venerdì 31 agosto 2018

Venezia 75 - Three Adventures of Brooke - Giornate degli autori

Per tre volte, sullo scorcio di una stradina di Alor Setar, in Malaysia, una giovane donna è costretta a scendere dalla sua bici perché ha forato.

La prima volta, a inizio film, è una giovane turista che arriva nel paesino guidata dalla noia. La aiuta a riparare la gomma Ailing, una coetanea dall'umore allegro e dall'incredibile disponibilità che, dapprima se la porta a casa, poi letteralmente le sistema la camera d'aria e quindi comincia a portarla in giro preoccupandosi di ogni suo bisogno.
La seconda volta, a circa mezz'ora di proiezione, la giovane donna, che si chiama sempre Brooke, è invece un'antropologa stanca del suo lavoro di ricerca. La aiutano tre ragazzi più o meno coetanei che stanno pensando a una ristrutturazione delle parti più vecchie di Alor Setar e che guardano con curiosità ai suoi studi.
La terza volta, invece, la protagonista è una vedova che non trova nessuno ad aiutarla sulla strada, ma che incontra, proprio nel negozio di riparazioni, un anziano scrittore francese, Pierre, con cui si trova stranamente a suo agio.

Tre storie, tre destini che fanno capo a un solo personaggio interpretato (molto, ma molto bene) da una sola attrice.
Ogni storia comincia il 30 giugno e dura lo spazio di appena qualche giorno. Ogni destino apre nella città scorci diversi. Ogni situazione si condensa in toni e atmosfere distinti: dalla commedia più leggera al racconto descrittivo al dramma psicologico.
L'insieme, invece, compone, con spirito filosofico, un affresco sulla capricciosità del caso che ci mette di fronte infinite possibilità d'incontro che solo raramente sappiamo cogliere.
Soprattutto, nel riprendere ogni volta il racconto con un personaggio diverso eppure uguale, ci mette di fronte al nostro disperato solipsismo, al nostro considerarci e, in fondo, essere niente più che monadi isolate al centro di un universo che ci sfugge anche se è, in quanto frutto della nostra percezione, nostro e solo nostro.

Così vuoi che si parli solo di un piccolo giallo sorto intorno a un gioiello acquistato poi forse rubato e quindi ritrovato, o che ci si trovi di fronte alla scoperta di luoghi e delle loro storie, o, infine, che ci si trovi di fronte alla difficoltà di aprirsi di nuovo e affrontare il proprio lutto, non cambia la sostanza del film, ma solo la sua struttura più epidermica.

Three Adventures of Brooke è un film che si sbuccia come una cipolla sullo sgomento che proviamo di fronte alla vita che è triste anche se bellissima. Con questa malinconia nello sguardo che invera ogni momento - anche quello apparentemente più spensierato - il film riverbera la sua luce come il gioiello che Brooke compra nel primo segmento narrativo: bellissimo all'esterno, nasconde una lacrima all'interno. E, per capriccio della nostra personale vanità, ci sembra più bello ed importante quanto più alto è il prezzo del commerciante che ce lo vende.

Ha lo spirito della filosofia piana dei racconti morali, questo film Yuan Qing, regista che non nasconde la sua venerazione per Rohmer.
E del maestro francese si trova molto in questa fantasia delicatissima: dal rapporto tra personaggio e città magnificato nel secondo segmento dominato dallo spirito dell'antropologia, ai dialoghi leggeri, scritti in punta di penna, che sanno anche concedere spazio a un silenzio spesso più eloquente di mille parole e di stampo squisitamente orientale.
Come pure non manca il disincanto leggero che sa stupirsi delle possibilità altre che ci danno gli incontri che dovremmo accettare sempre con apertura grata all'altro, come dicono i tarocchi consultati da Brooke per ben due volte, nel primo ed ultimo frammento: due diverse aperture di carte che ricevono comunque lo stesso identico responso.

Il tutto a rendere un film sensibile e profondo nella sua disarmante semplicità, in cui lo sguardo aperto al futuro confina con la dolcezza della notte e con la meraviglia. E se per Rohmer questa magia aveva un nome ed era Raggio verde, qui si chiama lacrime blu ed è l'ultima luce a un passo dal silenzio.

Per essere un'opera prima Three Adventures of Brooke è davvero notevole, pur nei suoi debiti col cinema francese che, però, non appesantiscono e anzi costituiscono un motivo di fascino malinconico.
Speriamo trovi presto un distributore anche qui da noi.

(Three Adventures of Brooke); Regia: Yuan Qing; sceneggiatura: Yuan Qing; fotografia: Zhu Jinjing; montaggio: Yuan Qing; musica: Howie B, Andrew Lok; interpreti: Xu Fangyi (Brooke), Pascal Greggory (Pierre), Ribbon (Ailing), Kam Kia Kee (Fong), Allan Toh Wei Lun (Chi Tong), Lim Yi Xin (Captain), Zhan Zizhen (Zhen), Andrew Lok (Uncle Land); produzione: Beijing Beauty Culture Communication, Mil Production, Boxin Media; origine: Cina, Malaysia, 2018; durata: 100'



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Venezia 75 - The Ghost of Peter Sellers - Giornate degli autori

Nel 1973 Peter Medak è un giovane regista avviato decisamente sulla strada del successo. Ha girato nell'arco di appena cinque anni tre pellicole acclamate da pubblico e critica. Tra i produttori gli è riconosciuta un'indubbia capacità di dirigere gli attori e una certa professionalità che gli permette di rimanere nelle tabelle previste senza che il budget complessivo lieviti eccessivamente. Insomma: una garanzia economica coniugata a un certo estro visionario che non disdegna cimentarsi con un genere particolarmente in voga a ridosso del '68 come la commedia nera.
Del resto il film dell'anno precedente, il 1972 è La classe dirigente, con Peter O'Toole, presentato addirittura a Cannes.
Il 1973 si annuncia, quindi, come l'anno della svolta. Gli viene infatti proposto un paradossale film di pirati. Star della pellicola è Peter Sellers, autore dei dialoghi aggiunti e attore a sua volta, è un altro grande genio della comicità non solo anglosassone, Spike Milligan.
Per un autore al suo quarto film una prospettiva del genere non può che essere allettante per cui Peter Medak, forte delle belle promesse dei suoi esordi, firma il contratto, ma i problemi non tardano a palesarsi.
Sellers, all'inizio allettato dal progetto, si disinteressa che ancora la sceneggiatura non è finita. Lo stesso Medak non ha mai girato in mare e non è del tutto preparato ad affrontare le riprese che lo aspettano. I produttori poi non sanno bene come muoversi con un materiale così esplosivo. L'unica cosa che c'è sin da subito sono, come qualche volta accade, i soldi. E non è un bene dal momento che la presenza dei capitali spinge tutti a partire con l'idea che i problemi si risolveranno strada facendo.
In corso d'opera, invece, gli incidenti si moltiplicano e, all'iniziale disinteresse della star si aggiunge la delusione cagionata dalla fine della sua brevissima storia con Liza Minelli che lo getta in uno sconforto senza pari.
Dalla svogliatezza al sabotaggio vero e proprio il passo e sin troppo breve e i capricci di Sellers pregiudicano pesantemente la produzione del film. Primi a cadere sono proprio i produttori, licenziati in men che non si dica. Poi cade nella trama il collega e amico Tony Franciosa: insofferente al diktat del più grande comico del mondo, viene estromesso se non dal film almeno dalle inquadrature che avrebbe dovuto girare insieme a lui. Ne risultano situazioni incongrue come un duello con la spada tra i due attraverso una botola sul ponte della nave, con Sellers invisibile sotto e Franciosa gigionesco in favore di macchina. Peter Medak da parte sua tiene duro anche perché ha una figlia nata da poco e i soldi del lavoro lui li prende solo alla consegna del film. Ma è difficile con un attore che arriva sempre tardi sul set e, a un certo punto, approfittando del suo cuore malandato, finge addirittura un attacco cardiaco.
Alla fine Ghost in the Noonday Sun, questo il titolo dello sfortunato film, viene anche completato, ma mai distribuito nelle sale.

A quaranta anni da questo insuccesso clamoroso, Peter Medak torna sui suoi passi e racconta, in The ghost of Peter Sellers, la storia tragicomica di un set che non avrebbe mai dovuto essere aperto.
Il racconto picaresco delle disavventure del film, però, è solo il punto di partenza per una riflessione sul senso stesso del fallimento e sulla difficoltà di affrontare i propri fantasmi personali che per Medak non sono solo quelli della lavorazione di un film, ma anche quelli che gli arrivano da lontano, dal passato familiare, dalla morte del fratello e poi del padre, dal suicidio della moglie, dalla sua condizione di ebreo durante l'invasione dell'Ungheria e dai complessi di colpa che da tutti questi lutti discendono copiosi.

Il passo dall'individuale all'universale viene compiuto con leggerezza mentre il tono resta sempre nel composto clima di una rievocazione che miscela insieme nostalgia e candore, ironia e lacrime.
Ripercorrere luoghi e incontrare persone, poi, sposta l'ago della bilancia del documentario dal semplice racconto a una riflessione sul senso stesso del cinema e sulla persistenza della memoria così che sconvolge ritrovare certi set esattamente come li si era lasciati quaranta anni prima, mentre fa sentire piccoli ritrovarsi a ripercorrere una storia in fondo banale in mezzo alle colonne di Cipro vecchie di tremila anni.

Così The Ghost of Peter Sellers supera rapidamente la dimensione del racconto di un fallimento che ha pregiudicato un'intera carriera (Medak fu lungamente costretto al ripiego) per diventare una riflessione sul senso stesso del cinema che scolpisce il tempo lasciandosi dietro commoventi simulacri.
Bellissima riflessione ai tempi delle Fake news.

(The Ghost of Peter Sellers); Regia: Peter Medak; fotografia: Christopher Sharman; montaggio: Joby Gee; musica: Jack Ketch; con: Peter Medak, Simon van der Borgh, John Heyman, Murray Melvin, David Korda, Victoria Sellers, Joe Dunne, Robert Wagner; produzione: Vegas Media; origine: Cipro, 2018; durata: 93'



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Venezia 75 - Friedkin uncut - Venezia classici

William Friedkin è sempre stato un regista di rottura.
Mai integrato al sistema, sempre in qualche modo un outsider, sempre pronto a infrangere qualcuna delle regole non scritte dell'industria, eppure capace, contro ogni previsione, di sfornare alcuni dei più grandi successi planetari di tutti i tempi.

