sabato 31 agosto 2019

Venezia 76 - Adults in the Room

Adults in the room di Costa-Gavras, tratto dal libro ononimo di Yanis Varoufakis, ministro delle finanze greco nel 2015, mostra le lunghe e tortuose trattative tra il governo ellenico e L'Eurogruppo per tentare di fronteggiare e affrontare la crisi e il tracollo della Grecia durante il governo Tsipras.
Adults in the room, appunto, sono le "grandi" personalità, che trattano e prendono, a porte chiuse, decisioni compiendo scelte di fondamentale importanza. _ Il film, narra la vicenda della crisi ellenica rivelando i dettagli del dietro le quinte, esplorando l'aspetto diplomatico e le strategie di potere e di gioco utilizzate dai "potenti"sul tavolo delle trattative.
Pur girato in parte in ambienti chiusi, volendo presentare gli estenuanti dialoghi tra le parti, Gavras riesce a realizzare un lavoro dinamico e stimolante, dove non rivestono importanza solo il luogo o le singole personalità, che vengono comunque ben dipinte e raffigurate, ma si evidenziano perfettamente l'atmosfera tesa che si respira, la tensione palpabile e la difficoltà, a volte, di stabilire un confine netto tra ciò che è giusto e ciò che non lo è.

Il risultato, data la tematica, avrebbe potuto essere più contorto, tortuoso e noioso, invece le scene risultano ben strutturate e il ritmo del film è scandito da dialoghi brillanti sostenuti da buone interpretazioni.
Per tutta la durata del film si respira la costante e frustrante percezione di un mancato incontro da cui non si riesce a venir fuori e che finisce per diventare una trappola senza vie d'uscita.
L'occhio di Gavras, mostra infatti, basandosi sugli scritti di Varoufakis, protagonista allora della vicenda, le difficoltà nel trovare un incontro, avendo scarsa possibilità di giungere a un compromesso se non quello di adeguarsi a certe regole imposte.
Nonostante tutto, il protagonista, interpretato da un eccezionale Christos Loulis è dipinto come un instancabile lottatore, fermo sulle sue posizioni e incapace di adeguarsi, di cedere o accettare soluzioni inaccettabili.

La percezione generale è quella di trovarsi in una sorta di teatrino dove a volte prevale la strategia, altre volte il gioco sottile e nascosto, più spesso, sono i meccanismi stessi a dettare le regole e a imprigionare i protanisti di questo dramma così reale.

(Adults in the room); Regia: Costa-Gavras; sceneggiatura: Costa-Gavras; fotografia: Yorgos Arvanitis; montaggio: Lambis Haralambidis; musica: Alexandre Desplat; interpreti: Christos Loulis, Alexandros Bourdoumis, Ulrich Tukur, Daan Schuurmans, Christos Stergioglou, Dimitris Tarlow, Alexandros Logothetis, Josiane Pinson, Cornelius Obonya, Aurélien Recoing, Vincent Nemeth, Francesco Acquaroli, Thanos Tokakis, George Lenz, Themis Panou, Maria Protopappa, Valeria Golino; produzione: KG Productions (Michèle Ray-Gavras, Alexandre Gavras), France 2 Cinéma, Wild Bunch (Brahim Chioua), Odeon (Manos Krezias); origine: Francia, Grecia, 2019; durata: 124'



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Venezia 76 - Vivere

La Archibugi ama la famiglia, la scruta con occhio da entomologo, ne conosce le declinazioni positive e negative, la inneggia, la mastica, la re-impasta, la digerisce, la vomita, la spalma sul piatto come Nutella.
Dal suo esordio, nel lontano 1988, con Mignon è partita ha esplorato le differenze sociali, il mondo dell'adolescenza, le bugie normali e quotidiane della vita.
Ora, con la maturità di un percorso cinematografico trentennale, scandaglia con sguardo lucido ma sempre partecipato le nefandezze umane commiste a una critica sociale acuta e circolare come una mappa ineluttabile di salita e discesa negli inferi.
Vivere la famiglia come luogo di incontro di personalità diverse non necessariamente complementari diventa complesso se non si hanno denari per arrivare alla fine del mese, se la tendenza a dimenticare portafoglio, chiavi e borsetta supera l'ansia di essere una buona madre, se il padre famiglia non censura nessuna attrazione per donne al di fuori della compagna perché, come dichiara, “è fatto male”.
Luca Attorre (Adriano Giannini) è un attraente giornalista freelance che lavora da casa e riesce a piazzare un pezzo su dieci. Susi (Micaela Ramazzotti), la madre della sua secondogenita Lucilla di sei anni affetta da un'asma forse psicosomatica, insegna danza alle ciccione della periferia dove abita, avendo dovuto forzatamente abbandonare il sogno di diventare una ballerina classica quando è rimasta incinta.
Nella loro quotidianità è arrivata come ragazza alla pari Mary Ann (Roisin O'Donovan), una studentessa di storia dell'arte irlandese fervente cattolica (Roma suo luogo ideale) a portare una ventata di verità a ognuno dei componenti della famiglia, non ultimo il diciassettenne Pierpaolo, figlio primogenito di Luca con una precedente moglie, nipote di un avvocato di grido impelagato nella politica e in loschi traffici.
Gli incastri emotivi, sentimentali e seduttivi dei protagonisti, dopo un anno passato insieme, sconvolgeranno gli equilibri prestabiliti e modificheranno il corso degli eventi.
La rappresentazione di un carattere vile e autoindulgente come quello interpretato da Gianni - maschio egoista vile come padre e come uomo - è tra gli elementi più riusciti di un film con grandi aspirazioni, non tutte raggiunte nella messa in scena.
Cast di attori italiani ben oliato, Massimo Ghini azzeccato forse come mai prima d'ora.

(Vivere); Regia: Francesca Archibugi; sceneggiatura: Francesca Archibugi, Francesco Piccolo, Paolo Virzì; fotografia: Kika Ungaro; montaggio: Esmeralda Calabria; musica: Battista Lena; interpreti: Micaela Ramazzotti, Adriano Giannini, Massimo Ghini, Roisin O'Donovan, Marcello Fonte; produzione: Lotus Production, Leone Film Group, Rai Cinema, 3 Marys entertainment; distribuzione: 01; origine: Italia, 2019; durata: 103'



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The Exorcist (1973)

The Exorcist

“I'm the Devil. Now kindly undo these straps.” — Demon

The Exorcist was not your average blockbuster film. Called “the greatest horror film of all time” by many, it has remained unparalleled in terms of its initial reception, its cultural impact and its subsequent adoption into the American film canon. With a worldwide gross of over $440 million, countless magazine covers and Evangelist preacher Billy Graham proclaiming “the Devil is in every frame,” it was a phenomenon. On its release Variety called the film “pure cinematic terror” and the New York Daily News proclaimed it “a brilliantly successful horror movie.” Pauline Kael, writing for the New Yorker, grudgingly admitted that, “The Exorcist is too ugly a phenomenon to take lightly.”

Based on William Peter Blatty’s book of the same name, The Exorcist was inspired by an account of a real-life exorcism Blatty had heard of while attending Georgetown University in 1949. It would take him another two decades to write and publish the book but, remembering the incident which inspired it, he decided to use Georgetown, Washington as a setting for the screenplay.

Both the book and the film follow elderly Jesuit priest Father Merrin (Max Von Sydow) who, while on an archaeological dig in Iraq, uncovers an ancient amulet.…

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Venezia 76 - Ema

In questi anni destabilizzanti e confusi le famiglie non sono più solo quelle di sangue, ma delle accozzaglie anomale di scelte preferenziali per vicinanza di gusto, di genere, di sguardo.
Ema (Mariana Di Girolamo) è una bella ragazza con i capelli decolorati bianchi, indossa tutte sportive rosse con le righe bianche ai lati delle gambe e giubbotti oversize che le nascondono la figura.
È magra, slanciata, la pelle del viso diafana, lo sguardo penetrante come un diamante. È sopra i vent'anni ma sotto i trenta.
Nelle prime scene si presenta in un ufficio da dove viene subito scacciata da una funzionaria che non le vuole fornire notizie di Polo, il suo bambino adottivo di cui ha perso le tracce.
Attraverso un dialogo allusivo, affatto esplicativo, lo spettatore desume che deve essere accaduto qualcosa di grave, un incidente in cui qualcuno si è ustionato, di cui il bambino risulterebbe essere il colpevole.
Ema va alle prove dello spettacolo, balla davanti a un sole infuocato sullo sfondo, un gruppo di ballerini eseguono una danza circolare dalla perfetta sincronia, sotto gli occhi del regista.
È Gaston (Gael García Bernal), il coreografo con cui Ema è sposata che ha dodici anni più di lei.
Una crisi è in atto tra loro, ne sono consapevoli tutti coloro che sono loro intorno, cominciano a diventarne consapevoli anche i due diretti interessati.
Ema va via di casa, pronuncia parole dure nei confronti dell'uomo, ha una carica distruttrice negli occhi, una caparbia ai limiti dell'ossessione, la stessa che mette nella sequenza di movimenti ritmati e selvaggi del reggaeton.

Per le strade della città di Valparaíso, Ema si muove di giorno e di notte, selvatica come un animale in gabbia, vendicativa come un'eroina da tragedia greca, alla ricerca di qualcosa e di qualcuno che la accolga, da accogliere, da baciare, da cui essere toccata.
Come in un labirinto pieno di trappole nascoste il film si dipana tra scene di sesso allucinato, spettacolari incendi di macchine e semafori, la baia del porto come una quinta per coreografie di gruppo e di assoli da videoclip, in una quadriglia da girotondo davanti ad uno specchio con la attuale coppia adottiva dello stesso bambino che Gaston e Ema hanno mandato indentro come un pacco postale.
Una storia senza moralismi, libero nella forma e nel contenuto, onesto nel disorientare attraverso il disorientamento dei personaggi, senza possibilità di essere etichettato in un genere. Contemporaneo nel descrivere la libertà sessuale tra i giovani, lo spregio delle convenzioni, la speranza di potersi ancora inventare una modalità di vita diversa, nuova, senza confini né regole imposte.

