianoforte nasce da passioni che si trasformano in scosse di energia”

In tutte le librerie fisiche e digitali è approdato “Pianoforte: 7 note di armonia manageriale” di Carlo Massarini e Ivano Scolieri per Hoepli editore. Ispirati dal fascino del pianoforte Massarini e Scolieri costruiscono un viaggio che unisce Management e Musica, cadenzato e ordinato dalle note di pianoforte. Ogni nota ha un determinato suono, una sua intensità che permette di collegarla, con riferimenti e citazioni, sia al mondo del lavoro sia a quello più popolare della musica. Ogni nota diventa il tempo e il perimetro di un racconto manageriale, raccogliendo diverse esperienze reali vissute in importanti organizzazioni nazionali e internazionali. Close Up ha intervistato in esclusiva Ivano Scolieri.

Ivano, come nasce il progetto Pianoforte?

Pure passioni che si trasformano ogni tanto in scosse ricche di energia. Più poeticamente potrei dire che sono state delle coincidenze astrali a dare vita a Pianoforte. Amare la musica nella sua essenza e ritenerla un vero elisir di lunga vita per stimolare motivazione e ricerca di nuova linfa creativa. Il voler contribuire con un modello manageriale al mondo del professionismo. Sono tante le università che tratteggiano e insegnano modelli spesso ripetitivi o spuntati sia nella forma che nell'efficacia. L'aver conosciuto per un evento condotto insieme il sempre ammirato Carlo Massarini. Tre elementi che uniti sono stati determinanti per costruire un super manuale manageriale ispirazionale, innovativo e funzionale nella forma e nei contenuti.

A chi si rivolge questo libro?

E' nato come un vero manuale di Self Help per professionisti del mondo organizzativo. Avevamo un intento iniziale di servire e aiutare figure e ruoli strategici del mondo complesso delle aziende. Sono bastate poi alcune riflessioni e confronti in corso d'opera, alcune letture test con referenti e giornalisti per comprendere che avevamo creato un libro destinato a diventare una piccola bibbia attuale per tutte le persone che ogni giorno lavorano e cercano uno strumento per esaltare competenze, conoscenze e voglia di fare. Pianoforte può quindi abbracciare uno studente per sospingerlo al mondo del lavoro come può svegliare l'imprenditore da qualche torpore megalomane e offre un consistente supporto per quei manager che cooperano ogni giorno per alimentare un contesto organizzativo affinché sia produttivo. Poi una mi carissima amica che ha un brand di moda mi scrive che con una nota/capitolo al giorno ha potuto creare dei modelli per la linea estate 2020. Una testimonianza apparentemente fuori dal coro che ha sua volta ci ha permesso di capire l'importanza della ritualità del capitolo al giorno e anche un effetto sacrale che si può riconoscere in una seconda e più attenta lettura.

Tra i traguardi finora raggiunti, di quali vai maggiormente fiero?

Le persone sono emozioni ogni giorno. Felicità e delusioni si susseguono ad intermittenza e senza fine. In questo periodo stiamo curando degli eventi di team building molto interessanti. La varietà di partner presenti in Inventrix (www.inventrix.it) ci permette di offrire eventi esclusivi. Non è da tutti poter armonizzare illusionismo con un percorso diurno e notturno in modalità outdoor. La musica con la scienza, la pittura e l'arte con il ritmo e la performance con le emozioni ed i suoni. Quest'anno inoltre abbiamo da poco realizzato “listening machine” un mini computer in grado di catturare le frequenze umane e di siti industriali e determinarne la nota/suoni dominanti e principali. A cosa può servire? Beh potremmo dire che tra qualche anno faremo suonare le aziende come una band oppure potremo dire che Salvini usa un Sol mentre Di Maio un RE. Suonano bene queste due note?

Pensando a Pianoforte sono passati solo due mesi. Tutto sta nascendo ora. Posso comunque dire che molte company premium ordinano quantità ingenti di Pianoforte. Pianoforte si presenta bene già nella sua copertina. Quando scorpri che un libro ben fatto richiama lo stesso autore ad una rilettura con il piacere dell'effetto prima volta.Quando avverti che il bello della copertina e accolto con nobile forza al suo interno. Questo insieme di piacevoli sensazioni aiutano a percepire il concetto di traguardo. Il senso di aver capito che un punto a capo è stato messo.

A questo punto del tuo percorso, a chi senti di dover dire grazie?