Al cinema ci arriva quasi per caso, dopo una lunga gavetta in televisione. E anche qui non è che trovi la strada spianata: all'inizio comincia a lavorare nello smistamento della posta e solo in un secondo tempo, scalando la vetta, comincia ad apprendere i primi rudimenti del linguaggio del cinema.
A differenza della maggior parte degli autori suoi coetanei, quindi, lui non si formato a una scuola di cinema. Il mestiere lo ha appreso sul campo, ed è un mestiere ruvido, scevro da orpelli intellettualistici e, sin dall'inizio, affamato di realtà.

Poi l'esordio quasi per caso: si trova ad una festa di quelle a cui avrebbe preferito non andare e si siede vicino a un sacerdote. Ci chiacchiera. Del più e del meno. E scopre che presta servizio nel braccio della morte e che non pensa che proprio tutte le persone condannate alla sedia elettrica siano colpevoli. Anzi, proprio in questi giorni ha a che fare con uno che è convinto sia innocente.
È questo il punto di partenza di The People Vs. Paul Crump, primo documentario di Friedkin. Un film che, signore e signori, non vuole essere un semplice documentario, ma ha l'ambizione di cambiare il mondo. E di fatto riesce a far riaprire il caso e a sospendere e poi annullare una pena di morte che sembrava scritta sul marmo.

Il documentario a Friedkin nemmeno piace tanto, a dirla tutta. A rivederlo col senno di poi, confessa a un certo punto di Friedkin uncut, ci sono non pochi errori, ma è un primo passo già all'insegna di quella che sarà forse la cifra distintiva più continua di un cinema che si è espresso in tanti modi, cavalcando i generi più disparati: l'ansia di verità, il bisogno di restare coi piedi incollati sul Reale. Un bisogno, un'urgenza quasi, che resta centrale anche in un film come L'esorcista che è un horror, ma che, ci dicono un po' tutti gli intervistati di questo film "all star", comincia piano, all'insegna del quotidiano.

Da qui ad Hollywood il passo è stranamente breve e Friedkin uncut ce lo racconta celandolo in ellisse. Non una parola quindi, sull'apprendistato ancora televisivo negli Alfred Hitchcok presenta, né un cenno ai primi film assegnatigli d'ufficio per testare il suo polso da regista. Si tace anche di Festa di compleanno per il caro amico Harold che, nel 1970, affronta di petto quel mondo omosessuale che poi sarà al centro di Cruising.
Esordi di poco interesse se li si paragona alla compiutezza assoluta de Il braccio violento della legge e del successivo L'esorcista che si prendono la maggior parte dello spazio di questa commossa e al tempo stesso ironica rievocazione di una carriera lunga e importante.

Poi in rapida successione ecco scorrere i titoli magnifici di un magistero grande. Tutto raccontato dallo stesso regista che sa raccontare così bene che spesso sembra prendere per mano lo stesso Francesco Zippel che è il fortunato regista di questo documentario niente male.
E, in fondo, è proprio lui, Friedkin, a condurre il gioco sin dal primo caffè che si fa, entrando in casa, quando il ciak ancora non l'ha battuto nessuno.

Friedkin uncut dura un centinaio di minuti, ma sembrano pochi tanto scorre bene davanti agli occhi del pubblico. Dice forse poco sul regista, ma moltissimo sull'uomo e sulle sue ossessioni. E aiuta a gettare una luce inedita su film che hanno segnato la storia del cinema in maniera profonda.
Soprattutto ci mette di fronte a un regista consapevole del suo lavoro che non si sperde in proclami di falsa modestia solo perché dice le cose semplicemente come stanno.

E non è bugia che i capolavori di Friedkin, come lui stesso afferma, sono prima di tutto espressione di un'urgenza di racconto che non scende a compromessi. Che non c'è politica o polemica nelle sue scelte di regista, ma solo bisogno di sondare fino a che punto ci si può spingere tra gli estremi assoluti di Hitler e Gesù. E che, in fondo, per ogni storia conta più di tutto il vero anche se questo comporta imparare a falsificare banconote o a far sfrecciare una macchina nel traffico vero di New York se questo è quel che succede nel racconto.

Solo per questo, e non per altro, guardare i suoi film più vecchi oggi è come aprire una capsula del tempo per ritrovarci dentro non l'atmosfera, ma la concretezza.
Di questo siamo grati a Friedkin uncut. Perché ci ha messo davanti un uomo anche se stava stampando un mito.

(Friedkin uncut); Regia: Francesco Zippel; sceneggiatura: Francesco Zippel; fotografia: Carlo Alberto Orecchia, Giuliano Graziani, Dado Carillo, Marco Tomaselli, Powell Robinson; montaggio: Mariaromana Casiraghi; musica: Costanza Francavilla; interpreti: William Friedkin, Ellen Burstyn, Gina Gershon, Juno Temple, Wes Anderson, Dario Argento, Samuel Blumenfeld, Damien Chazelle; produzione: Quoiat Films; origine: Italia, 2018; durata: 106'



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The Ballad of Buster Scruggs: recensione del film dei fratelli Coen in concorso al Festival di Venezia 2018

Il western visto dai fratelli Coen in sei episodi, che però finiscono anche col comporre un film scanzonato e metafisico sulla morte e sulla vita.

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A Star is Born: recensione dell'esordio alla regia di Bradley Cooper che recita al fianco di Lady Gaga


Ci sono film figli di un patto chiaro fra creatività. È questo decisamente il caso, spinto all’evidenza assoluta, ma anche reso credibile da una chiara sincerità di fondo, di A Star is Born. Il ritorno/remake di un classico canovaccio del cinema americano, quello della scoperta di un talento musicale nascosto nell’anonimato di una vita molto comune, nasce dalla passione di Bradley Cooper per la musica, e per questa storia, e dalla speculare passione di Lady Gaga per la recitazione. La regia è l’esordio del quattro volte nominato all'oscar, che ha reso il suo ruolo, quello dello scopritore, almeno tanto importante quanto quello della stella che nasce. Se Lady Gaga si è affidata all’esperienza dell’attore Cooper, quest’ultimo si è lasciato consigliare dalla grande cantante. 

“Tanta gente ha talento, la differenza la fa se hai qualcosa da dire”, dice il cantante Jackson Maine, con look, capelli, barba e anche voce roca che rimandano a Eddie Vedder, quando ascolta per caso la giovane cameriera Ally, performance occasionale in un piccolo locale, durante una serata drag queen. “Devi essere te stessa, metterti a nudo, se vuoi durare”, aggiunge nel momento in cui la sua protetta, e nel frattempo amata, sta per esplodere con l’album d’esordio. 

Un'ossessione per la sincerità, per la musica che deve venire dal cuore, onnipresente nel film, tanto da insistere rispetto alla storia originale su alcune scene e svolte narrative drammatiche. Le parabole dei due artisti si muovono in versi opposti: lui è una stella che sta soccombendo all’abuso di alcol e droghe, lei è appunto nascente e da spaventato bruco vogliosa di spiccare il volo come farfalla. I due si incrociano, ritrovando una comune fragilità e l’amore per la performance pura, quella figlia dell’urgenza di comunicare, di dire cose che si sentono nelle viscere. 

Non sembra casuale, però, l’adattamento delle storia alle caratteristiche della Gaga performer, non solo cantante. Il cantautore senza fronzoli Jack inizia a vedere con sospetto l’aggiunta di orpelli estetici propugnati dal giovane manager molto in voga di Ally, che vuole lanciarla con ballerine, capelli platino, balletti e un personaggio più in linea con i gusti pop attuali. Chissà che non sia un percorso di autoanalisi anche per l’amante dell’eccessivo Lady Gaga, brutto anatroccolo che si nasconde dietro maschere e coreografie, che forse proprio grazie ad Ally potrebbe rendersi conto come sia al suo massimo senza trucco, aiutata solo dalla sua voce e dal suo indubbio carisma, quello che trasforma il talento in una formula magica per pochi eletti. Il film lo dimostra, anche grazie a una delle migliori performance di Cooper, cantante dalle insospettabili capacità.

Sono loro due che rendono A Star is Born qualcosa di più rispetto a una (ben nota) storia convenzionale di ascesa e caduta di due artisti alle prese con la celebrità, spesso poco in sintonia con il talento. 



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VENEZIA 75 - I CineCocktail tornano a Venezia con Anna Ferzetti, Fabio Canino e Laura Luchetti

Definiti "il salotto cinematografico d'eccezione" da La Stampa, "i migliori faccia a faccia del panorama cinematografico" da Cinema Italiano e "tra i migliori eventi della Mostra di Venezia" da Huffington Post, tornano per il settimo anno a Venezia i CineCocktail - Incontri ravvicinati del miglior tipo: cinema, cocktail e chiacchiere in libertà, ideati e diretti dalla giornalista e scrittrice Claudia Catalli.

Al centro dell'incontro, realizzato con STUDIO UNIVERSAL (Mediaset Premium HD), il cortometraggio di animazione Sugar Love di Laura Luchetti. Ennesima dimostrazione dell'attenzione che i CineCocktail riservano agli autori emergenti più talentuosi: sono stato ospiti, nelle varie edizioni, Enrico Maria Artale, Claudio Di Biagio, Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, Valentina Pedicini, Giorgio Amato e persino Edoardo De Angelis al suo primo film.

"L'idea resta la stessa da sette anni - dice Catalli, ideatrice e conduttrice del format - Allargare il dibattito sul cinema e creare un momento di incontro collettivo aperto a tutti, artisti, critici e appassionati, in un'atmosfera informale in cui non esistono celebrities. Esiste la voglia di condividere e confrontarsi in piena libertà, al di là degli schermi e degli schemi".

Al CineCocktail @ Venezia 75
presentato da STUDIO UNIVERSAL

parteciperanno
Fabio Canino, Anna Ferzetti, Laura Luchetti

Sabato 1 settembre – ORE 17.00
Terrazza Biennale by Campari
Lungomare Marconi di fronte al Palazzo del Casinò – Lido di Venezia



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Frozen 2: Elsa la prima principessa gay della storia Disney?

Secondo alcune voci, una speranza della comunità LGBT potrebbe diventare realtà. Ma sarà vero?

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Ritorno a Hogwarts: nuovo video speciale per Animali Fantastici - I Crimini di Grindelwald

Domani, come ogni primo settembre, parte l’Hogwarts Express dal binario 9¾ della stazione di King's Cross.

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Roma, 15 settembre: alla Scuola delle Arti, festa di presentazione dei corsi d'arte e musica 2018/2019

Si tiene sabato 15 settembre 2018, a partire dalle ore 18:00 e fino alle ore 21:00 a ingresso gratuito e aperto al pubblico di ogni età, presso la Scuola delle Arti di Roma di via G.B.Tiepolo 13/a, nella zona Flaminio, la festa di presentazione dei corsi d'arte e musica 2018/2019.

Come novità di quest'anno, verranno presentati i corsi di Illustrazione e Flauto traverso, a cui si aggiunge il Laboratorio di Scrittura Creativa.