(Ema); Regia: Pablo Larrain; sceneggiatura: Guillermo Calderón, Pablo Larraín, Alejandro Moreno; fotografia: Sergio Armstrong; montaggio: Sebastián Sepúlveda; musica: Nicolás Jaar; interpreti: Mariana Di Girolamo, Gael García Bernal; produzione: Fabula (Juan de Dios Larraín); origine: Cile, 2019; durata: 102'



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Venezia 76 - J'accuse

Raccontare la Storia passando da un totale con centinaia di comparse in costume al dettaglio di una medaglia al valore che cade nella fanghiglia; inquadrando cinque figure adagiate su un prato a far colazione nella stessa postura e soffuse degli stessi colori di un dipinto impressionista; filmando corpi, volti, tube, uniformi, mustacchi, pince-nez, toilettes muliebri, velette, crinoline, vestaglie, mappamondi, scaffali d'archivio, con quel senso plastico delle immagini comune, tra i registi oggi in attività, solo a Spielberg, o a Shyamalan (oltre a Hitchcock, Ophüls e David Lean tra quelli che non ci sono più), rievocando con la mano antica del grande romanziere la nobiltà dei sentimenti, dei princìpi, dell'onore, che animava la società europea sullo scorcio finale del secolo decimonono, maturata e cresciuta dopo un secolo dalla rivoluzione del 1789 eppure pronta a cadere nel baratro imminente di una Guerra Mondiale: questo è il miracolo che è riuscito a compiere Roman Polanski con la sua nuova opera, tratta dal best-seller di Robert Harris e con lui sceneggiata, J'accuse. Chiunque abbia letto la Ricerca del Tempo Perduto di Marcel Proust sa bene che, con i Guelfi e i Ghibellini, o i Capuleti e i Montecchi, tra le più famose fazioni opposte nella Storia dell'Occidente ci sono i Dreyfusardi e gli Antidreyfusardi, protagonisti di un momento storico solcato da fermenti e tensioni che andavano al di là della politica, pur condizionandola direttamente determinando e delinenando i punti cardine della futura attività politica della destra nazionalista e conservatrice, e del socialismo progressista. L'Affaire Dreyfus, argomento di conversazione nei salotti del Beau Monde parigino come nei caffè, nelle piazze e negli ambienti più popolari di qua e di là della Senna, spaccò letteralmente in due una nazione evidentemente giunta a un punto di pericoloso stallo per le idee di libertà e giustizia gestite da un potere ancora troppo ubriaco di se stesso per potersi spogliare dei pesanti retaggi ideologici che agitavano l'intero scenario politico di un Continente appesantito dallo spettro dei nazionalismi e dell'antisemitismo. In breve: per risolvere un grave caso di spionaggio militare, piuttosto che individuare il vero colpevole si preferì incastrare Alfred Dreyfus, un ebreo totalmente immeritevole dell'accusa di alto tradimento per la quale fu degradato in pubblico e spedito in esilio in un'isoletta sperduta nelle colonie francesi. Ma il colonnello Piquart scopre indizi tali da smontare l'accusa e dunque invalidare la sentenza della Corte, e con nuove prove che scagionerebbero il condannato vorrebbe far riaprire il caso, coinvolgendo personalità della politica e della cultura, come lo scrittore Émile Zola, che denunciò sulle prime pagine dei giornali tutte le più alte cariche del Governo e dell'Esercito con l'accusa (‘J'accuse...') di aver inquinato le prove e aver formulato troppo frettolosamente il verdetto di colpevolezza.

Non è un caso che Polanski tenesse in particolar modo a realizzare un film sul caso giudiziario di un innocente perseguitato con l'ostinazione di un sistema di potere insensibile al dolore profondo e alla dignità vilipesa di un uomo e di un'intera famiglia. Non è difficile intuire quanto la stessa vicenda giudiziaria che da oltre 40 anni gli impedisce di viaggiare liberamente e lavorare in piena serenità debba avergli fornito un bagaglio motivazionale di entità notevole. Ha aspettato otto anni per riuscire a trovare i finanziamenti che gli permettessero di girare J'accuse con un cast interamente francese che inanella nomi di stellare qualità, da Jean Dujardin a Luis Garrel, da Mathieu Amalric a una lunga serie di nomi augusti della Comédie Française, e la lunga attesa ha prodotto l'effetto di un'urgenza narrativa di speditezza beethoveniana: alla musicalità asciutta della macchina da presa che incede come uno spadaccino concentrato su tempi e scarti dell'affondo, Polanski combina l'amore profondo per l'umanità del compositore del Fidelio e della IX Sinfonia, la sua comprensione per tutti i sentimenti, anche i meno limpidi, di chi non possiede la statura per decodificarli, stretto fra l'obbligo dell'obbedienza agli ordini, cardine di un sistema che di questi ordini è consustanziato, e che crollerebbe su se stesso qualora venisse meno il rispetto per la gerarchia che lo gestisce.

Ma il calore e la tenerezza che Polanski riserva ai piccoli gesti dei grandi e meno grandi protagonisti di questa storia reale e di attualità più che vivida, considerando l'angosciante panorama politico e sociale che minaccia il nostro mondo con il ritorno dei nazionalismi e dell'odio razziale, sono la firma autografa ed inconfondibile di uno degli ultimi grandi umanisti della macchina da presa: una sigaretta spenta in una cineriera come sigillo di un ordine non scritto; un mustacchio che frigge tra zigomo e guancia ripreso di sguincio per sopprimere una reazione d'ira sconveniente da esibire in pubblico; il Secondo Quartetto con pianoforte di Fauré eseguito forse proprio nel salotto della proustiana Madame Verdurin, dove al posto di Marcel compare, mescolato tra gli ascoltatori in piedi, lo stesso Polanski; la discreta intercettazione di una relazione sentimentale tra due uomini commentata dagli investigatori con quell'umana pietà che era il massimo da pretendersi nella Parigi (ed è di nuovo Proust) dei Jupien e degli Charlus... Le inquadrature dedicate a sua moglie, Emmanuelle Seigner, accarezzata dai bagliori del sole in controluce in rispetto della sua età non più giovanissima, o scoperta sui seni e sulle ginocchia fin dove può arrivare la giustificata gelosia di un marito innamorato: tutti indizi della monumentale statura morale di un narratore prolifico e generoso, che dietro l'apparenza del period piece ci impartisce la sua magistrale lezione di regia. E di vita.

(J'accuse); Regia: Roman Polanski; sceneggiatura: Robert Harris, Roman Polanski; fotografia: Pawel Edelman; montaggio: Hervé de Luze; musica: Alexandre Desplat; interpreti: Jean Dujardin, Luis Garrel, Emmanuelle Seigner, Mathieu Amalric, Melvil Poupaud, Vincent Perez; produzione: Légende, R.P. Productions; distribuzione: 01 Distribution; origine: Francia, 2019; durata: 126'



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Venezia 76 - Fellini Fine Mai

Parla in prima persona Eugenio Cappuccio nel suo Fellini Fine Mai.
Lo fa nella consapevolezza che, se veramente vuol dire qualcosa che suoni nuovo su un autore così enorme, bisogna diventare un po' come Fellini: uno che per raccontare d'altro è sempre dovuto partire da sé stesso. Che è anche un po' un modo per sottolineare come, per dire la verità, bisogni sempre passare per la bugia.
Consapevole del piglio autobiografico insito nel gesto felliniano, Eugenio Cappuccio ha allora deciso di partire da sé stesso, dalla sua consuetudine con il cinema di Fellini da ben prima della sua esperienza diretta di collaboratore del regista riminese per Ginger e Fred.
Presa in spalla la telecamera, il nostro ha quindi intrapreso un viaggio che è tanto nello spazio (dalla sua Roma ai luoghi cari al cinema dell'autore di 8 e 1/2) quanto nella memoria. Una telecamera puntata sia verso il tragitto intrapreso che sulla persona che lo compie.
Un'operazione, questa, che ha davvero ben poco a che vedere con la pratica oggi giunta a livelli di esasperazione dei selfie ed è, piuttosto, messa in discussione, anche in chiave ironica, della propria stessa posizione di narratore.
L'io narrante, insomma, che è anche soggetto spesso filmato, accetta di decostruire a monte ogni possibilità di assurgere a una posizione onnisciente. Un gesto che certifica non solo l'impossibilità dichiarata di conoscere fino in fondo Fellini, ma anche di conoscere sé stesso e le motivazioni che lo spingono a filmare. Il racconto assume quindi i contorni di un'indagine continuamente messa in discussione, pronta a deridere il suo stesso sforzo conoscitivo che è importantissimo, certo, nel suo anelito alla ricerca, ma destinato sempre in qualche modo al fallimento dal momento che la verità ultima resta sempre sfuggente.

Fellini Fine Mai supera quindi le dinamiche del classico racconto biografico (sia pur filtrato in un'autobiografia ideale). Nella sua prima parte, il ripercorrere divertito le tappe salienti della carriera di un genio è solo apparentemente lineare. Piuttosto la narrazione è costantemente aperta a digressioni ironiche, a frammenti che sfuggono a ogni vocazione scientifica o accademica di raccolta del materiale. Le interviste ai vari collaboratori e allo stesso Fellini non sono montate secondo un percorso esplicativo, ma puntano piuttosto a rivelare i non detti, le contraddizioni, gli angoli inusuali da cui riprendere e riproporre ciò che è ormai entrato nell'immaginario collettivo. Ne viene fuori il ritratto di un Fellini come se fosse colto da una porta di servizio, da una prospettiva sfalsata, diversa da quella (a suo dire la migliore) che lui stesso imponeva ai cameramen che lo filmavano durante un'intervista.
La seconda parte, viceversa, nel centrare l'attenzione sui due progetti non realizzati di Fellini (Il viaggio a Tulum e il Mastorna) segna un brusco stravolgimento delle regole e avvia un percorso da detection consapevole, in primis, dell'enorme originalità del materiale presentato che passa anche per snodi dolenti della biografia del regista, non ultimo il litigio che segna la fine della sua amicizia con lo scrittore Andrea De Carlo.
Ne viene fuori la scoperta di un vero e proprio giardino segreto, colmo di momenti di vita che sembrano quasi strappati dalle immagini di un film del regista e che dimostrano che quanto detto da più parti dai conoscenti del regista riminese era assolutamente vero: che la sua vita era esattamente come un suo film.
Apprendiamo allora, con divertimento, del fatto che il progetto di Il viaggio a Tulum fu funestato da telefonate che Fellini riceveva da sedicenti entità tolteche. Chiamate così assurde da far nascere, in Cappuccio e nello spettatore, l'idea che il tutto fosse addirittura una montatura orchestrata da Fellini per divertirsi alle spalle degli amici. E veniamo anche a conoscenza, scoop nello scoop, delle persone reali che hanno fatto da modelli ai personaggi partoriti da Fellini e Milo Manara e che avrebbero dovuto interpretarli sullo schermo prima che creature dell'aldilà ci mettessero lo zampino.

Lo spirito irriverente che Cappuccio sa infondere al suo racconto non viene meno, neanche nella seconda parte di Fellini Fine Mai. Resta, tuttavia l'impressione che la frattura tra la prima e la seconda parte del documentario, pur se profondamente voluta e in qualche modo motivata dal regista, ne costituisca comunque il maggior difetto.
Tutto il segmento sui film non realizzati è, infatti, talmente ricco e inedito da far impallidire il resto. Così si ha l'impressione di uno squilibrio interno delle parti che un poco dispiace. Ed è un peccato perché le premesse del capolavoro c'erano tutte davvero.