Lo dobbiamo sempre a qualcuno anche se a volte sembra che stiamo facendo tutto da soli. E' solo una percezione di cui dobbiamo stare attenti. Grazie lo dico a Carlo Massarini che mi è stato vicino con la sua essenza critica per sviluppare un manuale scritto come un magazine e comprensibile per tutti. Grazie va a tutte quelle persone che ogni giorno alleggeriscono il nostro lavoro con un atto di comprensione. E con questa riflessione il numero si allarga esponenzialmente.

Attualmente a quale altro progetto ti stai dedicando?

Pianoforte è una margherita con dei petali che rappresentano le diverse declinazioni del progetto. Abbiamo rifinito un LIVE SHOW che permette di vivere Pianoforte con i tempi e l'energie di uno spettacolo. Pensato per le aziende potrebbe tra un paio d'anni diventare uno spettacolo per i nostri teatri italiani. Abbiamo anche una versione format televisivo. Le 7 note possono essere delle puntate con degli extra rappresentati dai diesis e bemolle.

Il 2019 è quasi terminato: un bilancio?

Bilancio positivo anche se Carlo Massarini mi definisce un incorreggibile ottimista. Per ovviare a questa possibilità scrivo sulla mia agenda la top ten delle cose belle accadute. Sarei tentato di stilare una super classifica del 2019 ma poi mi rendo conto che mi piace quel retro gusto di soddisfazione che si respira quando le cose che abbiamo fatto sono state un motivo di crescita per il tuo mondo.

Quale vorresti fosse il prossimo step della tua carriera?

Spero che Pianoforte arrivi nelle mani dei nostri politici. La versione in lingua inglese è in lavorazione e potrebbe un domani arrivare ai politici di altri stati. Ci sono competenze e meta-competenze attualmente dimenticate, calpestate, abilmente vitate, atrofizzate. Questo produce una generale caduta di stile, un abbrutimento visibile. Si scherza per superare il disagio ma di fatto l'inconsistenza è inserita in ogni aspetto della nostra vita quotidiana. Pianoforte è un manuale che supera il limite del libro. La sua pratica quotidiana potrebbe dare una speranza concreta al nostro futuro. Poter riaprire lo stargate del miglioramento, stappare un nuovo entusiasmo, guidare una task force di moschettieri con la nobile follia di poter invertire il meno con il più.



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Roma, arriva Antonio Cornacchione al Teatro de' Servi con la tragicommedia più contemporanea che mai

L'ho fatto per il mio Paese
di Francesco Freyrie, Andrea Zalone e Antonio Cornacchione
Regia Daniele Sala
Con Antonio Cornacchione ed Ippolita Baldini

“L'ho fatto per il mio Paese”: solitudini a confronto. Al Teatro de' Servi di Roma la spassosa coppia Cornacchione / Baldini con garbo e tanto divertimento, trasforma la disperazione in motivazione.

Un Antonio Cornacchione perfetto nei panni di un Don Chisciotte squattrinato accompagnato dalla spumeggiante Ippolita Baldini, portano in scena al Teatro de' Servi di Roma dal 29 novembre al 15 dicembre una fotografia dei nostri giorni incerti. Dalla penna pungente degli autori di Maurizio Crozza e dello stesso Cornacchione, un rapimento che si fa convivenza forzata, accorcia le distanze, smonta i ruoli e ribalta il finale in nome di una comune solitudine. In fondo, non siamo tutti abbandonati a noi stessi?

Quella che va in scena è una tragicommedia appassionata, forte e decisamente contemporanea. Un esodato, assai maldestro e divertente nel suo ultimo, disperato tentativo di reagire e agire contro un destino grigio e ingiusto, ci porta a riflettere su politica e lavoro. Ma soprattutto sulla disperazione e la solitudine di chi ha la sfortuna di trovarsi dalla parte sbagliata di una forbice sociale sempre più aperta e tagliente. Lo scontro tra due ceti si trasforma inevitabilmente in un confronto tra due mondi distanti, o forse no. Perché la solitudine non ha classe e, indipendentemente dai mezzi, il fine a volte può essere lo stesso…

L'HO FATTO PER IL MIO PAESE
di Francesco Freyrie, Andrea Zalone e Antonio Cornacchione, diretto da Daniele Sala. Con Antonio Cornacchione (Benny) e Ippolita Baldini (la ministra). Produzione La Bilancia.