I corsi, sia per adulti che per bambini, di Pittura, Disegno, Scultura e Ceramica al Tornio, Violino, Chitarra, Pianoforte e Canto saranno presentati dai rispettivi artisti-insegnanti e si svolgeranno presso la sede della scuola. Per ogni corso sarà possibile usufruire di una lezione gratuita di un'ora e per ogni partecipante sarà svolto un colloquio conoscitivo. Tutte le informazioni saranno visibili al sito www.piccolascuoladellearti.com e al gruppo facebook: https://it-it.facebook.com/pages/Pi.... La festa di presentazione, che avrà un apertivo-buffet, sarà illuminata da un piccolo concerto nel cortile della scuola tenuto dagli artisti-insegnanti dei corsi di musica.

"Caratteristica principale e fondamentale della Scuola delle Arti - sottolinea la direzione artistica - è disporre, come Associazione Culturale, di un corpo docente formato da artisti professionisti che, oltre a insegnare la tecnica, introducono una nuova concezione didattica, rendendo l'allievo libero di realizzare una personale ricerca sull'Arte".

Per maggiori informazioni
www.piccolascuoladellearti.com
piccolascuoladellearti@gmail.com



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Venezia 75 - Why Are We Creative? - Giornate degli autori

Ci pensa il mai troppo compianto David Bowie, a inizio film, a dare le direttive di quella che sarà poi la struttura portante di Why are we creative?
Nel chiarire la sua sostanziale resistenza ai percorsi lineari, infatti, il duca bianco non risponde semplicemente alla domanda se si consideri più un artista narrativo o non sia invece più vicino a un linguaggio sperimentale, ma in qualche modo invita tanto l'autore quanto lo spettatore ad abbandonarsi al capriccio delle libere associazioni.
Ed è proprio una costellazione di accostamenti Why are we creative?, un film che ha origini lontane nel tempo, come lontana, appare, a fine proiezione, la sua stessa conclusione. Ma procediamo con ordine.

Hermann Vaske, creativo tedesco, produttore e anche regista di svariati documentari, comincia ad accarezzare il progetto di Why are we creative? almeno una trentina di anni fa, dopo una chiacchierata con gli amici intorno a un fuoco sul lavoro e le passioni di ciascuno. È lì che improvvisamente, guardando il cielo, arriva inaspettata un'illuminazione: perché perdersi dietro a tante piccole domande inutili? Perché non concentrare la propria attenzione sull'unica vera domanda che in fondo le contiene tutte? Perché quindi non cominciare a chiedere e a chiedersi perché siamo creativi?
Dalla domanda iniziale alla realizzazione il passo non è così breve come sembra.
In fondo - come emerge da alcune interviste - la scintilla della creatività alberga in ciascuno di noi. Altra cosa, invece, far sì che quella che è solo un'idea diventi "oggetto". Vaske ha bisogno di qualche incoraggiamento in questa direzione. Poi il lavoro prende il largo e l'autore di Why are we creative? comincia un suo personale viaggio in giro per il mondo con un paio di telecamere a chiedere a tutte le persone di un certo valore artistico il motivo della loro creatività.

Sotto l'occhio vigile di telecamere che, nel corso di trenta anni, passano dall'analogico al digitale con conseguente dislivello qualitativo tra una ripresa e l'altra, scorrono nomi di tutto rispetto: attori, cantanti, scrittori (in minor numero, a dirla tutta), fotografi, registi, disegnatori. Ognuno risponde come può alla domanda apparentemente banale. Qualcuno si avventura su sentieri di complessa filosofia. Qualcun altro si limita a una scrollata di spalle o a disegnare un buco nero con un evidenziatore giallo (è Sean Penn).

Why are we creative? non aspira a fornire una risposta. È piuttosto un invito a perdersi nella babele delle risposte possibili, anche se, in barba alla legge capricciosa del percorso associativo, una certa tentazione al lineare la garantisce il fatto che gli ultimi intervistati siano il Dalai Lama e Stephen Hawking.

Il viaggio, che è infinitamente più bello e sensato della possibilità di arrivare da qualche parte, è intrigante nella sua causalità casuale. Ed è proprio in questo binomio che risiede il maggior pregio e anche il limite di un'operazione del genere.
Perché al di là del fatto che una risposta risulta alla fine impossibile, quel che un po' dispiace di Why are we creative? è forse, proprio il fatto che non apra molto spazio anche ad altre possibili domande.
Così, se è vero che è un piacere ascoltare così tanti pareri, montati poi con estro e spirito divertito, è anche vero che poi il gioco sembra perdere per strada le dimensioni meno innocue che pure si intravedevano all'orizzonte per chiudersi, alla fine, nell'autoreferenzialismo.
In questo modo quell'ora e venti della proiezione sembra volare, ma ci lascia alla fine a terra con poco su cui riflettere davvero.

(Why Are We Creative?); Regia: Hermann Vaske; sceneggiatura: Hermann Vaske; fotografia: Evgeny Revvo, Patricia Lewandowska, Sasha Rendulic; montaggio: Marie-Charlotte Moreau; musica: Teho Teardo, Blixa Bargeld; produzione: Emotional Network Production; origine: Germania, 2018; durata: 82'



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VerticalMovie e lo sport a fianco della FIDAL

Il primo Festival di video girati in verticale si svolgerà dal 20 al 23 settembre prossimi a Piazza del Popolo a Roma.

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Roma, 1 settembre: il talent Gay Village Academy a caccia della vincitrice

Hanno affrontato le dive della musica come Whitney Houston, Celine Dion, Aretha Franklin; hanno addomesticato le colonne sonore e i cavalli di battaglia della storia del cinema; hanno interpretato il meglio della disco anni '90; hanno dato sempre il meglio che potevano e in questo primo sabato di settembre sono chiamate un'ultima volta a dimostrare quanto forti siano le loro voci, in un'ultima puntata dedicata al magico mondo Disney. Sabato 1 Settembre il palco del Gay Village di Roma ospita la Finale della settima edizione di Gay Village Academy, il talent di casa che eleggerà la voce migliore tra Stella Anton, Ines Boom Boom, Irene Canino, Roxana e Simona Grazzini. A condurre i giochi ci saranno la drag singer Daniel Decò insieme a Christian Nastasi e all'ironia dell'imitatore Vincenzo DeLucia, per la regia di Manuel Minoia. A premiare la voce vincitrice sarà la folta giuria formata dall'autore televisivo Dimitri Cocciuti, il dj resident Massimiliano Brezet, l'ufficio stampa Michele Pace responsabile della comunicazione dello storico Hair Saloon "I Sargassi", pronto ad omaggiare a nome della direttrice Rossana Scatigno, la vincitrice con una consulenza d'immagine offerta dall'International Academy Sargassi. E poi ancora la makeup designer e imprenditrice Stefania D'Alessandro, il coreografo e talent scout Federico Patrizi e infine il fashion designer Piero Ragni, direttore di Officine Creative, pronto a confezionare un abito unico per la voce più bella. E infine menzione speciale per gli assenti Arianna Mereu e Andrea Papazzoni, discografici a capo dell'etichetta Nuvole e Sole, che hanno accompagnato dal principio il talent, offrendo alla vincitrice il premio della critica, ovvero la possibilità di accedere direttamente alla fase finale di Area Sanremo.

Non solo intrattenimento e spettacolo, ma anche tanto divertimento con le notti targate Gay Village, che in un fine settimana dedicato allo stile british, ospita in console i beniamini della notte, da X.Charls a Brezet, passando per Paola Dee, Anne Cullen e infine Manuel Coby, dj frontman dell'Imperium Festival, il tutto con le voci e i volti di Giusva, Silvana della Magliana, Mario Glossa, Laura Funk e la padrona di casa KastaDiva.

MODALITA' D'INGRESSO
INGRESSO 3€ entro le 21.00. A seguire 15€ - Drink Incluso
INFO e PRENOTAZIONI: 350 0723346 - www.gayvillage.it



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Wesley Snipes sul futuro di Blade: due progetti misteriosi in arrivo?

Un altro lungometraggio? Una serie tv dal vero? Una serie animata? Un videogioco? Wesley ci provoca ma non si sbottona troppo.

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Hugh Jackman travolto dallo scandalo nel primo trailer di The Front Runner

A dirigere il film sul fallimento politico del democraico Gary Hart è Jason Reitman. Nel cast anche J.K. Simmons e Vera Farmiga.

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Beate

Woody Allen è costretto a fermarsi, A Rainy Day in New York cancellato da Amazon


Chiunque seguisse il cinema, aveva una certezza: capolavoro o timbrata di cartellino, una volta all'anno in sala ci sarebbe stato un film di Woody Allen. E' dunque una notizia significativa lo stop, forse momentaneo forse definitivo data la veneranda età di 82 anni, alla carriera cinematografica del celebre autore. Per la prima volta in decenni, Allen infatti non solo non ha film in lavorazione, ma il suo ultimo A Rainy Day in New York, pronto dallo scorso autunno, non uscirà mai, almeno tramite Amazon che l'ha finanziato.

A gennaio già vi comunicammo che l'ultimo attacco del movimento #metoo ad Allen aveva portato Amazon, già nella tempesta dopo il licenziamento del suo executive Roy Price per molestie, a sospendere l'uscita dell'ultimo lungometraggio del regista. Ora pare che la sospensione si sia trasformata in un vero e proprio cestino, dal quale il film con Selena GomezElle Fanning, Jude Law, Rebecca Hall e Timothée Chalamet potrebbe uscire solo se qualche altro distributore lo acquistasse. Prospettiva improbabile.
L'autore avrebbe pronta un'altra sceneggiatura, ma stando a quel che si dice gli è al momento difficilissimo trovare finanziatori e attori disposti a sostenerlo.

Il movimento #metoo, fondato peraltro da Ronan Farrow, nello scorso autunno ha riattaccato Allen sulla questione delle presunte molestie sessuali a sua figlia Dylan nel 1992, con un'intervista video disperata della stessa, foriera di un rinnovato scalpore sulla vicenda. Va ricordato sempre che l'attore e regista fu indagato al momento, oltre 25 anni fa, e che non fu però mai incriminato. Allen ha sempre negato fermamente l'accusa rivoltagli dall'ex-compagna Mia Farrow. Woody è stato di recente difeso dal figlio Moses (all'epoca dei fatti tra gli accusatori), pentito - a quanto dice - per essersi sottoposto appena quattordicenne a quella che secondo lui è stata una manipolazione costante da parte della Farrow. Moses nello stesso pezzo ha anche pregato la sorella Dylan di riprendere il controllo della propria vita.