(Fellini Fine Mai); Regia: Eugenio Cappuccio; montaggio: Graziano Falzone; musica: Vincenzo Lucarelli; suono: Ivan Sibio; interpreti: Andrea De Carlo, Francesca Fabbri Fellini, Milo Manara, Vincenzo Mollica, Sergio Rubini, Mario Sesti; produzione: Rai Cinema, Rai Teche, Aurora TV (Giannandrea Pecorelli); origine: Italia, 2019; durata: 80'



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Venezia 76- Electric swan

Un palazzo in quartiere malfamato di Buenos Aires è il luogo di incontro/non incontro di insoliti personaggi e diventa il fulcro delle strane vicende - emotive - che accadono nell'edificio.
Una signora anziana stanca di vivere, una bambina inquietante dai boccoli rossi che sembra avere visioni e premonizioni, una ballerina sensuale, insoddisfatta e malinconica e poi il portiere del palazzo, che sembra l'ago della bilancia di questo microcosmo umano destinato a essere chiuso nel proprio intoccabile spazio.
Gli inquilini, infatti non comunicano e non parlano tra di loro, ma si rapportano tutti al custode, rivelando, ognuno a suo modo, instabilità, fragilità e incertezze.
Il disequilibrio umano raggiunge l'apice quando l'edificio oscilla, suscitando il tremolio dei lampadari e le diverse reazioni dei personaggi: le oscillazioni esterne sono il simbolo dell'altalena emotiva umana, che a più riprese e con differenti gradazioni di intensità, oscilla tra emotività repressa e reazioni istintive.
L'unico punto di contatto di un'umanità "isolata" sembra essere la creazione, per ciascun coinquilino, di un universo artificiale, un mondo "nuovo", nato per rappresentare l'unico non luogo capace di legare alcuni tra i protagonisti.

Pur non possedendo una reale e oggettiva omogeneità, il film cattura perché è pieno di momenti poetici e suggestivi, che incantano lo spettatore regalando scene inaspettate e inusuali.
Lo sguardo di Konstantina Kotzamani ci mostra un'umanità capace di incontrarsi solo grazie ad un magico incantesimo, dove ognuno assume una forma "rinnovata" e più vicina - forse - all'espressione del proprio mondo interiore.
Electric Swan pur non dotato di coerenza e di una salda struttura omogenea, risulta comunque, per una riuscita combinazione di alchimia estetica, di intuizioni creative e surreali, nell'insieme armonico, nuovo e originale.

Electric swan; Regia: Konstantina Kotzamani; sceneggiatura: Konstantina Kotzamani; fotografia: Roman Kasseroller; interpreti: Juan Carlos Aduviri, Nelly Prince, Elisa Massino; produzione: Ecce Films (Emmanuel Chaumet, Caroline Demopoulos), Homemade Films (Maria Drandaki), UN PUMA (Victoria Marotta); origine: Francia, Grecia, Argentina, 2019; durata: 40'



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Venezia 76 - Rare Beasts

Bilie Piper prima di fare l'attrice è stata cantante e ballerina fino al 2003. Non una qualunque: il suo singolo d'esordio, Because We Want to, l'ha tirato fuori dal cappello che era appena quindicenne, diventando per questo, come recitano le sue note biografiche, la più giovane numero uno della UK Singles Chart.
Poi l'interesse per la recitazione l'ha portata a teatro e quindi in televisione, dove si fa notare nel ruolo di Rose Tyler all'interno della serie cult Doctor Who .
Come regista, al suo debutto con Rare Beasts si porta dentro un po' tutte le tappe del suo complesso itinerario turistico. Intanto per l'enorme mole di lavoro nella direzione degli attori, evidentissima e necessaria per rendere giustizia a una sceneggiatura scoppiettante e incline al surreale come nel meglio della commedia cinematografica inglese.
Poi per la qualità spesso coreografica nella gestione delle inquadrature e nel ritmo del montaggio che, soprattutto verso il finale, scivola verso un onirismo a tratti molto convincente.
Infine, per la qualità intrinsecamente musicale del gioco narrativo, fitto di modulazioni e continui cambi d'umore con momenti che, a tratti, ricordano la fantasia improvvisativa di certa musica pop meno scontata.
Il tutto a servizio di un esordio riuscitissimo, capace di sintetizzare un umorismo verbale memore del miglior Woody Allen e una libertà inventiva che aspirerebbe, in più momenti, alla qualità visionaria alla Monty Python, ma flirta al tempo stesso coi ritmi di una commedia più normalizzata.

Al centro del discorso la consueta lotta tra i sessi che qui assume contorni inediti. Del resto, nella società contemporanea che è poi quella messa in scena nel film, la definizione dei generi ha da tempo perso il senso che aveva nella realtà preconsumistica fondata sul valore della famiglia più o meno tradizionale.
A fronte del nuovo sistema di potere che più che il lavoratore ambisce a formare il consumatore, l'unità familiare, retaggio millenario della società contadina, non è più meta ideale da conseguire.
La stessa Mandie, protagonista del film interpretata con convinzione dalla regista, proviene da una famiglia disgregata, sottoposta a continui conflitti che costituiscono poi la base del suo malessere esistenziale.
In un certo senso, la donna, che nel frattempo cresce anche un figlio piccolo che ama tantissimo senza riuscire a sentirsene fino in fondo madre, sconta sulla propria pelle il senso di spaesamento che le deriva dall'essere tra i primi anelli di un nuovo sistema di valori in cui la famiglia ha ceduto il proprio posto non si capisce bene a cosa.
Frattanto l'ambito lavorativo diventa palestra di un nuovo conflitto sessista con i maschi che vedono gradualmente corroso il proprio primato, e quindi la propria posizione sociale, e le donne che acquisiscono forza contrattuale sacrificandola però in nome di un femminismo oltranzista che le priva di molte componenti della propria femminilità, non ultima il sentimento materno.

Dall'altro lato dell'agone c'è, poi, Pete, esponente di una famiglia non meno disfunzionale pur se apparentemente coesa nell'adesione ai vecchi riti religiosi, anch'essi retaggio di un mondo che ha gradualmente perso senso. Il problema dell'uomo sta tutto nel riconoscimento della propria posizione nel contesto sociale. Persa la certezza garantitagli dal proprio sesso, Pete tenta una propria definizione come compagno di Mandie e potenziale padre per il di lei figlio. Urta, però, da una parte con la difficoltà del bambino di accettarlo come padre e dall'altra con quella della donna che, più vedersi vicino un compagno, si ritrova a dover accudire sostanzialmente due bambini in un sistema di valori femminista che le nega sia la possibilità di realizzarsi come madre, che quella di riconoscere il bisogno di un uomo.
Il finale, risolutivo fino a un certo punto, (che ovviamente non sveliamo qui) ha il coraggio di un atto rivoluzionario che rifiuta la consolazione della classica commedia romantica e non a caso prende corpo nel momento narrativamente e visivamente più libero del film.

Insomma un'opera prima che, pur tra i suoi difetti, ha il coraggio di affondare il proprio bisturi nel mondo d'oggi e ci consegna finalmente uno sguardo femminile che ha davvero il coraggio (e l'incoscienza) di volersi tale.

(Rare Beasts); Regia: Billie Piper; sceneggiatura: Billie Piper; fotografia: Patrick Meller; montaggio: Hazel Baillie; musica: Nathan Coen, Johnny Lloyd; interpreti: Billie Piper, Leo Bill, Kerry Fox, Toby Woolf, David Thewlis, Lily James; produzione: Vaughan Sivell – Western Edge Pictures; origine: Regno Unito, 2019; durata: 89'



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L'estate con i maggiori incassi degli ultimi 8 anni: presentati al Festival di Venezia i risultati di Moviement

Sono stati illustrati da Lucia Borgonzoni, Francesco Rutelli, Mario Lorini, Carlo Bernaschi, Luigi Lonigro, Francesca Cima e Piera Detassis.

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via Cinema Studi - Lo studio del cinema è sul web

Venezia 76 - Scherza con i fanti

Continua il viaggio di Pannone nella memoria collettiva italiana. Dopo Lascia stare i santi, che ha investigato sul nostro rapporto con la religione e i suoi simboli (argomento diventato di sinistra attualità in questo scorcio di crisi di governo) è ora la volta di Scherza con i fanti, presentato nelle Giornate degli autori a Venezia, che ragiona, invece, sul tema della guerra e sulla sua percezione nella cultura popolare.
Come sempre in Pannone, coadiuvato anche in questa occasione dall'intervento musicale di Ambrogio Sparagna che cofirma la pellicola, la ricerca d'archivio su cui si fonda il lavoro di montaggio è quasi il pretesto per una rilettura in chiave antropologica di un profondo senso di appartenenza culturale.
Il film diviene, in questo modo, uno specchio entro il quale lo spettatore medio italiano può vedersi riflesso e al tempo stesso riconoscere, nell'immagine pulsante, il proprio retaggio culturale.
Senza scadere nella retorica, il film racconta quindi i motivi della scarsa inclinazione del popolo italiano alla guerra (ripudiata sin nei principi fondamentali della propria costituzione), ma anche la sua partecipazione ai principali conflitti che hanno insanguinato la storia più o meno recente e in cui trova notevole importanza la rievocazione della Seconda guerra mondiale vista come luogo di una vera e propria guerra civile che ha armato, l'un contro l'altro, fratelli e amici.

Per pervenire a tanto i due registi operano in senso strutturale una complessa operazione di amplificazione polifonica del materiale presentato. Intanto definiscono un rapporto a tratti conflittuale (e quindi in linea con il tema della narrazione) tra la componente visiva e quella musicale.
Mentre l'immagine ci riporta, quindi, all'hic et nunc dello specifico momento storico che l'ha prodotta, la musica vi scava dentro a caccia di echi di quel sentire popolare che proprio nel canto trova la sua più immediata espressione. La musica poi garantisce, nella sua continuità temporale, la possibilità di unificare, nelle microstrutture delle singole sequenze, frammenti visivi estremamente eterogenei e quasi reciprocamente estranei, secondo un modello, in fondo, vecchio come il cinema. Il rapporto dialettico e quasi maieutico del brano musicale rispetto alla controparte visiva è poi complicato dal senso unificante del montaggio che pone in relazione elementi tra loro distanti secondo un modello profondamente intellettuale. Solo in questo modo diventa possibile accostare tra loro realtà storicamente molto diverse come la lotta partigiana e le marocchinate, le missioni di pace in Kosovo e le campagne imperialista dell'Italia fascista.
In questo modo quello che la musica regala all'immagine nella strutturazione delle singole sequenze le viene restituito, con gli interessi, dalla logica narrativa del montaggio della macrostruttura complessiva.