Immaginate da una parte un donchisciotte senza soldi, sempre comicamente in lotta con la vita, con la disdetta dell'affitto in una tasca e la lettera di licenziamento nell'altra, così disilluso da decidere di compiere un gesto folle e disperato: rapire la Ministra e nasconderla in cantina. Lo fa per sé, per la sua pensione... ma soprattutto lo fa per il suo Paese. Dall'altra parte la Ministra, stimata docente universitaria, sposata con un finanziere ricchissimo, che vive secondo valori solidi e tradizionali. È entrata in politica solo per fare un favore al Paese… ma un po' anche a se stessa.

Teatro de' Servi
Via del Mortaro 22, Roma
info: 06 6795130
www.teatroservi.it



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Teatro Tor Bella Monaca, 3 e 4 dicembre: spettacolo 'PREGO - La gallina la guerra e io' di Giovanna Mori

PREGO
la gallina la guerra e io

di e con Giovanna Mori
spettacolo vincitore della IV edizione del PREMIO FEDERGAT I TEATRI DEL SACRO

Prego è la storia dell'incontro tra una donna e di una gallina.

La donna abita in una casa su una strada larga di quelle che portano alla tangenziale. La gallina è scappata dal camion che la portava alla fabbrica di hamburger di pollo. La donna quel mattino ha letto una notizia sul giornale e si sente perduta. La gallina invece, che è contenta di essere scappata, di essersi salvata si accoccola sul davanzale della finestra della donna. La donna la caccia. La gallina resta li e fa: Coccodè. E la donna capisce quello che la gallina ha detto. Non ci può credere. Ma ci deve credere perché la gallina fa un altro Coccodè e la donna capisce ancora quello che la gallina le ha detto. Ha ha detto: Ricordati che in tempo di guerra una gallina serve sempre. La donna allora ricorda che pure sua nonna glielo diceva sempre. E poi la gallina ha detto quello che lei non osava dirsi. Ha detto che siamo in guerra. E la donna e la gallina si mettono a parlare. Escono. Camminano insieme. Incontrano. Incontrano vita e morte apocalisse e miracoli. Pregano anche. Come possono pregare una gallina e una donna insieme in una rosticceria. E quando la donna chiede alla gallina: Tu che di sicuro sai chi è nato prima tra l'uovo e la gallina e che quindi conosci il mistero, dimmelo per favore, ne ho bisogno. E la gallina dice: Zitta e ascolta.

Luci Gianfranco Lucchino
Costume Chiara Aversano
Scelte musicali Leone Pompucci

PREGO E SANTINI
Il 10 gennaio 2015 a pagina 7 di un quotidiano, la notizia di una bambina kamikaze di “circa 7 anni….identificata dalle trecce” che ha fatto una strage in un mercato nella quale sono morte 15 persone. Da qui' l'urgenza di PREGO dialogo tra una donna e una gallina in tempo di guerra. Dialogo necessariamente tragicomico tra una donna sola e una gallina scappata dal Camion “Carmela “ che dall'allevamento intensivo la stava trasportando altrove.

Lo spettacolo nasce come “ spettacolo aperto”. Aperto ad ospitare al suo interno ospiti vari musicisti, attori, autori, chiamati a scrivere o improvvisare un SANTINO, una PREGHIERA per rendere PREGO uno spettacolo in ascolto continuo di altre drammaturgie, altri modi, altri mondi. Ad ogni replica diverso. Un monologo che diventa corale. In una drammaturgia che dentro una struttura data continuamente si riforma e si trasforma.

Info e prenotazioni
tel. 06 2010579
promozione@teatrotorbellamonaca.it



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Roma, 29 novembre: presentazione webserie SAS - Single allo sbando

Venerdì 29 novembre, alle ore 15:15, presso la Casa del Cinema a Roma, proiezione a ingresso gratuito di una puntata della webserie 'Sas - Single allo sbando' nell'ambito del Digital Media Fest! Saranno presenti alcuni attori del cast e lo sceneggiatore.

Link ultimi 2 episodi:
www.youtube.com/watch?v=xtE0...

www.youtube.com/watch?v=RWS0...



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Dalla fiction al teatro al grande schermo: intervista a Giulia Todaro

Attrice già protagonista di un film in uscita, Giulia Todaro, classe '97 e originaria della Sicilia, ha da poco concluso le riprese di un set dove recita con Daniela Poggi e l'abbiamo vista nell'Isola di Pietro nel ruolo di Alessia Malerba. La sua formazione inizia da adolescente ma la sua passione emerge ancor prima fin dalla tenera età. Tramite borsa di studio entra poi a far parte dell'Actor's planet di Rossella Izzo. Noi di Close-Up l'abbiamo intervistata in esclusiva.