Agli occhi dell'establishment hollywoodiano poco importa comunque quale sia la verità. In un contesto in cui James Gunn è stato licenziato dalla Disney e dai Guardiani della Galassia per tweet idioti di oltre un decennio prima, l'ombra su Allen di un quarto di secolo fa torna a far discutere la rete e porta i produttori a temerla. Dopo che Chalamet e Hall hanno devoluto il loro compenso per A Rainy Day in New York a un fondo per difendere le vittime delle molestie, come pubblica espiazione, e che persino Michael Caine ha dichiarato che non avrebbe più lavorato con Allen, la sentenza è stata scritta.

A questo va aggiunto che i film di Woody Allen da anni non incassano molto e sono sempre un rischio economico, e che per un attore o un'attrice avvicinarsi a una sua opera a questo punto significherebbe risultare "complice del maniaco" davanti all'opinione pubblica americana. Pare inoltre che Amazon, che aveva con Allen un accordo di lungo termine comprendente già i distribuiti La ruota delle meraviglie e la miniserie Crisi in sei scene su Amazon Prime Video, stia meditando di troncare il contratto con l'autore, anche pagando una penale.

S'intenda: Allen non smetterà tout court di lavorare. Nel luglio del 2019 sarà infatti regista alla Scala del Gianni Schicchi di Puccini, da lui già allestito a Los Angeles. Il cinema però è un altro paio di maniche. A meno di non assemblare finanziamenti per progetti con attori stranieri o europei, ci sembra difficile che l'establishment di Hollywood gli riapra le porte, sempre peraltro tenute semichiuse: gli attori americani lo rispettavano, i finanziatori molto meno, tanto che diversi dei suoi ultimi lavori erano coproduzioni internazionali.



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Venezia 75 - The Favourite - Concorso

Dopo lo splendido Il sacrificio del cervo sacro, Yorgos Lanthimos prosegue il suo viaggio nel cinema internazionale (è difficile già da almeno tre titoli rintracciare nelle sue opere recenti una qualsiasi ‘grecità', al di là dei riferimenti alla tragedia antica del film con Colin Farrell e Nicole Kidman presentato a Cannes nel 2017 e uscito in Italia lo scorso giugno) con The Favourite, un pastiche settecentesco nel quale scatena tutta la propria istrionica bulimìa cinematografica al servizio delle prospettive, degli spazi e delle profondità in interni ed esterni delle architetture dell'Inghilterra del XVIII secolo, popolate di una fauna colorita e variegata come quella di un giardino zoologico d'altri tempi, che dalla Queen Anne (l'ultima Stuart) all'ultima e più oscura delle sguattere della servitù esibisce un campionario reinventato e ricreato ispirandosi al nutritissimo catalogo pittorico e cinematografico di personaggi imparruccati, imbellettati e incorsettati nati dal pennello di William Hogarth, Arthur Davis, Thomas Gainsborough, Thomas Lawrence, Thomas Sandby e molti altri, inesaurita fonte per i costumisti e gli scenografi chiamati negli anni a ricostruire per il grande schermo la vita quotidiana nelle corti, nei palazzi e nelle campagne d'Europa durante il secolo che con la Rivoluzione Francese gettò le basi della futura società Occidentale. Com'è il Settecento di Lanthimos? Somiglia più a quello di Fellini e del suo Casanova, o al Barry Lyndon di Stanley Kubrick, al Drawghtman's Contract di Peter Greenaway, all'Amadeus di Milos Forman, o alla Marie Antoinette di Sofia Coppola, per restare ai titoli più celebri? Un po' a tutti e un po' a nessuno, naturalmente, ma quello che appunto costituisce il neo (veniale, per carità) di The Favourite, presentato in concorso a Venezia 75, è proprio l'assenza di un colpo d'ala che aggiorni genialmente quanto finora il cinema aveva mostrato nel rappresentare il secolo di Handel, Mozart, Swift, e naturalmente Sade. Il regista di The Lobster ha evidentemente preferito concentrarsi sulle relazioni interpersonali che legano e costringono il trio delle sue protagoniste (oltre alla Regina Anna, la sua favorita di lunga data e forse addirittura amante Lady Sarah Churchill, e una new entry a Palazzo Reale, l'ambiziosa ‘parente di campagna' Abigail) ad un gioco al massacro sottile, spietato, senza esclusione di colpi, per conquistare il favore e il cuore della sgraziata sovrana dalla salute compromessa. Nella spessa coltre di odio rancoroso e represso (anche sessualmente) che aleggia a corte, la macchina da presa di Lanthimos avanza per implacabili carrelli semicircolari e panoramiche a schiaffo, spesso adottando un marcato e claustrofobico grandangolo: la ferocia, la grettezza, la volgarità, l'ambiguità e il ridicolo della schiuma di ministri e lacchè emergente dai flutti del fiume in piena che travolge un trittico femminile di straordinari caratteri muliebri (Olivia Colman, già Regina Madre per il cinema ed Elisabetta II per la serie tv The Crown, è una Queen di scarsa avvenenza e appesantita dall'età che avanza; Rachel Weisz, amazzone, mascolina, è la granitica Lady Sarah; Emma Stone, peperina e brillante, è la campagnola Abigail) compongono l'affresco di The Favourite schiacciando il pedale di un grottesco schizofrenico e straniante che asseconda a meraviglia la veloce e graffiante sceneggiatura di Tony McNamara, concepita come una travolgente giga barocca, così come tutta barocca è la sapiente colonna musicale del film, che tuttavia accoglie anche sonorità di autori contemporanei e l'ottocentesco Quintetto per pianoforte e archi di Schumann, falso cronologico utilizzato, come già fece Kubrick con il Trio di Schubert in Barry Lyndon, come funebre memento per un mondo di lì a poco destinato a dissolversi per sempre. Forse deluso dalla modesta accoglienza de Il sacrificio del cervo sacro, Lanthimos ha qui opportunamente scelto di bandire ogni elemento di disturbante inquietudine (al di là di un coniglio torturato con un tacco a spillo, o i piccioni usati come bersaglio del tiro a piattello), e, lui greco, insieme al suo sceneggiatore australiano, si è sentito più libero di allontanarsi dalle consuete ricostruzioni rigorose e compassate della storia inglese, optando per modalità più aggressive e plateali, allo scopo di emulsionare con maggiore efficacia il trionfo di una cattiveria pura, istintiva, ferina, ed evidenziare somiglianze con certe attitudini comportamentali in ambito privato, pubblico e politico dell'evo contemporaneo.

È forse questo aver smussato il suo pruriginoso pungiglione, per risultare più gradito alle vaste platee del cinema mondiale e confezionare un film senz'altro portentoso ma più appetibile, che lascia un po' di amaro in bocca ai fedelissimi estimatori di un autore che dell'eccesso, mai comunque compiaciuto e gratuito, ha sempre fatto il proprio marchio di fabbrica.

(The Favourite); Regia: Yorgos Lanthimos; sceneggiatura: Tony McNamara, Deborah Davis; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Yorgos Mavropsaridis; interpreti: Olivia Colman, Emma Stone, Rachel Weisz; produzione: Element Pictures, Scarlet Films; distribuzione: 20th Century Fox Italia; origine: Irlanda, Regno Unito, USA, 2018; durata: 120'



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giovedì 30 agosto 2018

Venezia 75 - Erom - Orizzonti

Erom in israeliano vuol dire nuda, spogliata, esposta. È il primo capitolo di una trilogia sull'amore che il regista Yaron Shani ha girato in dieci mesi di riprese con una tecnica che ha confuso produttori e attori dando risultati felici e sorprendenti. Usando il copione come canovaccio per una libera improvvisazione e ragazzi non professionisti, la trama va avanti e indietro nella vita di una bella trentenne scrittrice di successo, artista visiva e esordiente regista di documentari e di un giovane chitarrista appena maggiorenne, appena scartato dall'esercito come musicista eccellente (dopo un difficile esame) e si ritrova a dover affrontare l'obbligatorio servizio militare israeliano controvoglia. La tensione è palpabile, lo spettatore soffre con la protagonista in preda a violenti attacchi di panico, la tecnica di osservazione alla ricerca del punto fino a dove si può mostrare il disagio è accattivante e arriva dritta al punto. Cos'è il sesso per le nuove generazioni, cos'è la violenza sessuale, come si reagisce quando si perdono i confini, questi i grandi temi toccati. Senza compiacimenti di sorta, lambendo i limiti della censura, oscurando le parti intime e qualche viso come in un porno amatoriale, il film affronta a muso duro una storia morale senza cadere nella tentazione di giudicare, restando sempre complice con le duplicità della natura umana. Alice (interpretata da una bravissima Laliv Sivan) e Ziv (Bar Gottfried) sono due facce della stessa medaglia: entrambi hanno bisogno d'amore ma non lo sanno chiedere o lo indirizzano verso le persone sbagliate. Avvalendosi di una troupe ridotta all'osso, non invasiva, con un approccio quasi documentaristico, Shani ha l'abilità di ricreare situazioni a due o corali totalmente mimetiche e verosimili, mettendo i partecipanti alle riprese (più spesso attori non professionisti, come il folto gruppo di ragazzi) a loro agio davanti alla telecamera che per lo più li ritrae in reazioni reali, ponendo le condizioni per una dimensione quanto mai realistica delle scene. A scuola, in ospedale a trovare l'amico malato terminale, durante serate su terrazze o feste con piscina lo spettatore viene catapultato in una dimensione di spia silente, che guarda dal buco della serratura momenti privati di vita vera. La natura ostica insita nel narrare uno stupro svanisce nella scelta di non vedere ma di alludere, attraverso un montaggio alternato che lascia la possibilità al cervello di unire i tasselli come è giusto che sia. Un film duro che colpisce al cuore e alla testa, più che allo stomaco, che fa pensare, soffrire, amare

(Erom); Regia: Yaron Shani; sceneggiatura: Yaron Shani; fotografia: Shai Skiff, Nizan Lotem; montaggio: Yaron Shani; musica: Bar Gottfried; interpreti: Laliv Silvan, Bar Gottfried; produzione: Black Sheep, Film Production, The Post Republic, Electric Sheep; origine: Israele, Germania, 2018; durata: 119'



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Venezia 75 - Roma - Concorso