Questa operazione di costante braccio di ferro tra ragioni iconografiche e ragioni etnomusicologiche è anche un braccio di ferro tra ragioni emotive e ragioni razionali, tra il cuore e la mente del film.
E l'equilibrio tra le parti di Scherza con i fanti ha spesso del miracoloso, avverando momenti di intensa poesia.

Ne viene fuori un ritratto inedito del rapporto del popolo italiano con la guerra, diviso tra la pietas che naturalmente deriva dall'essere stato popolo soggetto a lunghe e spesso dolorose dominazioni (feconde, però, di una complessità culturale enorme) e naturale anelito alla pace.
Ma ne viene fuori anche un compianto per quei soldati, vera e propria carne di cannone, i cui sguardi puliti popolano immagini di repertorio che erano state magari pensate per propaganda nazionalistica e che ora diventano monito all'insensatezza di tutti i conflitti.

Per questo diventano centrali anche le letture di diari dei soldati, dei partigiani o anche delle vittime civili della guerra. In particolare sono quattro i diari di guerra che puntellano il racconto: il primo è quello di un soldato lombardo del Regio Esercito di stanza a Pontelandolfo, in Campania, luogo dell'eccidio di civili post unitario più cruento; il secondo, invece, è quello di un autista viterbese del Regio Esercito, che nel 1935, imbevuto com'era di retorica belligerante, andò a combattere in Etiopia per scoprire l'orrore dell'uso dei gas sull'inerme popolazione civile (per inciso: il segmento del film più vivido e potente); il terzo è quello di una giovane cattolica diventata partigiana nella lotta fratricida della guerra civile; mentre, l'ultimo è quello di un sergente della Marina militare napoletano che ha prestato servizio nelle missioni di pace internazionali.

Testimonianze profonde che stanno dentro il farsi della storia, mentre Pulcinella, cui presta mano e voce Maurizio Stammati, rappresenta la dimensione archetipica del combattente suo malgrado, inviato al fronte, posto di fronte alla paura della morte, solo perché il potere ha deciso di risolvere il tratto di matita su una mappa con la guerra.
Testimonianze soprattutto che restituiscono il senso di un percorso tutto umano, tutto dal basso verso l'unica cosa che conta veramente: l'anelito costante a un condiviso bisogno di pace.

(Scherza con i fanti); Regia: Gianfranco Pannone e Ambrogio Sparagna; sceneggiatura: Gianfranco Pannone, Ambrogio Sparagna; fotografia: Niccolò Palomba; montaggio: Angelo Musciagna; musica: Ambrogio Sparagna con la partecipazione straordinaria di Francesco De Gregori; produzione: Istituto Luce Cinecittà; distribuzione italiana: Istituto Luce Cinecittà; origine: Italia, 2019; durata: 72'



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Intervista a Andrew Bujalski - Support the Girls

L'occasione è il London Film Festival, 62 esima edizione. Lo sfondo la suntuosa lounge allestista per la stampa nel centralissimo Mayfair hotel. Da poche ore nella capitale inglese, Andrew Bujalski, il quarantenne regista, sceneggiatore e attore nato a Boston si schiarisce la gola ed è pronto per le domande sul suo ultimo film Support the Girls distribuito da Magnolia. È stato definito "the Godfather of Mumblecore" ovvero il padrino di un sottogenere di film indipendenti che si focalizzano sul dialogo invece che sulla trama e puntano su uno stile attoriale naturalistico per descrivere le relazione interpersonali tra giovani ventenni/trentenni. La descrizione calza a pennello specialmente considerando le sue pellicole precedenti: Funny HaHa (2002), Mutual Appreciation (2005), Beeswax (2009), Computer Chess (2013), Results (2015). Il nuovo film sembra seguire i dettami della tipica indie rom-com maad uno sguardo più attento si rivela come un timido gioiello di girl power, mettendo al centro della storia una sfavillante Regina Hall.

Lisa Conroy (Regina Hall) è la manager di Double Whammies, uno sport bar che sorge al lato dell'autostrada, una sorta di Hooters con un pizzico di classe in più. Chioccia per le sue impiegate, che forma e protegge strenuamente, viene messa alla prova dagli eventi di una diabolica giornata. Riuscirà il suo ottimismo a risorgere dalle ceneri e quale sarà il futuro di un locale così maschilista ora che rischia di perdere la guida di una donna così combattiva?

Per iniziare la nostra chiacchierata, da dove nasce l'idea di base di questo film che hai scritto e diretto?

Ho vissuto per un certo periodo in Texas, ci sono questi locali vicino alle autostrade, e quando sono entrato in uno di questi, forse una decina di anni fa, non so che cosa mi aspettassi veramente, ma qualcosa mi ha stupito. Ed è rimasto dentro di me. Per anni ho pensato - forse c'è una storia che aspetta di essere raccontata, una storia estremamente e unicamente americana. Certo probabilmente sono dei posti volgarotti ma che offrono anche un'atmosfera confortante, vendono un'esperienza e quel senso di appartenenza. Ho pensato che fosse una bizzarra dicotomia tipicamente americana, ricca di contraddizioni. A volte mi dava un senso di tristezza. Sette anni fa ho presentato l'idea come una serie televisiva ma non è successo niente, e devo ammettere che mi sono quasi sentito sollevato. Non lavoro bene nel formato televisivo, preferisco storie che posso iniziare e terminare. Sono passati altri anni e l'idea era sempre lì, ancorata nella mia testa. Così ho pensato di risporlverarla e farla diventare un film. Ed eccoci qui.

Il tuo personaggio principale, Lisa, così materna e affettuosa con le sue impiegate, sei stato ispirato da esperienze personali nel portare sul grande schermo questa figura?

Non c'è una persona in particolare nella mia vita che assomiglia a Lisa, non ho mai incontrato il manager di uno di questi posti, ma sapevo che se avessi scritto di questo tipo di locali avrei dovuto trovare la prospettiva di qualcuno che la pensasse come me. Essendo un outsider non avevo il punto di vista di una giovane donna che lavora in questi locali e neppure quello di un cliente affezionato. Certo sarei molto curioso di vedere la versione di questo film dal loro punto di vista, ma sapevo che scrivendolo io avrei portato la prospettiva di un outsider. Lisa è questo, anche se passa tutto il suo tempo lì non fa parte di quell'ambiente, non è parte della sua cultura. Per quanto riguarda il suo lato materno e protettivo, penso che sia legato al tipo di personaggi che mi attragono di più, l'eterno ottimista, l'ottimista persistente che non si sente sconfitto neanche quando tutto intorno a se crolla, che crea i suoi guai proprio per il fatto di essere ottimista. E questa si è rivelata la direzione stessa del film, osserviamo questa povera donna messa alla prova dagli eventi, inciampare e rialzarsi in continuazione.

Cosa ha significato portare Regina Hall a vestire i panni di Lisa? È stato emozionante lavorare con lei, il suo nome era comparso quasi istantaneamente tra le potenziali attrici per la parte di Lisa. Siamo stati molto fortunati ad averla come parte integrante del nostro progetto vista la sua carriera e la quantità di ruoli che ha rivestito negli ultimi tre anni. La tempistica ha giocato a nostro favore. Ci siamo incontrati in un piccolo bar proprio dopo la fine delle riprese di Girls Trip (Il viaggio delle ragazze, 2017), mi invitò alla festa di chiusura del film a New Orleans, una storia che racconterò ai miei nipoti! Durante quel breve incontro, sorseggiando caffe, iniziai già a proiettare il personaggio su Regina e pensando a tutte le sfaccettature che essa poteva portare al personaggio, cominciai a sentirmi elettrizzato all'idea di averla come protagonista del film. Certo non ero cosciente del successo che avrebbe avuto quell'incontro, si tratta sempre di scommesse e fa paura lavorare con qualcuno per la prima volta. Posso dire che Regina ha sorpassato ogni aspettativa, a tutti i livelli, non avrei potuto desiderare una collaboratrice migliore di lei. Ha reso il mio lavoro estremamente facile.

Parlando della fase di scrittura, tutti i personaggi e i dialoghi sono frutto della tua immaginazione o hai fatto della ricerca sul campo?

Si effettivamente mi sono documentato, ho parlato con delle vere cameriere di questi locali e cercato di cogliere più dettagli possibili. Molto è frutto della mia immaginazione, ma anche di ciò che deriva dalla riflessione sul tipo di posto in cui ci troviamo e sul concetto che volevo trasmettere. Gran parte della storia parte dalle mie supposizioni. Sono andato spesso a pranzo in questi locali nella fase iniziale di scrittura, cercando di non far trasparire la mia identità di sceneggiatore, ma è parte della procedura di questi posti l'interazione con il cliente, chiaccherando e flirtando con esso. Non sono molto bravo a ricevere questo tipo di attenzioni, tuttavia sono riuscito a parlare con uno dei proprietari che generosamente mi ha concesso di intervistare le sue dipendenti. Quindi si, ho fatto della ricerca.

C'è stato un ostacolo difficile da superare nella fase di produzione del film?

Certo. Magari fosse solo uno! Ma quello che ricordo meglio è legato alla location e all'atmosfera che si è creata sul set. Per uno strano scherzo del destino, la location dove abbiamo girato il film era un catena di questi ristoranti che è stata chiusa, era deserta e abbiamo potuto ricreare il nostro mondo senza interferenze altrui. Tuttavia, proprio di fianco a essa sorgeva un altro di questi locali ancora in attività. Eravamo tutti molto intimiditi da questa ingombrante presenza, perchè ci sarebbe bastato fare qualche metro per avere di fronte agli occhi l'esatta realtà di ciò che stavamo cercando di replicare. Durante tutte le riprese c'è quindi sempre stato questo sentimento di sottofondo: non possiamo competere con la realtà, ogni dettaglio in quel locale è permanente. Ci siamo dovuti arrendere all'evedidenza dei fatti, in fondo non stavamo girando un documentario. In parte mi fa soffrire questa idea, perchè come regista spero sempre di ottenere quel risultato così naturalistico da sembrare un documentario. Ma questo era un tipo di film diverso, con una motivazione diversa.

Il film è una commedia molto sobria e controllata, mi chiedo se le scelte sulla fotografia riflettano questo tono sottomesso?

Sì, penso di sì. Il direttore della fotografia è Matthias Grunsky, abbiamo girato sei film insieme e ci conosciamo molto bene. Comunichiamo attraverso grugniti, ormai! A questo punto penso a lui come l'estensione dei miei stessi occhi. Come hai definito la commedia? Sobria e controllata, si credo che siano gli aggettivi giusti, si è esattamente come definirei il mio tempo sulla Terra (ride).