Giulia, quando e come nasce la tua vera passione-predisposizione-indole per la recitazione?

Voglio citare una frase di Anna Magnani, mia grande ispiratrice, per rispondervi: “ho capito che ero nata attrice, avevo solo deciso di diventarlo nella culla...” Fin da bambina mia madre mi diceva che avevo una particolare personalità, ero a tratti estroversa e a tratti timida. Si accorse probabilmente che ero una bimba molto sensibile e così decise di parlarmi dell'arte attraverso le sue forme. Iniziai a tre anni a studiare danza classica, nella quale ci trovai un meraviglioso mondo da esplorare. Una grande tela su cui disegnare le proprie emozioni attraverso passi di danza. Poi casualmente a distanza di tempo venni scelta da un regista per uno spettacolo teatrale, da lì presi consapevolezza di quello che realmente mi faceva sentire nel posto giusto e iniziai a studiare recitazione con le possibilità che ti offre una città come Palermo. Appena compiuti 18 anni, grazie alla borsa di studio per l'Actor's Planet di Rossella Izzo fu l'occasione giusta per fare i bagagli e trasferirmi a Roma. Da lì iniziò tutto nel giro di pochi mesi...

Qualche aneddoto piacevole legato al set dell'Isola Di Pietro?

L'isola di Pietro ha rappresentato per me il primo step importante verso quello che era ed è il mio obiettivo. È stato un set a dir poco adrenalinico, l'ho vissuto intensamente e ci siamo divertiti moltissimo. Un aneddoto divertente che ricordo (Gianni Morandi a parte con le sue canzoni improvvisate e le lezioni di canto) fu in un day off in cui con altri quattro ragazzi della fiction decidemmo di uscire con la barca in quel di Santantioco (Sardegna); la produzione si era raccomandata di non fare niente di pericoloso che potesse compromettere la serie. Beh, siamo tornati color peperone con tanto di ustione. La produzione si arrabbiò ma quanto ci divertimmo quel giorno non lo dimenticherò mai. Sicuramente, posso dire di aver imparato la lezione!

C'è un lungometraggio appena uscito e prodotto da SeDici Cinema dove sei l'attrice femminile protagonista e che vanta la partecipazione straordinaria della cantante ‪Tiziana Rivale‬. Ci parli di questo film?

Lettera H è un film che ho molto a cuore per diversi motivi. Primo fra tutti perché è il mio primo film da protagonista (e il primo non si scorda mai). Abbiamo girato di notte in un bosco a Novembre con due gradi; ho imparato a non sentire il freddo, a sentirmi parte integrante con lo spazio che mi circonda. Ho amato quel bosco, era quasi diventato il mio habitat, in alcune scene dovevo stare stesa sul terriccio freddo e umido del bosco in un periodo invernale e come capita di frequente che una scena venga girata 4 o 5 volte se non di più…Ricordo che fui persino vittima di una reazione allergica cutanea. Eppure in quei momenti sul set stavo bene, non sentivo nulla nemmeno quelle normali sensazioni di fastidio che in un altro momento mi avrebbero pervasa. Ho vissuto questo film molto intensamente e non mi sono limitata in niente. Se Patty doveva essere stanca doveva esserlo realmente, se doveva gridare doveva farlo realmente, se aveva paura quella paura dovevo viverla realmente, così come l'amore con Seba desideravo che si percepisse realmente.

L'ultimo "traguardo" per Lettera H si è tenuto in Abruzzo. Che riconoscimento ha ottenuto là e nello specifico in quale kermesse?

Ci ha colti di sorpresa quest'ultima vittoria all'Abruzzo horror film festival nel quale lettera H ha vinto come miglior film e un premio da 1000 €. Pensare che quel giorno non volevamo neppure andare, pensando di non aver vinto nulla...Completamente inconsapevole di questa splendida vittoria.

Ci racconti brevemente la trama di Lettera H?

Seba e Patty sono due amanti sfortunati, soli contro tutti. Seba ha un passato turbolento, lavora e vive in un'officina; Patty è più giovane, in continuo contrasto con la sua famiglia per la relazione con uomo più grande di lei e dai trascorsi non proprio raccomandabili. Dopo una festa, i due salgono sulla 127 restaurata di lui e vanno ad appartarsi in un bosco fuori città. Dove poi succederà l'imprevedibile.