Girato in un bianco e nero che mette lo spettatore a proprio agio, ma al tempo stesso segna un netto allontanamento dal contemporaneo diventando un filtro davanti all'occhio del passato e della memoria - Roma (non la capitale italiana, bensì un quartiere di Città del Messico) con la regia di Alfonso Cuarón, segue le vicende di Cleo (Yalitza Aparicio), di discendenza mixteca, bambinaia a servizio di una famiglia benestante composta da Sofia (Marina de Tavira), una madre tesa e melodrammatica, da un padre medico assente e da quattro figli dai cinque ai quattordici anni.
Dei titoli di testa lentissimi su inquadratura fissa (mattonelle e acqua saponata che si spande e poi velocemente va via, pulisce gli escrementi canini, disinfetta, diventa nera) dichiarano un tempo dilatato, scandito dai silenzi più che dalle parole, da simboli più che da esternazioni manifeste. L'elemento acquatico e quello di calamità naturale scandiscono il tempo narrativo della pellicola: quando piove grandine nel cortile i bambini ci giocano come pazzi a dispetto di quello che diranno i grandi; le onde del mare sono alte e pericolose e per questo attraenti, dentro le quali Sofia e Paco rischiano di annegare, salvati da Cleo che non sa nuotare; mentre la giovane incinta osserva da dietro un vetro il reparto di neonatologia le pareti tremano a causa di un terremoto e le infermiere portano via i bebè tranne quelli in incubatrice che vengono sommersi da detriti; la notte di capodanno durante i festeggiamenti in una masseria di amici americani scoppia un incendio nel bosco e i partecipanti alla festa si ritrovano coi secchi in una mano e il flûte di champagne nell'altra per tentare di spegnerlo; si rompono le acque a termine gravidanza durante una manifestazione popolare che sfocia in violenza e rende complesso e pericoloso il raggiungere l'ospedale. La natura vuole la sua parte e vince sempre. Assistiamo ad una storia di matriarcato di matrice totalmente autobiografica nell'esperienza personale del regista che rispetta i caratteri senza nostalgia secondo un punto di vista che è quello infantile del bambino di allora, sedimentato nello sguardo della maturità di un uomo di cinquantasei anni.
Regia potente visivamente, girato con tecnica superba sempre funzionale, mai sbavata. Il conflitto di classe si risolve attraverso personaggi consapevoli dei confini tra di loro ma fortemente empatici gli uni verso gli altri. Il parallelo della solitudine delle due donne, la domestica e la padrona, ognuna abbandonata a suo modo dal compagno, suona delicato e felice: l'india di poche parole ma di caldi abbracci, la signora sgarbata nei momenti clou, i bambini più affettuosi con la tata che con la madre sono disegnati in maniera forse non originale ma efficace. La separazione di classe è supplita dall'amore e dal ricordo di chi ha amato entrambe le donne, una in quanto madre, l'altra come se lo fosse.

(Roma); Regia: Alfonso Cuarón; sceneggiatura: Alfonso Cuarón; fotografia: Alfonso Cuarón; montaggio: Alfonso Cuarón, Adam Gough; musica: Lynn Fainchtein; interpreti: Yalitza Aparicio, Marina De Tavira, Nancy Garcia, Jorge Antonio, Veronica García, Marco Graf, Daniela Demesa, Carlos Peralta; produzione: Gabriela Rodríguez, Alfonso Cuarón, Nicolás Celis, Esperanto Filmoj, Partecipant Media; distribuzione: Netflix; origine: Mexico, 2018; durata: 135'



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Il thriller con Chadwick Boseman 17 Bridges uscirà il prossimo anno

Alla produzione figurano i fratelli Russo, che hanno diretto l'attore in Captain America: Civil War e nell'ultimo Avengers

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Venezia 75 - As If We Were Tuna - Giornate degli autori

Diciotto minuti per raccontare la mattanza dei tonni, una pratica che sta gradualmente sparendo, sostituita da un sistema di pesca altrettanto cruento, ma meno sostenibile nella sua dimensione definitivamente industriale.
Diciotto minuti e un solo possente movimento ideale che, dall'alto della prima inquadratura delle reti sul mare sorrette dai galleggianti quasi a disegnare, tra le onde, una cellula astratta, scende sin giù, sott'acqua a seguire il percorso dei tonni che entrano nella trappola e finiscono nella camera della morte.
Quindi il lavoro indefesso dei pescatori che trascinano le prede fuori dall'acqua, mentre il blu si riempie del rosso del sangue.

Operazione semplice eppure complessa quella di As If We Were Tuna di Francesco Zizola.
Semplice nella macrostruttura, complessa per l'enorme quantità di riferimenti che si porta dietro a partire dalla citazione da I persiani di Eschilo che apre la proiezione fino a scivolare sulla sacralità di un rituale che, nella sua connotazione antropologica, ha affascinato ed ispirato poeti e pensatori. Perché centro del discorso è, ancora come sempre, il rapporto "Uomo-Natura", in una rinnovata visione de Il Vecchio e il Mare, dove il primo non è più una persona, ma un sistema di pesca ugualmente datato e ugualmente denso di implicazioni culturali.

In mezzo la complessità di un montaggio attento a rendere dapprima la placida maestà del mare, poi la frenesia disperata della camera della morte e infine in ritorno all'imperturbabilità della visione dell'alto che tutto riduce a geometrie e linee che si incontrano in un centro indifferente.
Ma in mezzo anche un complesso lavoro di color correction sulle immagini e di elaborazione dei suoni allo scopo di produrre una partitura audiovisiva elaborata di gusto contemporaneo. Tutto l'opposto di un De Seta, insomma, anche se anche qui a parlare resta il Reale, però piegato all'alta formalizzazione di un pensiero appunto compositivo e dal gusto spiccatamente sperimentale.

Ripreso nel corso di due anni, tra il 2016 e il 2017, il corto di Zizola è un piccolo poema del mare e della pesca che merita la visione.
Evento Speciale delle Giornate degli autori.

(As If We Were Tuna); Regia: Francesco Zizola; fotografia: Francesco Zizola; montaggio: Elisabetta Abrami; suono: Carlo Purpura, Bernard Bursill-Hall; produzione: 10b Photography; origine: Italia, 2018; durata: 18'



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The Favourite - La favorita: la recensione del film di Yorgos Lanthimos in concorso al Festival di Venezia 2018

Sorpresa: il regista greco non abbandona il cinismo, ma si sporca le mani con la materia calda della vita e abbraccia ironia e sarcarsmo.

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Disincanto (Stagione 1) - Teste di Serie

"Preferisco morire di una grande morte, che vivere una piccola vita."
- Elfo

In un mondo fatato e popolato da creature fantastiche sorge un regno di nome Dreamland. Lo governa un re corpulento e burbero di nome Zøg, che un tempo era un guerriero e non gli é mai andata a genio l'idea di diventare un re; alla destra di Zøg siede la regina Oona, una creatura anfibia, simile a una salamandra, che prese il posto dell'originaria regina Dagmar, tramutata in una statua di pietra da un misterioso veleno. Tra i corridoi del castello reale ma, sopratutto, nelle locande e nei locali più squallidi del regno, gironzola la principessa Tiabeanie, chiamata più semplicemente Bean, scapestrata, indelicata e, a volte, imbranata, restìa ad addossarsi le sue responsabilità da reale, amante della bottiglia e del gioco d'azzardo; Bean é stata promessa in sposa a un principe inetto solo per tornaconto politico, ma nel rocambolesco giorno del matrimonio, conoscerà un elfo sprovveduto di nome Elfo, stufo della vita idilliaca e iridescente vissuta nel fiabesco paese degli elfi, e un demone di nome Luci, inviato come regalo di nozze da loschi e indecifrabili figuri per maledire la principessa e condannare il regno di Dreamland. Tra i tre si instaura un rapporto di amicizia – più o meno trasparente -, presto catapultati in un ciclone di avventure.

Dopo cinque anni dalla conclusione di Futurama, torna sul piccolo schermo Matt Groening, il genio che nel 1987 realizzò per la FOX I Simpson, la più irriverente, brillante e complessa sit-com animata di tutti i tempi, rivoluzionando non solo l'idea stessa di genere, ponendo le basi archetipiche per tutti quei prodotti affini a venire, ma riuscendo a intaccare in maniera indelebile la cultura popolare mondiale, incidendo sulla creativa di autori comici come Seth McFarlane, cresciuti avendo come modello l'inarrivabile Groening.

Il ritorno del papà de I Simpson e Futurama si chiama Disincanto, nuova serie animata che molto ha in comune con i lavori precedenti – e molto altro, tuttavia, no. Perché Disincanto é, innanzitutto, una commedia fantasy, non una classica sit-com e questo é un elemento di fondamentale importanza per comprendere i piani produttivi di Netflix: discostandosi da una programmazione in episodi basata principalmente sull'autoconclusività degli stessi, Groening – sicuramente coadiuvato da colleghi-compagni di viaggio di spicco nella sua carriera, come David X. Cohen, co-creatore di Futurama, Josh Weinstein e Bill Oakley, tutti già con la penna in mano per numerosi episodi de I Simpson – sviluppa in Disincanto una narrazione molto più orizzontale, strutturandola più come una serie televisiva; in questa accezione, Disincanto acquisisce i contorni di un vero e proprio romanzo di formazione dai toni semi-seri, che include la principessa Bean e i suoi due compagni di disavventure in un contesto contaminato da svolte ed elementi drammatici – la dipartita della regina Dagmar, la morte di Elfo, l'inadeguatezza di Bean e il pessimo rapporto con suo padre.

Già con Futurama, Groening si era discostato con successo dal suo capolavoro, presentando un progetto che necessitasse di un complesso world-building, nonché una differente gestione del nucleo centrale di protagonisti, immersi in un contesto più dispersivo e avverso. Con Disincanto, il papà de I Simpson prova ad alzare ulteriormente il tiro, affidandosi quasi esclusivamente a una tessitura narrativa stratificata e in grado di offrire numerosi plot-twist – e la presenza dell'easter-egg di Elfo posto subito dopo i primissimi titoli di coda dell'episodio finale costituisce un lampante riscontro; quasi esclusivamente, perché i difetti si riscontrano in una creatività visiva spesso non all'altezza degli standard a cui Groening ha abituato e, vien da sé, un world-building per ora ridotto all'osso – ma con immense potenzialità - e alla mancanza di personaggi secondari – re Zøg escluso - in grado stuzzicare l'attenzione dello spettatore. Se Bean é la versione femminile e meno codarda di Fry, Elfo é un esplicito richiamo grafico a Bart, mentre Luci é il corrispettivo in chiave fantasy del peccaminoso robot Bender; i comprimari, a partire dal mago di corte Sorcerio difettano di accurata caratterizzazione, rimanendo troppo spesso sullo sfondo.

Giocando sul rovesciamento dei canoni di genere, Groening non riesce a instillare in Disincanto la giusta dose di effervescenza che ha reso Futurama – per lo meno nelle prime stagioni – un gioiello di commedia di genere; impossibile, imponderabile, un confronto con I Simpson, per tutta una serie di ragioni di valenza storico-culturale. Si ride poco in Disincanto, non perché la verve comica sia poco efficiente, piuttosto perché centellinata col contagocce. Un ulteriore segnale di come Groening abbia voluto provare a lavorare in modo differente come autore, consapevole di non poter riproporre i fasti di un tempo. Forse il disincanto di Matt Groening sta proprio tutto qua, unito a quello dello spettatore, costretto ad accettare questa nuova realtà, tutta da scoprire.