Il film parla di una famiglia allargata sul posto di lavoro, o almeno questo è il sentimento che traspare, come regista condividi questa etica lavorativa e come ti sei confrontato sul set con le tue attrici?

Personalmente ho una soglia molto bassa di sopportazione per l'ansia e lo stress e per le persone che portano ansia e stress sul set. È per natura un ambiente stressante, lavori per tantissime ore con le stesse persone, le troupe cinematografiche sono strane, è una sorta di colonnia estiva e tu speri che tutti si stiano divertendo. In genere credo che tutti si siano sentiti al sicuro e protetti sul set. Forse la parte più difficile da superare è stata questa scena notturna un po' scabrosa, proprio per la natura stessa della scena le ragazze sul set dovevano sentirsi vulnerabili. Avevamo tante comparse, persone nuove e sconosciute, è stata una delle scene più difficili. Abbiamo cercato di fare il nostro meglio, guardando tutti negli occhi e facendo capire che tipo di comportamento avremmo tollerato o non tollerato. Penso che per la maggior parte sia andata bene. Ma è stata una notte difficile, ricreare quella crudezza. Ed è lì, è presente nel film.

Per concludere, se posso citare uno dei tuoi personaggi, Macy, e la sua frase: "C'è un enorme differenza quando il tuo capo tiene a te". Riflettendo su questa logica, fa la differenza sul set l'essere affezionati ai propri personaggi e di conseguenza agli attori che li interpretano?

Non c'è modo per me di rispondere a questa domanda senza congratularmi con me stesso, devo assolutamente affezzionarmi ai miei personaggi e allo stesso modo agli attori, è per questo che non sono uno scrittore perchè ho bisogno di quell'energia che scaturisce dal contatto umano. Anche se ti dedichi a una storia oscura devi investire con amore. E questo mi spaventa, andando avanti nella mia carriera e diventando adulto, perchè ho iniziato con tutto l'entusiasmo e la spensieratezza di un uomo che ama i film prima di tutto. Ma c'è sempre la paura che quando diventa la tua carriera le scelte non sono piu motivate dal mero amore per l'arte ma dal pagare le bollette. Fin ora non è stato così.



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Venice 2019: First glimpses

DB here:

We’re a bit rushed right now to post, but suffice it to say that we’e already seen Kore-eda’s La Verité, Gray’s Ad Astra, Al-Mansour’s The Perfect Candidate, Sandoval’s Lingua Franca, the restored Oliveira masterpiece Francisca, Larraín’s Ema, and Polanski’s J’Accuse . . . and others. We’ll brief you on these, but I did want to register what fun it was to see a radiant Pedro Almodóvar at his press conference, on the occasion of his receiving the Golden Lion Career Award. A RAI video is here.

We’ll soon be putting up more pictures on our Instagram page.



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venerdì 30 agosto 2019

Venezia 76 - Il sindaco del rione Sanità

Chi frequenta il mondo della Lirica è abituato ad assistere ad allestimenti dei titoli del repertorio che, per diverse ragioni comprese tra le limitazioni del budget e l'eccentricità di registi particolarmente ‘creativi', spostano l'epoca dell'azione raccontata nel libretto in epoche completamente diverse, con viva preferenza per la nostra tormentata attualità. Traviate, Sigfridi e Butterfly muoiono tragicamente nel parcheggio di un Autogrill, nella corsia di un ospedale del Bronx, o in una piattaforma petrolifera in mezzo all'Oceano. Nei casi più nobili, là dove l'intenzione è quella di evidenziare similitudini e parallelismi tra i tempi in cui quell'opera vide la luce e la nostra contemporaneità, l'esito è convincente e lo spettacolo può dirsi pienamente riuscito, al di là di qualche inevitabile e comprensibile rifiuto da parte del pubblico più ‘conservatore'. Il sindaco del rione Sanità è una celebre commedia che Eduardo De Filippo scrisse nel 1960 ispirandosi a fatti e personaggi reali degli ambienti della Camorra napoletana, ed è già stata oggetto di trasposizione cinematografica nel 1996, con l'omonimo film diretto da Ugo Fabrizio Giordani e interpretato da Anthony Quinn, che anticipava la vicenda agli anni '40 del XX secolo. Mario Martone, invece, con gesto geniale e non privo di una forte valenza ‘politica' venata della stessa ambizione utopistica che già fu di Eduardo, mette in bocca le battute della commedia del 1960 ai camorristi della Napoli odierna, e al posto di gessati, ghette e Borsalini, esibisce un'antologia di canotte, giubbini di pelle, rasature alte, orecchini, tatuaggi, stivaletti, jeans strappati e aderenti, rossetti carichi e femminilità procaci, pacchianeria d'arredamento di interni, l'intero corredo estetico, insomma, che abbiamo imparato a conoscere dai film e dalle serie televisive proliferate dal Gomorra di Matteo Garrone in poi. E nella attualizzazione di parole ed espressioni lasciate più o meno identiche al testo eduardiano, ancora più struggente è la statura che assume il personaggio di Don Antonio Barracano, boss ‘buono' e ‘malgré lui', inserito in un sistema malavitoso in cui si è ritrovato a crescere e a vivere, eppure con un'idea etica della legge forse troppo pragmatica per i codici, ma con una propria luminosa e lucida voglia di giustizia autentica. Tutto questo, innestato nel volto rotondo e infantile di un attore dalla virilità animalesca come Francesco Di Leva (molto più giovane del Barracano dell'originale), davvero concede il beneficio di quella speranza che già fu di Eduardo, e che Martone rilancia con la forza di un'invettiva morale ancora più perentoria nella sua riaffermazione contemporanea, in una Napoli livida e piovosa, nuovamente fotografata con l'originalità dello sguardo che abbracciò i vicoli e le strade di Morte di un matematico napoletano e L'amore molesto, stavolta esasperato dalla pasta e dalla qualità del digitale, la stessa dei filmini dei matrimoni e delle altre feste comandate prodotte dagli studi fotografici del circondario partenopeo. Non è, va ricordato, la ripresa di uno spettacolo teatrale: Il sindaco del rione Sanità di Mario Martone è un film a pieno titolo, ed è proprio nell'impostazione teatrale che Martone volontariamente non finge di mascherare che va rintracciata l'idea di un cinema fatto di innamoramenti istantanei e continui per le voci e i corpi delle dramatis personae, da inquadrare e seguire secondo geometriche gerarchie familiari, per sollecitare lo sguardo dello spettatore verso dettagli ravvicinati che scandiscono il flusso fluviale di una spirale che tutti avviluppa, mentre seduto a teatro godrebbe della scena da un'unica, globale angolazione. Un aggiornamento, questo compiuto da Martone, di un teatro come quello di Eduardo, forse ancora troppo vincolato alla presenza fisica del suo autore sulla scena o come ce l'hanno restituita le registrazioni televisive, che apre nuove prospettive e possibilità per allestimenti futuri con attori di nuova generazione non più spaventati di misurarsi e competere con il ricordo del Maestro. L'intero cast di questa versione cinematografica è orchestrato con la mano di chi sa affondarla nella lava pietrificata del palcoscenico di una città bullicante di energia vitalistica, bene o mal veicolata che sia, e fra tutti è d'obbligo ricordare almeno anche Roberto Di Francesco e Massimiliano Gallo, consapevoli come tutti gli altri di aver partecipato a una sfida etica che forse il cinema, anzi solo il cinema, oggi potrebbe vincere, senza la retorica delle cartoline e degli spot elettorali.

(Il sindaco del rione Sanità); Regia: Mario Martone; sceneggiatura: Eduardo De Filippo; fotografia: Ferran Paredes Rubio; montaggio: Jacopo Quadri; musica: Ralph P; interpreti: Francesco Di Leva, Massimiliano Gallo, Roberto De Francesco; produzione: Indigo Film, Rai Cinema, Malìa; distribuzione: Nexo Digital; origine: Italia, 2019; durata: 115'



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Venezia 76. - Ad Astra

Esistono due possibilità: o siamo soli nell'universo, o non lo siamo. Entrambe sono terrificanti ”. Come egli stesso ha affermato, James Gray si è lasciato ispirare da questa citazione di Arthur C. Clarke – co-sceneggiatore di 2001: Odissea nello Spazio – quando ha iniziato a scrivere – con la collaborazione di Ethan Gross – la sceneggiatura di Ad Astra – in gara per il Leone d'Oro, a Venezia 76., e dal 26 Settembre nelle sale italiane. Il cineasta newyorchese ha, infatti, dichiarato, in più occasioni, di aver attinto molto dal capolavoro di Stanley Kubrick. Ma non solo; perché, il suo settimo lungometraggio – che lo ha riportato al festival dov'era stato celebrato e premiato, con il Leone d'Argento, per l'opera prima, Little Odessa – prende spunto anche da Apocalypse Now , di Francis Ford Coppola, e dai romanzi di Joseph Conrad. Attenzione, però. Nell'ultimo decennio, non sono, affatto, mancati, space movie di grande successo e, probabilmente, alcune sequenze – e il modo in cui sono state filmate – potrebbero suscitare echi o reminiscenze di tali titoli e, in particolare, di Gravity e First Man – Il Primo Uomo – i due, indubbiamente, più riusciti del filone.

Tuttavia, Ad Astra richiede pazienza e attenzione e, soprattutto, pone lo spettatore nella condizione di non potersi fermare a osservare il film in superficie; ma di dover andare oltre e, più, in profondità – un po', alla stessa maniera del protagonista. In un futuro incerto e non troppo lontano, l'umanità avanza verso le stelle, alla ricerca d'intelligenze artificiali – i “fratelli” e le “sorelle” dei quali non abbiamo, mai, appurato la vera presenza, nell'universo. L'astronauta Roy McBride (Brad Pitt) riceve l'incarico di guidare una missione ai confini del sistema solare, con l'intento di salvare il pianeta da tempeste radioattive; le quali, potrebbero essere legate a una scoperta sconvolgente che ha portato il padre Clifford (Tommy Lee Jones) ad un decesso, perlomeno, apparente. Gray è un regista, davvero, sorprendente e, sin dai primi minuti, veniamo catapultati in sequenze vertiginose e vorticose; che, con il 3D aggiuntivo – quasi rottamato, oramai, per la seconda volta nella storia – avrebbero avuto un effetto destabilizzante, ancora, maggiore. L'approccio narrativo, invece, è, del tutto, differente dagli altri prodotti recenti del genere. Prendendo esempio dallo stile di Terrence Malick, il film opta per un registro filosofico, esistenziale e meditativo; scegliendo d'inserire – proprio come nelle acclamate opere d'arte dell'autore di The Tree of Life – la voce fuori campo del personaggio principale – utilizzata come guida verso un'”Odissea” piena di mistero e dalle complessità pari a un rebus. Pur menzionando l'autore statunitense, Gray non si limita solo a una riproposizione di una sua cifra, ma si spinge, ben, più in là; anche, contestulizzando ciò alla storia che ha scelto di portare sullo schermo. Se, difatti, scienza e fede sono, da sempre, state agli antipodi, in questa pellicola coesistono in modo equanime: i personaggi credono tanto nel sapere e nella conoscenza quanto in ciò che è spirituale e incomprensibile; rivolgendosi, a Dio e ai santi, affinché, possano accompagnarli nei loro viaggi intergalattici.