Passando al nuovo progetto cinematografico dove sei una ragazza di nome Salina, è stato complicato interpretare questo ruolo? Se e cosa ti è piaciuto di lei?

Interpretare Salina non è stato affatto complicato. Nonostante il personaggio sia molto lontano da me devo dire che parte di esso l'ho ritrovato in alcune mie sfaccettature caratteriali. E per la precisione la 'chiave' del personaggio l'ho trovata grazie ad un evento particolare che mi è accaduto.

Come ti sei trovata con gli altri colleghi e con la troupe?

Sarò stata fortunata ma al momento non mi sono mai trovata male con nessuna troupe con cui ho lavorato. Specialmente in quest'ultima esperienza ho avuto due compagni fantastici. Con Daniela Poggi siamo diventate grandi amiche e ci sentiamo spesso.

Ci sono prossimi progetti in cantiere?

Non vedevo l'ora di rispondere a questa domanda. Sì c'è una novità bellissima ed imminente. Sarò in scena al Teatro Golden di Roma dal 17 Dicembre al 12 di Gennaio nello spettacolo “Doppio Misto” una produzione LSD edizioni con la regia di Claudio Piccolotto accanto alla splendida Milena Miconi, al grande Marco Fiorini e a Danilo de Santis. C'è anche un'altra cosa in cantiere ma per il momento non posso svelarvi altro.



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Gli anni più belli: ecco il trailer ufficiale del nuovo film di Gabriele Muccino

A due anni esatti dal successo di A Casa tutti bene, il regista torna al cinema dal 13 febbraio prossimo con il suo nuovo film che vede protagonisti Pierfrancesco Favino, Micaela Ramazzotti, Kim Rossi Stuart e Claudio Santamaria.

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Volevo nascondermi: la prima immagine del film in cui Elio Germano è Antonio Ligabue


Diretto da Giorgio Diritti, il biopic sul pittore del Po arriva in sala a febbraio.

Volevo nascondermi è il film che Giorgio Diritti ha dedicato al pittore Antonio Ligabue, che dipingeva tigri, gorilla, leoni e giaguari vivendo negli sconfinati pioppeti delle golene del Po. Fu una delle figure più interessanti del XX° secolo, dapprima un bambino con il carattere difficile che non visse mai con la sua vera famiglia, poi un giovane uomo ribelle ricoverato più volte in ospedali psichiatrici, infine un pittore e scultore che si mise all'opera già negli anni '30, raggiungendo la sua fase più creativa e prolifica e diventando famoso negli anni '50. Il film, come sappiamo, arriverà nelle nostre sale nel mese di febbraio prodotto da Palomar con Rai Cinema e distribuito da 01 Distribution.

A interpretare il protagonista di Volevo Nascondermi è Elio Germano, di cui vediamo le mani nella prima foto di scena del film, mani sporche, di un uomo che amava giocare con i colori e mescolarsi con la natura. Volevo nascondermi è stato girato a Reggio Emilia e nel territorio limitrofo e riporta Germano davanti alla macchina da presa dopo l'originale L'uomo senza gravità.

Giorgio Diritti, originario come Ligabue dell'Emilia Romagna, torna al cinema a 8 anni di distanza da Un giorno devi andare. Prima aveva diretto Il vento fa il suo giro e L'uomo che verrà.



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Piccole Donne: anticipata al 9 gennaio la data d'uscita!


Il film di Greta Gerwig dal romanzo di Louisa May Alcott arriverà 3 settimane prima del previsto.

E’ con grande piacere che in quest'ultimo venerdì di novembre vi diamo una bella notizia. Piccole Donne, l'attesa trasposizione cinematografica del romanzo di Louisa May Alcott ad opera di Greta Gerwig ha una nuova data d'uscita: il 9 gennaio. Inizialmente il film con Saoirse Ronan e Timothée Chalamet doveva arrivare il 30 gennaio, e cioè più di un mese dopo rispetto all'uscita USA, prevista per il 25 dicembre. Probabilmente l'anticipo è dovuto alla crescente aspettativa che circonda l'opera seconda della regista di Ladybird, di cui, già da un po’, si dice un gran bene, come vi avevamo raccontato in un articolo sulle prime reazioni dei critici a Piccole Donne. A quel plauso quasi unanime si è unito, di recente, l’apprezzamento di Gillian Anderson, la regista della versione del 1994 (con Winona Ryder e Christian Bale) che via Twitter ha dichiarato tutta la sua stima per una Gerwig meritevole dell'Oscar.