(Disenchantment); genere: fantasy, commedia, drammatico; sceneggiatura: Matt Groening; stagioni: 1 (in attesa di rinnovo); episodi prima stagione: 10; produzione: The Curiosity Company, The ULULU Company, Rough Draft Studios; network: Netflix (U.S.A., 17 agosto 2018), Netflix (Italia, 17 agosto 2018); origine: U.S.A., 2018; durata: 30-35' per episodio; episodio cult prima stagione: 1x01 - A Princess, an Elf and a Demon walk into a bar (1x01 - Una principessa, un elfo e un demone entrano in un bar); 1x09 - To thine own Elf be true (1x09 - Sii fedele a te stesso, Elfo); 1x10 - Dreamland falls (1x10 - La caduta di Dreamland)



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Roma: la recensione del film di Alfonso Cuarón in concorso al Festival di Venezia 2018


“Water, water, everywhere,” scriveva Samuel Coleridge.
ROMA non è di certo “La ballata del vecchio marinaio,” ma è un film pieno d’acqua, dall’inizio alla fine. L’acqua che la protagonista Cleo, domestica di una famiglia borghese nella Citta del Messico del 1971, utilizza per lavare pavimenti, piatti, abiti. Che dà da bere ai bambini assetati. Acqua, o meglio “le acque” che le si rompono al termine di una gravidanza, nel momento più tumultuoso della storia del film e del Messico, e le acque del mare delle scene finali, prima di tornare ai panni, ai tetti, ai cieli, agli aerei che passano e vanno chissà dove.

Acqua che scorre e lava via lo sporco, acqua dalla quale ci si deve salvare, ma che allo stesso tempo è vita. Nuovi parti dal mare che sostituiscono le disgrazie, nel metaforone messo in scena da Alfonso Cuarón, che la sua macchina da presa la muove agile e liquida attorno ai suoi tanti personaggi, dentro alle scenografie che ricostruiscono quegli anni in maniera sontuosa, precisissima e perfino sovrabbondante e ossessiva, cercando di arginare almeno il trasporto del sentimento di questo suo personalissimo, castissimo e scolastico Amarcord.

Attinge ai suoi ricordi personali, il regista messicano. Poco importa andare a vedere e soppesare quanta autobiografia ci sia, e quanto romanzata, e quanto idealizzata. Importa di più sottolinearne la scissione, la voglia di fare e di dire da un lato, e quella di trattenere il fiume in piena del ricordo e della passione attraverso lo studio maniacale della messa in scena, tradito dai virtuosismi di macchina e da una fotografia quasi troppo perfetta, troppo patinata, per la storia che viene raccontata, e dall’onnipresenza di suoni, voci, rumori.

Racconta di qualcosa che sta finendo, che muore, che viene danneggiato e che nasce in una forma nuova, ROMA. Racconta della fine e del nuovo inizio di una famiglia, forse di un paese, sicuramente di una giovane donna che si ritrova proiettata nella vita, ci si scontra in pieno ma si salva salvando gli altri, aiutandoli, anche quando forse non se lo meritano. Tra cani vivi e impagliati, vecchie Ford Galaxy e i cinema di una volta, con dentro Tre uomini in fuga e Abbandonati nello spazio, che vorresti continuare a vedere più di quanto Cuarón non conceda.



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Venezia 75 - Joy - Giornate degli autori

Joy è arrivata a Vienna da diversi anni.
Il suo viaggio non è stato molto diverso da quello di molte altre donne africane partite con lo stesso miraggio negli occhi: la tratta per mare su imbarcazioni malsicure, l'arrivo in un'Europa fredda e ostile, l'avvio alla prostituzione.
A differenza di molte altre della generazione precedente, almeno Joy sapeva a cosa andava incontro. Non è salita sul primo gommone pensando di andare a fare la donna delle pulizie per poi trovarsi invischiata in una trama più grande. Lei, su quel gommone ci è salita sapendo che andava a vendere il suo corpo. E il viaggio non l'ha pagato tutto lei. Glielo ha pagato una madame dall'Europa. Nigeriana come lei. Prostituta prima di lei.
È lei che ha messo insieme i 60000 euro necessari per il viaggio. E li pretende indietro, mille al mese, fino all'estinzione del debito e degli interessi.

Alla base del patto scellerato un doppio ricatto: è Madame a tenere in tasca il passaporto delle sue ragazze, mentre in Nigeria, un mago di juju, pratica simile al voodoo, tiene in ostaggio unghie e altri affetti personali delle povere malcapitate, chiusi nell'incanto della formula magica che garantisce punizioni a chi dovesse infrangere il voto e parlare con la polizia o farsi scoprire nell'esercizio della professione più vecchia del mondo.

La famiglia, rimasta a casa, da parte sua accetta i soldi che lei manda loro come aiuto. Perché la famiglia è tutto. Anche se, da casa, le richieste fioccano malgrado sia a tutti chiaro da che traffici arrivino quelle banconote.

Poi a Joy viene dato il compito di assistere Precious, una giovane che, almeno all'inizio, vede la prostituzione come qualcosa di troppo duro, che non riesce a scendere a patti con quel concedersi a tanti uomini diversi. E attraverso lei, ma in secondo piano, con gentilezza quasi rosselliniana, veniamo a contatto con tutta la brutale prassi che accompagna e definisce questa tratta delle schiave che ci scorre accanto senza che noi si abbia il coraggio di guardarla e di capirla.
Così vediamo bene come il sistema perverso mette queste donne una contro l'altra. Come vediamo quanta fatica facciano a trovare una propria posizione perché da sfruttate a complici e perpetuatrici del sistema il passo è dolorosamente corto. Una tale ridda di contraddizioni che si appiccicano agli occhi dei personaggi e stanno nelle loro espressioni con tanta veemente chiarezza che le violenze sessuali che la giovane di turno è costretta a subire per accettare la sua nuova condizione di prostituta paiono quasi una parentesi leggera.

Forte di una produzione austriaca di tutto rispetto, con la sua macchina da presa sempre attaccata ai personaggi in una vocazione all'intimismo che non perde mai un momento la sua vocazione alla denuncia, Sudabeh Mortezai, regista di origini iraniane compone un affresco bello davvero. Asciutto, pulito, senza fronzoli, che perde l'orizzonte solo un po' verso la fine, quando il bisogno di apologo scende a pochi compromessi con la fame di realismo. Una prova tutta al femminile, dove l'Europa più che sfondo è una comparsa di un dramma che in questi tempi bigi saprebbe impartire più di una lezione. A patto di ritrovare, anche solo per un poco, la strada perduta ai più della compassione.

(Joy); Regia: Sudabeh Mortezai; sceneggiatura: Sudabeh Mortezai; fotografia: Klemens Hufnagl; montaggio: Oliver Neumann; interpreti: Joy Anwulika Alphonsus (Joy), Precious Mariam Sanusi (Precious), Angela Ekeleme Pius (Madame), Gift Igweh, Sandra John, Chika Kipo, Ella Osagie, Christian Ludwig; produzione: FreibeuterFilm con il supporto di Austrian Film Institute, Vienna Film Fund, ORF Film/Fernseh - Abkommen; origine: Austria, 2018; durata: 100'



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Venice 2018: First impressions, FIRST MAN

DB here:

Kristin and I are back at the Venice International Film Festival, because once more I’m on the panel for the festival’s Biennale College Cinema projects. A future post will take up those films, as well as Kristin’s comments on the restored Der Golem (1920), which screened the night before the festival’s official opening. For now, a quick report while we’re between screenings. And feel free to check in with our new Instagram page for rolling photo updates as the days go by.

 

First man, fourth feature

Kristin and I are admirers of Damien Chazelle’s work, so you’d expect that we were keen to see First Man, his Neil Armstrong film. It’s not exactly a biopic, as it concentrates on a fairly brief period of his life. It treats his career as an astronaut as partly a mechanism for coping with the death of his young daughter. The familiar Hollywood double plot–personal life versus professional life–is filled out by ongoing tensions with Armstrong’s wife Janet (Claire Foy) and by NASA’s efforts to beat the Russians to the moon.

The domestic scenes are steeped in mild melancholy, as the workaholic, buttoned-up Armstrong seems a good candidate for clinical depression. One powerful moment involves Janet’s insistence that he open up to his sons and admit that he might not return from the moon launch. His deep affection for his daughter, sketched quickly in the opening portions, suggests why he’s more stiff and distant with his sons later; it’s as if he doesn’t want to risk strong love again. Ryan Gosling’s performance handles this well, I think; after we’ve seen him caress his daughter’s hair early on, we watch his fingers closely. Even in long shots, his hands betray him, as when he nervously twists his wedding ring. (Below, Foy, Gosling, and Chazelle at the press conference.)

The moon mission becomes a kind of catharsis that lets Armstrong regain a dimension of his humanity. The professional plot, crystallized around a series of subgoals leading to the moon shot, renders him as tenacious and dedicated. Pointedly contrasted to showboating Buzz Aldrin, Armstrong’s laconic manner reflects not only a confidence in his abilities but a quiet, stubborn professionalism. This too is shaken by death; the incineration of his friends in a test not only stresses the danger of space flight but the fact that he is increasingly alone. Throughout his adversities, Armstrong must show both physical endurance and resourceful intelligence. He’s admirably swottish, but he uses it as a shield for emotions.

From its very opening frames First Man has a galvanizing immediacy. Chazelle has given up the smooth, locked-down camera technique of La La Land in favor of a looser handheld approach that recalls Guy and Madeline on a Park Bench. The film’s over 2000 shots create an impressionistic nervousness that suits not only the suspense of the NASA mission but the anxieties of the protagonist. DP Linus Sandgren filmed many of the tighter shots in Super-16mm, and the same gauge, applied to flashback images of Armstrong’s daughter, yield almost Kodachrome bursts of color. By contrast, the culminating scenes on the lunar surface, shot in Imax, contrast with the rest of the film’s texture by being rigorously stable, awe-inspiring framings.

In filming Armstrong’s tests and missions, Chazelle tackles what we might call the Raging Bull problem. Scorsese sought to distinguish each of Jake LaMotta’s prizefights through different techniques (slow-motion, optical POV, and the like). Chazelle does much the same. The film’s harrowing opening sequence is rendered in convulsive imagery from Armstrong’s point of view, trapping us in the cockpit with him as he manages to salvage a test flight. Later aerial sequences take us briefly outside spacecraft in varying angles, but I think the most majestic external views are saved for the climactic moon shot.