Ad Astra è, incredibilmente, ambizioso e l'esplorazione spaziale – ovvero, il fulcro del plot – è, metaforicamente, espressa in diverse declinazioni. In primis, essa indica una fuga dalla Terra, dalle difficoltà quotidiane dell'epoca più recente e da una realtà che non sia ha, più, voglia di vivere: un suicidio inconscio e irrazionale. In secondo luogo, è la rappresentazione di un'umanità sempre più marcia, che distrugge il pianeta, rubandosi le risorse perennemente scarseggianti. Più di ogni altra possibile interpretazione, quella intrinsecamente, significativa, è, in ogni caso, il sogno di tutta la vita che ha separato un padre e un figlio e che, potrebbe, forse, riunirli o divederli, una volta per tutte. Il rapporto tra Roy e Clifford è il vero e centrale topoi; il quale, viene esposto al pubblico attraverso il passo biblico che recita: “ Le colpe dei padri, ricadono sui figli ”. Da una parte, c'è il divo Premio Oscar Brad Pitt – in veste di produttore e attore, in una delle performance più intense della sua carriera – che regge il film, quasi, solo sulle imponenti spalle. Dall'altra, Tommy Lee Jones – altro vincitore di Oscar – in un ruolo enigmatico e straziante.

Se dovessimo identificare un erede del nuovo millennio del capostipite filmico 2001: Odissea nello Spazio , Ad Astra sarebbe il candidato migliore. Tra le tante sequenze colme di riferimenti simbolici, strettamente legati alla realtà, due sembrano degli omaggi dichiarati – da parte del regista di C'era una Volta a New York e Civilità Perduta – all'opera del 1968. Nel casco della tuta spaziale di Roy, vediamo riflesso un oblò, in primo piano, non molto differente da quella sorta di occhio dalla luce rossastra, che era l'anatomica raffigurazione di un androide colpevole di aver sabotato la missione di due personaggi del lungometraggio di Kubric. Poco dopo, Roy, viene attaccato da uno scimpanzé – elemento fondamentale dell'atto che narra la nascita delle prime specie umane – il quale, coincidentemente, è l'emblema della rabbia degli uomini: un sentimento in grado di spingerli fino all'omicidio di altri simili.

Il film a cui abbiamo assistito è oscuro e luminoso, pessimista e speranzoso, crepuscolare e vespertino tutto insieme. Uno sci-fi intimista, profondo e psicologico, che si chiede (e ci chiede) quale sia il senso della vita. Probabilmente, non ci sono verità assolute ed è inutile farsi domande per le quali, chissà, non potremmo mai trovare risposte. Ciò che conta è godere delle piccole cose e degli affetti che abbiamo attorno: vivere e amare, amare e vivere.

(Titolo originale) Ad Astra; Regia: James Gray; sceneggiatura: James Gray, Ethan Gross; fotografia: Hoyte Van Hoytema; montaggio: John Axelrad, Lee Haugen; musica: Max Richter; interpreti: Brad Pitt, Tommy Lee Jones, Ruth Negga, Liv Tyler, Donald Sutherland; produzione: New Regency Pictures, Bona Film Group, Keep Your Head, MadRiver Pictures, Plan B Entertainment, RT Features, Regency Enterprises, Twentieth Century Fox; distribuzione: 20th Century Fox; origine: Brasile, USA, Cina, 2019; durata: 124'; webinfo: https://www.foxmovies.com/movies/ad...



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Venezia 76- Verdict

Verdict, primo lungometraggio del giovane Raymund Ribay Gutierrez, porta alla luce, con realismo e toni duri, la violenza domestica nelle Filippine dominata da un sistema sociale e giudiziario lento e incapace di dare risposte.
La narrazione entra nel vivo della questione dall'inizio del film, mostrando le vessazioni subite da Joy e da sua figlia Angel per mano di Dante, uomo ambiguo e spesso ubriaco.
In un quartiere malfamato di Manila, le violenze e i soprusi sembrano ordinari e purtroppo silenziosamente accettati dai più (quasi sempre donne).
Joy decide però di ribellarsi, rompendo l'inerzia di quel mondo e denuncia, finalmente, le violenze subite da anni e non più sopportabili per lei e la figlia.

Verdict comincia con un ritmo dirompente e capace di descrivere molto bene l'ambiente sociale che circonda la protagonista: i vicini di quartiere, che preferiscono il silenzio per non essere coinvolti in qualcosa di "scomodo", le confuse e caotiche scene al mercato, la giustizia lenta e mai definitiva.
Gran parte del film, si concentra poi sul processo e sullo sviluppo della vicenda giudiziaria, complessa, piena di ostacoli burocratici e poco attenta alla tutela del singolo.
La narrazione diventa progressivamente più lenta e a tratti noiosa, i momenti in aula si ripetono, e le scene si svolgono per la gran parte in ambienti chiusi, sopratutto nelle aule di un tribunale.
La descrizione minuziosa delle lungaggini burocratiche, l'attenzione ai particolari in aula e il ritmo meno forsennato rispetto all'inizio del film trasmettono fedelmente l'immagine di una società poco attenta e realmente incurante della giustizia.

La combattività della protagonista in aula del tribunale e per le strade si scontra purtroppo con una mentalità maschilista, ottusa e poco incline alla risoluzione dei problemi: Joy è sola ad affrontare il marito e la giustizia sembra non essere dalla sua parte, perché poco interessata alla verità.
Gran parte delle autorità, infatti, fin dall'inizio cercano di convincere Joy a trovare un compromesso, una soluzione pacifica col marito per non arrivare al processo vero e proprio, ma la donna non demorde e vuole giustizia.
Lo spirito tenace di Joy la spinge ad andare fino in fondo, senza arrendersi o mollare la presa e nonostante questo, il colpevole sembra non trovare mai la giusta punizione.

Verdict è un film duro, che lascia poca speranza, non solo per la violenza che si consuma quotidianamente nelle strade e nelle case di uno dei quartieri più degradati di Manila, ma sopratutto per un sistema incancrenito che lascia pochi spiragli di speranza di cambiamento.

(Verdict); Regia: Raymund Ribay Gutierrez; sceneggiatura: Raymund Ribay Gutierrez; fotografia: Joshua A.Reyles; interpreti: Max Eigenmann, Kristoffer King, Jorden Suan, Rene Durian; produzione: Centerstage Productions (Brillante Ma Mendoza), Films Boutique (Nicolas Brigaud-Robert, Jean Christophe Simon); origine: Filippine, Francia, 2019; durata: 126'



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Venezia 76 - Marriage Story

Si esce turbati da Marriage Story, l'ultimo film di Noah Baumbach dopo The Meyerowitz stories, sconclusionata famiglia all'ombra di un padre artista. Non si rimane passivi e insensibili davanti alla ricognizione sistematica e chirurgica della fine di una storia d'amore: nella primissima scena le voci fuori campo dei due protagonisti enumerano con descrizioni particolareggiate le ragioni per cui si sono innamorati l'uno dell'altra, stordendo il pubblico di amore fino alla scoperta che quei pregi e quelle caratteristiche di moglie e marito appartengono alla lista richiesta da un mediatore matrimoniale per tentare di tenere in piedi il rapporto. Charlie, Nicole e Henri sono una bella famiglia: lui regista teatrale, lei attrice, lui figlio dell'amore, lui è un padre amorevole, lei una madre giocosa, il bambino buono e mai piagnucoloso. Ma l'amore è al capolinea, o almeno pare sia così, le reciproche vite professionali non si incastrano più bene, le differenze portano corpi e anime in direzioni e luoghi geografici diversi, il divorzio sembra essere l'unica strada che possa sancire la fine del matrimonio senza la fine di una civile e rispettosa relazione genitoriale. Nel mezzo l'inferno degli avvocati californiani, ribaltamento di senso per ogni frase pronunciata, la paura che sia il bambino a rimetterci, le finanze che rapidamente prendono il volo. La famiglia come luogo dell'amore ma anche della paura, della violenza verbale, del passato che viene gettato come un'onta addosso a corpi dolorosi stanchi di incassare. Adam Driver e Scarlett Johansson vestono mimeticamente e perfettamente i panni sporchi da lavare tra le quattro mura con recitazione in crescendo su una sceneggiatura sfaccettata e così realistica da non consentire alla bilancia di pendere per uno dei due. La matrice autobiografica del regista (e di ogni spettatore, in veste attiva o passiva, di genitore o di figlio) caricano le due ore e un quarto di empatia assoluta, di risate amare, di lacrime da groppo alla gola. Tutto ha una sua misura: la casa losangelina di Charlie (prima spoglia e triste, poi, all'arrivo della consulente familiare, calda e vissuta - buco da cazzotto nel muro compreso), il disagio di Nicole nell'essere una musa senza avere spazio di esprimere sé stessa come artista, gli ambigui rapporti affettuosi tra Charlie e la suocera, la competizione vibrante tra l'avvocatessa di lei e gli avvocati di lui (Laura Dern in stato di grazia durante il monologo sulla vergine Maria; Alan Alda reduce da tre divorzi si espone col suo cliente “mi ricordi me al secondo”; Ray Liotta sciacallo senza scrupoli dal viso di pietra). Quando si perde qualcosa si scopre il suo valore, questo viene da pensare all'uscita dalla visione: quanto varrebbe la pena provare a ricordarlo mentre non si è ancora perso. Un film vero, denso come il sangue, dolente come una rosa recisa, acuminato come la lama di un coltellino svizzero (attenzione, taglia quando meno ce lo si aspetti).

(Marriage story); Regia: Noah Baumbach; sceneggiatura: Noah Baumbach; fotografia: Robbie Ryan; montaggio: Jennifer Lame; musica: Randy Newman; interpreti: Scarlett Johansson, Adam Driver, Laura Dern, Alan Alda, Ray Liotta, Julie Hagerty; produzione: Heyday Films (Noah Baumbach, David Heyman), Netflix;origine: USA, 2019; durata: 135'



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Venezia 76 - Madre.