Interpretato anche da Emma Watson, Florence Pugh, Eliza Scanlen, Laura Dern, Bob Odenkirk, Meryl Streep, Louis Garrel, Chris Cooper e James Norton, Piccole Donne racconta la storia delle sorelle March e dei loro affetti nel New England di fine '800. L'azione comincia nel 1880. Benché in costume, il film ha molti legami con l'oggi ed è, da quello che abbiamo letto, anche un po’ femminsta, nel senso che, attraverso il personaggio di Jo, difende il diritto delle donne di inseguire i loro sogni professionali e la loro indipendenza anteponendole alla necessità di essere mogli e madri.



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Harry Potter: la magia rivive a Roma e Milano con due Film Concert


Sei appuntamenti imperdibili il 27 e 28 dicembre al Teatro degli Arcimboldi, e il 29 e 30 dicembre all'Auditorium Parco della Musica, con Il Calice di Fuoco, Il Prigioniero di Azkaban e l'Orchestra Italiana del Cinema diretta da Timothy Henty.

Sono passati quasi 10 anni dalla conclusione di una delle saghe cinematografiche di maggior successo di questo inizio di secolo. Nel 2011 arrivava, infatti, sul grande schermo Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 2, l'ultimo film in cui milioni di fan di tutto il mondo hanno potuto assistere alle gesta del celebre mago creato dalla penna di J.K. Rowling.
Nel frattempo, la magia di Harry Potter ha continuato a vivere in diversi modi, sotto forma di pubblicazioni, di spin-off cinematografici ed eventi speciali, che hanno coinvolto dal vivo centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo. Tra questi ci sono i Film Concert, la proiezione dei film della saga con l'esecuzione della colonna sonora dal vivo in sincronia con le immagini e i dialoghi.
Il tour mondiale della Harry Potter Film Concert Series è stato lanciato nel 2016 da CineConcerts e Warner Bros. Consumer Products per celebrare i film di Harry Potter. Dalla prima mondiale di Harry Potter e la Pietra Filosofale in concerto a giugno 2016, oltre 1.3 milioni di persone hanno apprezzato questa magica esperienza dal JK Rowling's Wizarding World, con oltre 900 spettacoli in più di 48 paesi del Mondo.

La magia sta per ripetersi per i fan italiani, e le festività di fine anno saranno un'occasione anche per celebrare l'amato maghetto di Hogwarts, grazie a 6 imperdibili appuntamenti con le immagini e le musiche di Harry Potter, a Roma e a Milano.
Dopo i sold out degli scorsi anni, l'Orchestra Italiana del Cinema torna per eseguire dal vivo le colonne sonore dei film in sincronia con le immagini e i dialoghi: a dirigere i sei concerti, tre a Milano in anteprima nazionale (HARRY POTTER E IL CALICE DI FUOCO IN CONCERTO, 27 e 28 dicembre, Teatro degli Arcimboldi), tre a Roma in prima romana (HARRY POTTER E IL PRIGIONIERO DI AZKABAN IN CONCERTO, 29 e 30 dicembre, Auditorium Parco della Musica) sarà un unico direttore, il britannico Timothy Henty.

"Siamo molto orgogliosi per il quarto anno di seguito – afferma Marco Patrignani, presidente dell’Orchestra Italiana del Cinema – di poter trasmettere la magia di un’esperienza unica che rappresenta la perfetta simbiosi tra cinema e musica e riesce a far conoscere a diverse generazioni il significato e la valenza espressiva di una colonna sonora all’interno di un film. Ringraziamo la Cine-concerts, ed il suo fondatore Justin Freer, che ha magistralmente diretto la nostra compagine sinfonica in altri episodi della serie, per averci dato l’opportunità di portare nel nostro Paese l’intero ciclo di Harry Potter in concerto, permettendoci di sperimentare da vicino una formula di assoluto successo."



I biglietti per i sei concerti sono acquistabili alle biglietterie dei due teatri

Teatro degli Arcimboldi
Viale dell'Innovazione 20, Milano
Infoline: + (39) 02 641142200

Auditorium Parco della Musica - Roma
Sala Santa Cecilia
Viale Pietro de Coubertin, 30 - 00196 Roma
Infoline Tel. (+39) 06 80241281

o disponibili online sul circuito Ticket One: www.ticketone.it.

Per maggiori informazioni :
Orchestra Italiana del Cinema: www.orchestraitalianadelcinema.it
 



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