Paralleling this pattern, in the most claustrophobic passages thrashing grinding sounds rip through the theatre. By contrast, the moon landing is accompanied by Justin Hurwitz’s quietly triumphant waltz. This is definitely a film to be seen and heard on the biggest screen you can find.

As one measure of Chazelle’s interest in fine-grain detail, consider his powerful use of reflections. The astronauts’ helmets become both distorting windows and reflecting masks that capture the world outside. There’s striking imagery in the opening sequence of the horizon’s curvature bouncing off Armstrong’s helmet, while when we get to the moon, the landscape becomes a wraparound image blotting out the First Man’s face. At one point earlier in the film, I swear I saw the reflection of the moon in the iris of Armstrong’s eye. In any case, the final shot (no spoilers here) takes this pictorial motif to a new emotional pitch.

I want to write more about First Man, after I’ve seen it again and thought about it more; I hope as well to bring you information from Linus Sandgren about the cinematography. Still, I hope these notes convey my immediate appreciation for what Chazelle and his team have accomplished. First Man seems to me another exciting achievement by one of the most ambitious directors working today.

Revisit us for more blogging, We’ll be writing about Cuarón’s Roma, which we saw this morning, and The Other Side of the Wind, which we’re seeing in a few hours. I make these promises as partly a way to ensure that we actually do it!


Thanks to Paolo Beratta, Alberto Barbera, Peter Cowie, Michela Lazzarin, and all their colleagues for their warm welcome of us to this year’s Biennale.

Earlier entries devoted to Chazelle are here.

Grrr! DB in the wingéd lions’ den: They have several of these beasts on hand. This and press conference photo by Kristin.



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È morto Costa-Gavras, regista di Music Box, Missing e Z l'orgia del potere (notizia smentita dallo stesso interessato)


AGGIORNAMENTO: Ci sono cascati tutti, anche i più autorevoli quotidiani italiani e non solo. Ci siamo cascati anche noi. La notizia della morte del regista greco Costa-Gavras è risultata essere falsa, smentita dal ministro della Cultura greco, Myrsini Zorba e, poco dopo, dallo stesso interessato.

Si è spento a Parigi all'età di 85 anni Konstantinos Gavras, il regista greco che ha diretto film quali Z, l'orgia del potere (1969), Chiaro di donna (1979), Missing - Scomparso (1982) e si firmava con il nome di Costa-Gavras. Era nato in Grecia nel 1933 e si era trasferito a Parigi dopo il liceo, ottenendo la cittadinanza francese nel 1968. Il suo cinema era politicamente impegnato e spaziava nei territori di storia recente tra la Seconda Guerra Mondiale, la Dittatura dei Colonnelli in Grecia, i conflitti in Medio Oriente, il regime staliniano e il colpo di stato in Cile. Con i film di produzione americana ha toccato altre spinose tematiche come la supramazia bianca (Betrayed - Tradita del 1988), i criminali di guerra (Music Box - Prova d'accusa del 1989) e la caccia allo scoop a tutti i costi (Mad City - Assalto alla notizia del 1997). Nel 2002 con Amen. aveva messo a confronto l'etica della chiesa di fronte ai crimini nazisti, aveva esplorato la deriva mentale di un uomo d'affari nel 2005 con Cacciatore di teste ed aveva scelto Riccardo Scamarcio nel 2009 come protagonista di Verso l'Eden, una storia sul sempre attuale tema dell'immigrazione. Ulteriori informazioni su possono essere trovate alla pagina della biografia di Costa-Gavras.



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Nelle sale dal 18 ottobre "L'ape Maia – Le olimpiadi di miele"

“L'ape Maia – Le olimpiadi di miele” che uscirà nelle sale cinematografiche il 18 ottobre distribuito da Koch Media.

Il nuovo film di animazione sull'ape più amata di sempre è un prodotto per tutta la famiglia, con un personaggio iconico che saprà regalare agli adulti i ricordi della propria infanzia e divertire i più piccoli. Maia è un personaggio che è divenuto, infatti, un vero e proprio classico. Tutte le sue avventure sono ambientate nella natura e raccontano storie positive, piene di speranza, di amicizia e di tolleranza.

Il teaser trailer:

L'Ape Maia - Le olimpiadi di miele affronta il tema dell'importanza del lavoro di squadra, dell'amicizia e della meraviglia nella scoperta del talento che è nascosto in ognuno di noi.

SINOSSI

L'alveare di Maia è in fermento. È finito il raccolto estivo di miele e da Buzztropolis arriva un ambasciatore dell'imperatrice con un messaggio importante per la Regina Beatrice.

Vuole forse annunciare che l'alveare di Maia sarà finalmente invitato a partecipare alle olim­piadi di miele? Purtroppo l'entusiasmo iniziale si spegne quando il messaggero informa gli abitanti del Campo di Papaveri che non sono autorizzati a partecipare alle olimpiadi e che, su richiesta dell'Imperatrice stessa, devono donare metà del loro già scarso raccolto estivo per contribuire a nutrire gli atleti delle olimpiadi. La Regina Beatrice accetta, suo malgrado, l'ordine imperiale pur sapendo che questo significa non avere abbastanza miele per le sue api per affronta­re l'inverno. Maia, con la sua proverbiale incapacità di accettare le ingiustizie, decide di disobbedire alla sua regina e di andare a Buzztropolis per affrontare l'Imperatrice. In questo lungo e pericoloso viaggio ad accompagnarla c'è il suo fidato e fedele amico Willi. Arrivata nella rigogliosa Buzztropolis, la piccola ape scoprirà un mondo a lei assolutamente sconosciuto, avrà a che fare con personaggi mai incontrati prima come Violet, un'ape invidiosa che nasconde a fatica il suo disprezzo per Maia e proverà in tutti i modi ad allontanarla dal suo amico Willi. L'appel­lo accorato di Maia di partecipare alle olimpiadi al cospetto dell'Imperatrice, in realtà culminerà con un clamoroso incidente che peggiorerà le cose. Profondamente offesa, e determinata a dare una lezione a Maia, l'Imperatrice le propone un accordo: l'alveare di Maia potrà partecipare alle olimpiadi di miele ma se perderà i giochi dovrà privarsi non solo del miele estivo, ma dell'intero raccolto. Affiancata da un insolito e stravagante gruppo di insetti, Maia si cimenterà, così, in svariate discipline olimpiche e imparerà il vero significato del lavoro di squadra. Fortunatamente, il suo migliore amico Willi, le adorabili e goffe formiche Arnie e Barney e il suo fidato consigliere Flip il grillo, saranno sempre al suo fianco. Riuscirà Maia a salvare il suo alveare?

Sito Ufficiale
/www.kochmedia-film.it/film/l...



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Schindler's List: il nuovo trailer per il 25°anniversario

Il capolavoro di Steven Spielberg uscirà nuovamente negli Stati Uniti e in Canada il 7 dicembre.

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SuperGirl, la regista potrebbe essere la Reed Morano di Handmaid's Tale

L'autrice, anche direttrice della fotografia, è nel mirino della Warner, la sceneggiatura è affidata a Oren Uziel.

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Star Wars: il mito dai mille volti sbarca a Venezia!

Dopo il grande successo di Antropocinema (Premio Domenico Meccoli Scriveredicinema 2015), la nuova fatica di Andrea Guglielmino, incentrata sulla leggendaria saga di George Lucas, Star Wars: il mito dai mille volti, è stata accolta con un entusiasmo tale da aver reso necessaria una ristampa urgente a meno di due mesi dalla sua uscita.

Nell'ambito del fittissimo calendario di presentazioni organizzato dall'Autore (che potete seguire sui suoi profili social per restare sempre aggiornati su date e novità), siamo particolarmente orgogliosi di segnalare l'incontro che si terrà al Lido di Venezia venerdì 31 agosto alle ore 15.00 durante la Mostra Internazionale d'arte cinematografica.

Ad affiancare l'Autore nel corso della tavola rotonda tre signore del giornalismo italiano, nomi sicuramente noti agli appassionati di cultura nerd: Valentina Ariete (Radio Deejay, Movieplayer), Eva Carducci (Fox) e Gabriella Giliberti (Lega Nerd), oltre ai cosplayer dell'associazione Star Wars NEXT che aggiungeranno colore e atmosfera all'evento.

Tutte le info necessarie sono disponibili nell'evento Facebook all'indirizzo:
www.facebook.com/events/1750...



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"Sotto una buona stella" ideata e diretta da Paolo Genovese-San Felice Circeo 2018

Una grande festa di fine estate al Circeo con SOTTO UNA BUONA STELLA,ideata e diretta da PAOLO GENOVESE il quale ha dichiarato di aver voluto fortemente questa serata tra amici per gli abitanti del Circeo,dove da anni frequenta ed ama questo luogo magico. ‘Sotto una buona stella' è una festa che nasce tra artisti, amici che amano e vivono il Circeo con una grande voglia di esibirsi,divertirsi e regalare una serata magica grazie alla partecipazione entusiastica da parte di numerosi artisti importantissimi che sono qui a dare l'arrivederci alla prossima estate tra cui: Matilde Brandi e Tosca D'Aquino, che hanno presentato la serata insieme a Flora Canto, Anna Foglietta, Enrico Brignano,Marco Giallini, Andrea Perroni, Lillo, Fausto Brizzi, Dino Abbrescia e Susy Laude, Massimiliano Bruno, Carolina Rey,ma anche tanta musica e canzoni con l'Orchestraccia, Ladyvette e Marianne Mirage.

Oltre il divertimento e la voglia di far sorridire,un pensiero anche per la solidarietà con una raccolta fondi per la Onlus “Every child is my child”, presieduta dall'attrice Anna Foglietta,per un sostegno ai bambini siriani vittime della guerra. Il progetto sostenuto dalla stesso Genovese e da oltre 200 artisti italiani,per la realizzazione di una serie di azioni tra cui la ricostruzione della Plaster School (scuola cerotto) ed il Progetto Pane per fornire alimenti alle famiglie più disagiate e la Scuola di Formazione per le donne.