Madre, ultimo lavoro di Rodrigo Sorogoyen entra da subito nel vivo del dramma e svela fin dall'inizio la sua natura intima: una spiaggia deserta e ampia, il mare agitato e la voce di un bambino di sei anni che, da un telefono, chiede disperatamente aiuto, conforto e sostegno alla sua mamma.
Il piccolo non ritrova più il papà e si sente solo, spaventato e in preda al panico.
Cade la linea, la comunicazione si perde, e con questa, sfuma la possibilità per Elena di rintracciare il suo amato figlio, perso misteriosamente in una sconosciuta spiaggia francese.
Sorogoyen, riesce a far emergere il dramma interiore e si sofferma sulla disperata necessità della donna di ricostruirsi una vita, che ricrea, solo apparentemente, dieci anni dopo, nello stesso ambiente e vicino alla stessa spiaggia dove anni prima ha perso il figlio.
Elena, nella sua "nuova vita", pur avendo un compagno amorevole e attento e un lavoro impegnativo, è tormentata nel profondo e non riesce a placare il senso di inquietudine e di vuoto causato dalla perdita affettiva.
La fotografia di Alex De Pablo, rende perfettamente gli stati d'animo e il vissuto di Elena: il contrasto emotivo della donna si sposa con le immagini della spiaggia ampia e il mare burrascoso, la sua depressione silenziosa ma piena, si riconosce negli ambienti desolati della casa ampia ma vuota, resa più calda solo dall'affetto del compagno, che Elena raramente accoglie e riconosce.
Sorogoyen racconta e ricostruisce un dramma al femminile con delicatezza delineando gli stati d'animo di una solitudine senza rimedio, che la donna riesce a placare solo dopo aver conosciuto Gregory, giovanissimo ragazzo di 16 anni.
Comincia per i due un viaggio alla scoperta di un nuovo e insolito rapporto, al confine tra amicizia e sensualità, fatto di telefonate proibite e uscite adolescenziali innocenti, di confessioni e di momenti intimi condivisi.
Marta Nieto, nei panni di Elena è estremamente naturale nel portare addosso silenziosamente il suo dramma e allo stesso tempo, riesce a trasmettere l'innocenza, il candore e la spontaneità degli attimi rubati con Gregory.
Il loro rapporto diventa simbiotico, essenziale, ma inevitabile: per Elena, donna alla soglia dei 40 anni, quel giovane ragazzo, significa la possibilità, finalmente, di affrontare un dramma mai risolto.
Il destino e l'incontro "non casuale" con Rodrigo, giocano un'importanza cruciale in Madre: Elena deve chiudere un cerchio aperto dieci anni prima e forse il loro rapporto, naturale e ambiguo al tempo stesso, le regala la possibilità di portare alla luce il suo dramma, di poterlo combattere e magari accettare, prendendosene cura, proprio come fa una madre.
Una mamma distrutta, che attraverso la perdita del figlio deve riprendere a proteggere e a tutelare la sua intimità prima di ogni altra cosa, per ricostruire da zero i pezzi sospesi del suo intimo.
Un viaggio psicologico e di cura interiore al femminile che Sorogoyen tratta con profondità, intimità e con dolcezza al tempo stesso.

(Madre); Regia: Rodrigo Sorogoyen; sceneggiatura: Rodrigo Sorogoyen, Isabel Peña; fotografia: Álex de Pablo; montaggio: Alberto del Campo; musica: Olivier Arson; interpreti: Marta Nieto, Jules Porier, Àlex Brendemühl, Anne Consigny, Frédéric Pierrot, Guillaume Arnault; produzione: Malvalanda, Caballo Films (Eduardo Villanueva), Arcadia Motion Pictures (Ibon Cormenzana), Amalur Pictures (Ignasi Estapé), Noodles Production (Jérôme Vidal), Le Pacte (Jean Labadie); origine: Spagna, Francia, 2019; durata: 129'



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Il Re Leone: le reazioni degli autori del film originale


L'Huffpost ha provato a rintracciare qualcuno degli artisti, ottenendo risposte solo da tre grafici...

I fan e gli spettatori in generale si sono già fatti un'idea del remake del Re Leone, ma l'Huffpost tempo fa pensò bene di domandare ad artisti che avevano avuto a che fare con l'originale Re Leone del 1994 cosa pensassero del rifacimento. La maggior parte di loro ha preferito non commentare. Un anonimo ha lasciato questa dichiarazione: "C'è un enorme risentimento contro questi remake in CGI, da parte delle squadre delle versioni 2D. Forse se vedessimo qualche soldo di royalty le cose sarebbero diverse". Frecciate economiche a parte, c'è naturalmente una forte componente identitaria, disneyana classica, che si sente tradita dall'operazione. Sul blog di Andreas Deja per esempio, capo-animatore dello Scar originale, è comparso un post con diverse immagini originali della prima sequenza del suo personaggio, senza alcun commento (ed è un chiacchierone, possiamo garantire).
L'Huffpost è riuscito a far parlare comunque, a viso aperto, David Stephan (codesigner delle iene e animatore della sequenza iniziale), Alexander Williams (tra gli animatori di Scar) e Dave Bossert (animatore degli effetti come acqua, polvere, fuoco). Stephan è della fazione contraria al remake.

"Se faceste un sondaggio nel team del Re Leone originale, la maggior parte dei membri direbbe: perché? Ma dovete proprio farlo? Fa un po' male. [...] E' un po' triste che sia l'azionista ora a decidere quali film fare... la Disney si è levata la maschera, ora è spudorata: sì, vogliamo solo far soldi. Come artista è una delusione, viene da uno studio che fu fondato sull'originalità e sull'arte. [...] E' come dire: ecco, prendiamo questo bel Monet e ridipingiamolo come dovrebbe essere in realtà. Ma perchè? [...] Specialmente quando il piccolo Simba se ne andava in giro, mi sembrava troppo reale. Quando parlava, mi pareva di vedere quei vecchi film sulla natura in cui doppiavano gli animali e si muovevano le labbra. [...] Qualcuno ha detto: sai che facciamo, facciamo a meno del tutto delle espressioni, facciamolo il più realistico possibile. Per me sminuisce il film."

Williams la prende con filosofia: "Credo che alcuni miei colleghi dimentichino che, quando lavori su un film Disney, non ti appartiene. [...] Quindi per quanto mi riguarda, non sono affari miei se vogliono rifarlo o meno. [...] Non dimenticate che nel Re Leone si usò l'animazione digitale in modo innovativo, come per gli gnu. [...] Non credo che si possano rimpiangere troppo i tempi andati, perché tutti si sforzano sempre di andare avanti. [...] Sono ancora film fatti da esseri umani. Voglio dire, lasciate perdere la tecnica. Ci sono ancora stanze piene di artisti che cercano di rendere bello ogni singolo pixel. Non è facile riuscirci. [...] Vita di Pi alzò il livello della sfida, ora loro l'hanno alzato ulteriormente."

Bossert addirittura giustifica il processo come disneyano doc: "Disney riciclava costantemente le grandi storie. Basta vedere come costruì Disneyland, con marchi come Peter Pan, Alice nel Paese delle Meraviglie e Cenerentola, creando grandi attrazioni per i parchi a tema. E poi il merchandising, i libri e altre cose. [...] Prendono queste grandi storie e le ripensano per diversi settori dell'intrattenimento." E' una posizione che ci permettiamo di ritenere piuttosto debole: il nuovo Il re leone è un film come lo fu quello del 1994, siamo sempre nello stesso settore. Bossert ad ogni modo vede come un omaggio al suo lavoro l'effetto copia-carbone: "In alcuni casi, è un remake inquadratura per inquadratura, non mi ha dato per niente fastidio, perché credo che gli autori volessero rimanere fedeli all'originale." Anche lui tuttavia ha dubbi sull'espressività dei protagonisti: "Mi sarebbe piaciuto ci fosse più emozione nello sguardo. Se fai parlare gli animali, ti puoi prendere più libertà, specie con gli occhi. [...] Si potrebbero aprire un po' di più, un sopracciglio potrebbe sollevarsi appena di più. Capisco l'equilibrio difficile, non volevano che fosse troppo cartoon, ma forse avrebbero potuto spingere un po' di più in quel senso."



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Venezia 76 - Andrej Tarkovskij: A Cinema Prayer

Non deve essere facile la vita di Andrey A. Tarkovskij, figlio di Andrey, forse il più grande regista russo insieme ad Ėjzenštejn e nipote di Arsenij Tarkovskij, poeta importantissimo del Novecento.
Non deve essere stato facile per lui, cresciuto a pane e poesia, trovare una propria identità personale e un proprio modo di essere. Come non deve essere stato facile muovere i propri passi nella definizione di una propria vena artistica, capace di mantenere una propria autonomia personale rispetto alle vette altissime raggiunte da padre e nonno e al tempo stesso di non scadere nella pallida imitazione di un magistero già consegnato alla Storia.
Un tentativo in questo senso è Andrej Tarkovskij – A Cinema Prayer, documentario che ripercorre le tappe salienti della carriera del padre illuminandola, retrospettivamente, con le parole delle poesie del nonno che hanno sempre esercitato una fortissima influenza, formale e contenutistica, sulle immagini del regista di L'infanzia di Ivan e Andrej Rublëv .

Partiamo da un dato fondamentale: il lavoro di Andrey A. Tarkovskij è di una preziosità rara. Attraverso un complesso lavoro di montaggio, A Cinema Prayer offre allo spettatore un enorme mole di materiale spesso inedito o, perlomeno poco noto. Vi si trovano, oltre alle immagini dei capolavori del padre, anche brevissime inquadrature di backstage, riprese in Super 8 e registrazioni audio nelle quali il regista racconta e si racconta.
È proprio a queste ultime registrazioni che è assegnata la funzione di sostenere il peso della narrazione, mentre le poesie di Arsenij Tarkovskij (lette oltretutto dalla sua viva voce) sono piuttosto un controcanto lirico, quasi un coro esterno, che non a caso si impossessa degli spazi di transizione, delle oasi tra un capitolo e l'altro del documentario, a chiudere o aprire, in chiave quasi musicale, i vari segmenti del racconto.
Quest'ultimo ha un andamento meno scontato di quanto non paia a prima vista.
Se la linea degli eventi segue, infatti, un ordine limpidamente cronologico, che va dagli esordi de Il rullo compressore e il violino fino ad arrivare agli esisti estremi di un capolavoro immenso come Sacrificio, la sua interpretazione sembra invece andare a ritroso, verso quell'infanzia del regista che è stata serbatoio mitico dal quale sono state attinte tutte le sue immagini, in particolar modo le ultime.
Così, senza contraddire l'anima didattica di una narrazione, in fondo, tradizionale, il film rivela la sua vera anima in una sorta di magnificazione di un vero e proprio recupero del tempo perduto, di individuazione, in chiave limpidamente mitica, dei motivi profondi del senso più recondito dell'arte tarkovskiana.
Un moto a ritroso che passa per il recupero del valore salvifico della fede e per la fiducia sull'importanza dell'immagine altamente simbolica che affondano le proprie radici proprio nell'ultimissima inquadratura del film che ci mette di fronte al sonno di un neonato, vero e proprio mito oscuro delle origini.