Sotto una buona stella, è stata patrocinata dal Comune e Proloco di San Felice Circeo ed il coordinamento organizzativo di Francesca Piggianelli,presidente di Romarteventi,



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Grandi emozioni con eventi speciali di cinema,sport,sociale ad Isola del cinema di Roma

Si è conclusa all'isola del cinema ,a cura di Francesca Piggianelli in collaborazione con Giovanni Fabiano, una grande serata e numerosi incontri speciali del nuovo cinema italiano,musica,sport,sociale e presentazioni dei libri "Tutto è possibile per chi ci crede"basato sulla storia vera di Giacomo Innowhite, di Arianna Ciancaleoni e di Il nostro teatro dei sogni, la grande storia dello Stadio Olimpico di Fabio Argentini e Luigi Panella, a seguire emozionante omaggio a Francesco Nuti da una idea di Enio Drovandi,con tanti amici e brani eseguiti dai Milk and Coffee. Nella sala gremita del cinema presentati i cortometraggi HELL INSIDE(sul tema della ludopadia),introdotto dal regista,Gastone Biwolè e dal produttore, Presidente della comunità somala Mauro Caruso, a seguire PENSIERO GIALLO(un noir grottesco) di Pierfrancesco Campanella con la gli attori Luciana Frazzetto e Gianni Franco,ad applaudirli tra gli ospiti anche Mirka Viola ed Isabel Russinova,infine Il film -doc TIZZO di Alessio Di Cosimo,con il campione del mondo dei pesi leggeri di boxe Emiliano Marsili,presente con il compositore Paolo Costa.Un brindisi finale ed un arrivederci alla prossima edizione



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Beate

Armida è una giovane impiegata in una ditta di biancheria femminile gestita da Veronica, un'imprenditrice con poco talento e ancor meno scrupoli.
Armida viene dalla Sicilia, ma lavora nel Polesine, fianco a fianco con tutta una serie di altre sarte e operatrici che, nel trionfo dei rispettivi dialetti, danno all'occupazione quotidiana il sapore di una lieta babele che trova proprio nel lavoro il suo ordinamento e la sua ragion d'essere.
Armida ha una figlia, a carico, ma non è sposata. Ha un amante che si bea del suo accento siculo, ma che è meglio tener nascosto allo sguardo pettegolo dei più, e, come da tradizione, una zia monaca, devota al culto della Santa Armida del vicino monastero.
Nell'Italia senza ritegno nella quale viviamo due sono i motivi paralleli che danno avvio al racconto: Veronica ha da tempo deciso di dichiarare bancarotta (malgrado gli ordinativi siano in aumento) per dislocare l'impresa in Serbia ed è in qualche modo addentro anche al progetto della curia di cacciare le monache dal convento per destinare la struttura ad un resort a cinque stelle.
Unico modo per opporsi ai loschi disegni scoperti più per caso che per altro è quello di avviare un'inedita cooperativa femminile che metta insieme la laboriosità delle monache, abilissime nel lavoro di uncinetto, e la capacità imprenditoriale delle ex dipendenti della ditta, finite nel frattempo in cassa integrazione, odiosa anticamera della disoccupazione.

Già da questi pochi dettagli del racconto si possono evincere alcune specificità di Beate.
In primo luoog la scelta di ingentilire un argomento spinoso e complesso come quello del lavoro oggi con i filtri di una commedia garbata che si avvale di personaggi più o meno tipizzati per strappare più che la risata il sorriso indulgente.
Partendo da un versante di ironia british (forte la tradizione in terra di Albione di commedie profondamente radicate nel sociale), ricollocato però abilmente in un riconoscibile contesto italiano (più che i dialetti sparsi in allegra confusione, i personaggi delle monache forti di una tradizione secolare in commedia), Beate ha il sicuro merito di cercare il giusto mix tra denuncia sociale e intrattenimento garbato senza perdere di vista anche il senso di una rivendicazione di genere in un contesto maschilista (nel film alla solidarietà femminile sono sempre opposte figure maschili di potere sfuggenti e fastidiose).

Il gioco funziona soprattutto nella descrizione dell'ambiente lavorativo e nella relazione tra i personaggi, meno quando la tipizzazione della commedia si adagia su soluzioni più apertamente televisive (si pensi a certi dettagli della vita nel convento) ampiamente sostenute da una colonna sonora gradevole anche negli ammiccamenti a soluzioni da “piccolo schermo”.
Coadiuvato da un cast eterogeneo ma sufficientemente affiatato, su cui spicca il coinvolgimento di Donatella Finocchiaro nella parte della protagonista dal piede torto, Amad Zarmandili compone un film fresco e a tratti divertente, che meriterebbe più di quello che una programmazione distratta dal Festival di Venezia riuscirà a garantire.

(Beate); Regia: Samad Zarmandili; sceneggiatura: Antonio Cecchi, Gianni Gatti, Salvatore Maira; fotografia: Cristiano Natalucci; montaggio: Fabio Nunziata; musica: Francesco De Luca, Alessandro Forti (Edizioni Musicali FLIPPER); interpreti: Donatella Finocchiaro (Armida), Paolo Pierobon (Loris), Maria Roveran (suor Caterina), Lucia Sardo (suor Restituita), Betti Pedrazzi (madre Amara), Anna Bellato (Veronica), Orsetta Borghero (Maria), Silvia Grande (Maresa), Cristina Chinaglia (Tina), Licia Navarrini (Iole), Eleonora Panizzo (Rachele), Felicité Mbezele (suor Prediletta); produzione e distribuzione: Dario Formisano; origine: Italia, 2018; durata: 90'



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Non solo Cinema - al via Mondiali di calcio tavolo a Gibilterra, 1 e 2 settembre

Delusione, rimpianto, amarezza, ma anche totale menefreghismo e un pizzico di crudeltà hanno accompagnato l'assenza della nostra Nazionale ai recenti Mondiali di Calcio disputati in Russia. Dato che siamo tutti un pò tifosi e che a noi di Close Up piacciono le sfide e i David che sconfiggono i Golia, ci permettiamo di segnalarvi una notizia gustosa che potrebbe far nascere idee a sceneggiatori in erba (sintetica o a zolle che dir si voglia)....

La Nazionale Italiana di Calcio Tavolo (il Subbuteo, per intenderci ndr) è pronta per i Mondiali 2018, che quest'anno si svolgeranno a Gibilterra il 1° e il 2 settembre 2018. Mancano davvero pochi giorni e gli Azzurri faranno di tutto per conquistare il gradino più alto del podio. La delegazione italiana della FISCT (Federazione Italiana Sportiva Calcio Tavolo), guidata dal presidente Paolo Finardi, con i suoi 34 giocatori è pronta a sfidare gli oltre 200 subbuteisti provenienti da ogni parte del mondo: oltre al Belpaese, Belgio, Belgio, Francia, Germania, Sudan, Tunisia, Grecia, Malta, Giappone, Russia e Usa, solo per citarne alcuni.

Nelle competizioni, a squadre ed individuale, le categorie per cui gli Azzurri, provenienti da tutto lo Stivale, cercheranno di dare il meglio di sé a colpi di dito sono le seguenti: Under 12, Under 15, Under 19, Femminile, Veteran e Open, la principale.

Le vittorie ottenute nel corso degli anni non fanno che confermare il ruolo dominante del nostro Paese, in uno sport che sempre di più riesce a coinvolgere giovani e donne. Durante i Mondiali 2017 di Parigi, ad esempio, la Nazionale Italiana di Calcio Tavolo, sulla scia dei successi ottenuti in Belgio nel 2016, ha portato a casa ben 8 titoli su 12: oltre ai successi della categoria Open e Veteran, infatti, l'Italia si è fatta valere anche in tutte le altre categorie giovanili. Negli anni, l'Italia ha vinto più di 40 titoli mondiali a squadre e circa 50 titoli individuali.

I nostri portacolori hanno un'esperienza a livello internazionale invidiabile, cosa di fondamentale importanza in manifestazioni sportive come i Mondiali”, commenta il Presidente della Fisct, Paolo Finardi. “Auguro a tutti di riuscire a dare il meglio di sé, di rimanere concentrati sin dalla prima partita e di rispettare la maglia che si indossa. Quando si gioca per la Nazionale – conclude il Presidente Fisct Finardi - si gioca tutti con la stessa identica maglia, cambia solo la taglia!”.

È vero, quest'anno la Nazionale Italiana di Calcio non ha partecipato ai Mondiali in Russia: ma se un goal con sforbiciata al novantesimo toglie il fiato, chi dice che non possa essere lo stesso per un colpo di dito in zona Cesarini? Forza Azzurri!

Per maggiori informazioni
www.fisct.it
www.italiasubbuteo.it



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Ricchi di fantasia: il poster in esclusiva della commedia con Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli

Il film di Francesco Micciché è la storia di un viaggio da Roma alla Puglia e uscirà il 27 settembre.

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Un marito a metà: una clip esclusiva della commedia francese su un uomo in affidamento congiunto


"Chiudere gli occhi è molto meglio quando si ha ha che fare con gli str…" - dice a Sandrine, mentre si occupa del giardino, la sua veneranda madre, donna saggia e con un gran senso dell'umorismo che da decenni sopporta i tradimenti del marito pur di avere accanto un uomo che si addormenta con la testa sulla sua spalla quando fa buio la sera. Lo dice in una clip di Un marito a metà che vi mostriamo in esclusiva e che riprende un annoso dibattito riguardo alle infedeltà coniugali: conviene tacere e accettare a testa china di non essere solamente in due, ma in tre, quattro o più, oppure ribellarsi, farla finita e rimettersi sulla strada della singletudine sperando di incontrare un compagno di vita più serio? La protagonista del film, che ha il volto di Valérie Bonneton, sceglie una terza via: condividere il fedifrago Jean (Didier Bourdon), a settimane alterne, con l'amante di costui, Virginie (Isabelle Carrè).

Ad avere questa idea, che costituisce una variante certamente originale del triangolo amoroso ed è gustosamente originale, è stata Alexandra Leclère, che ha già diretto Bourdon e la Bonneton nella commedia sociale del 2016 Benvenuti... ma non troppo. Anche là c’era qualcosa da spartire con altri (una casa), mai toni erano certamente meno audaci, oltre che più seri. Non che Un marito a metà sia un film irriverente o licenzioso (o libertino), ma si parla di sesso e ci si scherza su, e la Bonneton, che si è divertita moltissimo a leggere il copione, non ha difficoltà a spogliarsi quasi completamente.

Un marito a metà è in parte un'opera autobiografica. Anni fa, Alexandra Leclère, da amante di un uomo regolarmente sposato, gli ha proposto di dividersi fra lei e la moglie. Lui ha rifiutato, dandosela immediatamente a gambe e, tempo dopo, pensando a una commedia incentrata sulla coppia, la regista si è ricordata del curioso fatto. Anche Didier Bourdon ha trovato il film esilarante e ha ammesso che, a 25 anni, avrebbe accettato di buon grado di passare da un letto all'altro. Adesso lo troverebbe faticoso, e a ragione. Il suo Jean, infatti, che non è esattamente un ragazzino, dapprima sembra entusiasta del ménage à trois, e se ne vanta con gli amici, poi comincia a stancarsi, anche perché, nel frattempo, le donne sono diventate alleate e se la ridono alle sue spalle. E pretendono prestazioni straordinarie.

Un marito a metà è nelle sale italiane dal 30 agosto distribuito da Officine UBU.



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