Frattanto dell'arte del regista apprendiamo il più possibile. A partire dalla fiducia nella possibilità del pubblico di comprenderlo, soprattutto quello semplice che, senza l'eccesso di sovrastrutture razionali, arriva dritto al cuore del simbolo laddove il critico (spesso francamente odiato da Tarkovskij) si perde nel labirinto dell'eccesso delle ipotesi. Sino all'importanza capitale del Tempo, vera e propria realtà da scolpire e modellare in cerca di una serenità classica che il regista credeva di aver raggiunto solo, forse, in Stalker.
Non tutte le idee espresse sono ugualmente inedite. Sul valore del simbolo nel suo cinema, ad esempio, Tarkovskij ha scritto molto e, forse, meglio di quanto non dica nei brani di registrazione, eppure A Cinema Prayer resta un film da vedere e rivedere con occhio lucido. Anche nella consapevolezza che le congiunture che hanno portato all'affermarsi di un regista come quello di Solaris, rimasto nella storia con sole otto pellicole, sono ormai a loro modo irripetibili e che difficilmente nel cinema potremo salutare di nuovo l'avvento di un genio di egual portata. Forse soprattutto per questo dovremmo, oggi, pregare. Perché ci mancano davvero tanto film come i suoi, immensi come cattedrali e ugualmente misteriosi.

(Andrej Tarkovskij: A Cinema Prayer); Regia: Andrej A. Tarkovskij; fotografia: Alexey Naidenov; montaggio: Michał Leszczyłowski, Andrey A. Tarkovsky; suono: Gianfranco Tortora, Sud Sound Studios (Roma); produzione: Andrey Tarkovsky International Institute (Andrey A. Tarkovsky), Klepatski Production (Dmitry Klepatski), HOBAB (Peter Krupenin), Revolver (Paolo Maria Spina); origine: Italia, 2019; durata: 97'



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Venezia 76 - El Principe

Cile 1970: nel pieno delle controversie sulle ultime elezioni che vedevano Allende in testa con una maggioranza relativa del 36,3% (Jorge Alessandri Rodríguez era secondo con la differenza di meno di un punto percentuale) ci ritroviamo in un carcere maschile.
Vi è appena entrato Jaime, un ventenne piuttosto introverso, colpevole di aver ucciso, lacerandogli la gola con un coccio di bottiglia, un ragazzo più grande. L'omicidio sembrerebbe avere un movente passionale, ma troppo poco sappiamo di questo ragazzo che vive con un padre cui non riconosce molta autorità, passando le sue giornate tra dozzine di birre al bar e bagni di fango con i coetanei.

In prigione Jaime finisce nella cella dello “stallone”, un uomo maturo e molto rispettato dagli altri detenuti, che, sin da subito, mette il ragazzo sotto la sua ala protettiva. È l'inizio, questo, di un percorso di crescita lento e travagliato, che deve confrontarsi con la realtà della vita carceraria descritta dal regista con un tono quasi fassbinderiano non tanto per la dimensione omosessuale del racconto, quanto per la capacità di raccontare come i rapporti sessuali e interpersonali siano in realtà una complessa forma di esercizio del potere dell'uomo sull'uomo.
In questo, il microcosmo carcerario rivela, insospettata, una vocazione politica che Sebastian Muñoz, regista di questa interessantissima opera prima, non porta mai alla ribalta del discorso, ma lascia scorrere sotterranea, fino a farla deflagrare nel finale quando l'accensione della radio che trasmette notizie su Allende rende evidente la dimensione speculare del microcosmo carcerario rispetto al contesto sociale contemporaneo. Anche questo, a pensarci su un momento, un tipico modus operandi di Fassbinder.

Mentre Jaime cresce, secondo le dinamiche del Bildungsroman e acquisisce una maggiore comprensione di sé e anche delle pulsioni che lo hanno portato a uccidere, il suo rapporto con lo stallone si solidifica, andando oltre la prima attrazione sessuale.
Le confidenze che i due si fanno l'un l'altro si alternano così a momenti di gelosia, mentre, per lo spettatore, divengono man mano più chiare le dinamiche dell'esercizio del potere tra i detenuti che sono sostenute da continui scambi di merci come di piaceri sessuali, mentre la polizia, che dovrebbe garantire l'ordine all'interno della struttura, agisce nell'ombra, ritirandosi, quando il conflitto tra detenuti esplode nella violenza, o invadendo l'intimità delle celle quando si rende necessario intimidire chi comincia a diventare potenzialmente pericoloso.
I poliziotti agiscono, quindi, un poco nella forma della pressione diplomatica, pronti ad appoggiare, qualora ne fosse garantito un diretto tornaconto, un vero e proprio colpo di stato interno.

La possibile lettura politica del narrato, comunque, non sopravanza mai la sua componente umana. E il regista ha, in questo senso, mano ferma non solo nel raccontare come Jaime scali la gerarchia sociale interna al mondo carcerario, ma anche la delicatezza del suo rapporto con lo stallone verso cui il ragazzo prova dapprima timore e poi, in un crescendo credibilissimo, ammirazione, stima, fiducia, lealtà e autentico amore.
È anzi proprio nella capacità del regista di stare attaccato ai suoi personaggi, facendoli respirare oltre i confini angusti di un ambito maschile concentrazionario e facile al sovraccarico di toni, che sta il principale pregio di un film meno scontato di quanto possa apparire a prima vista.
Lecito, dunque, aspettarsi molto da Sebastian Muñoz per la sua, speriamo vicina, opera seconda.

(El Principe); sceneggiatura: Luis Barrales, Sebastian Muñoz; fotografia: Enrique Stindt; montaggio: Danielle Fillios; musica: Angela Acuña; interpreti: Juan Carlos Maldonado, Alfredo Castro, Gaston Pauls, Sebastian Ayala, Lucas Balmaceda, Cesare Serra, José Antonio Raffo; produzione: Marianne Mayer-Beckh – El Otro Film; origine: Cile, Argentina, Belgio, 2019; durata: 96'



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Imelda e il ritorno dei Marcos sulla scena politica filippina: fuori concorso al Festival di Venezia c'è The Kingmaker


Un documentario in equilibrio tra racconto disincantato del folklore legato alla ex First Lady delle Filippine e il reportage giornalistico sui rischi per la democrazia del paese.

Non bisogna farsi ingannare né dal curriculum di Lauren Greenfield, né da quello che viene raccontato nei primi minuti del film.
Certo, avendo alle spalle due documentari che The Queen of Versailles (sui bizzarri Jackie e David Siegel, proprietari della più grande residenza privata degli Stati Uniti) e Generation Wealth (parte di un progetto artistico multimediale che esplorava gli eccessi e il distacco della realtà dei super-ricchi del pianeta: potete vederlo su Amazon Prime Video), la regista è perfettamente a suo agio con gli aspetti più folkloristici e kitsch della sua nuova protagonista, Imelda Marcos. E non lesina nel raccontare lo sguardo tra l’ironico e lo stupefatto che gli è proprio gli arredi sfarzosi e di dubbio gusto in mezzo ai quali spuntano i Picasso e i Michelangelo, la distribuzione di banconote ai margini delle strade, gli abiti improbabili e la collezione di fotografie dalle pesanti cornici che la raffigurano al fianco di personaggi più o meno famigerati della storia del Novecento -: da Gheddafi a Saddam passando per Mao e Nixon.
Ma Imelda Marcos non è soltanto una donna ricca, molto ricca, e che ama ostentare questa sua ricchezza: è una figura che ha fatto, e continua a fare, la storia delle Filippine in maniera assai controversa. E Lauren Greenfield è troppo attenta, curiosa e intelligente per trascurare o perfino sottovalutare questo aspetto.

Nella sua prima parte, The Kingmaker racconta la storia di Imelda: la sua ascesa, la sua caduta, l'esilio, il ritorno in patria. Una storia che è poi è anche quella del suo paese. Il legame stretto e discordante tra Imelda Marcos e le Filippine emerge via via più evidente nel corso della narrazione, fino a trasformare il film in una sorta di attento reportage su quello che molti di noi non sanno, dato che la politica estera non è esattamente il punto di forza del nostro giornalismo: il progressivo tornare da protagonista della famiglia Marcos sulla scena politica filippina, il testardo e costante lavorìo di Imelda, nell’ombra o meno, per far dimenticare gli orrori del passato (la dittatura di suo marito, la legge marziale, le torture e le repressioni violente) e per lanciare un altro Marcos verso la presidenza, con metodi legali e meno legali. Bongbong Marcos, infatti, ha perso l’elezione alla vicepresidenza, ma il presidente Duterte (eletto con l’aiuto di Cambridge Analytica - ne parlano anche in The Great Hack - e dei fondi ricevuti da un’altra figlia di Imelda, Imee, a sua volta in politica) sta mettendo sotto accusa Leni Robredo, che aveva battuto Bongbong.

Pur mantenendo allora quel taglio particolare che nasce dallo sguardo della regista e dalla natura della sua protagonista, The Kingmaker è anche un documentario che ricorda certi ritratti firmati da Erroll Morris, e che s’inserisce a pieno titolo in quel recente filone di cinema documentario che non si fa troppe ossessioni sul rigore formale, o sull’asetticità dello sguardo, per farsi appassionato pamphlet che alle esigenze dell’informazione oggettiva, e a quelle del cinema, unisce una dichiarata passione democratica e progressista.
Al di là dei suoi meriti, che non sono affatto irrilevanti, ci sarebbe da chiedersi perché come mai è sempre più spesso il cinema a cercare di occuparsi di questioni centrali per il nostro presente. Di destrutturare la complessità e le menzogne per raggiungere il grado più alto possibile di verità. C’entrano sicuramente i social network; c’entra sicuramente la crisi del giornalismo. C’entra, forse, l’esigenza sempre più forte del pubblico, che siamo noi, di riuscire a trovare nuove fonti autorevoli nel caos crescente del mondo in cui viviamo.
E capire, grazie a The Kingmaker, cosa sta succedendo oggi nelle Filippine, e perché, e quali ne sono le radici storiche, e cosa si è dimenticato perché potesse succedere, è imporante anche per comprendere molte dinamiche che ci riguardano ben più da vicino.



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Chiara Ferragni - Unposted: il nuovo trailer del film!

In anteprima mondiale nei prossimi giorni al Festival di Venezia, il film sarà al cinema il 17, 18 e 19 settembre prossimi.

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Anthony Hopkins e Jonathan Pryce sono i due Papi: ecco il primo trailer italiano del film Netflix


I Programmi in tv ora in diretta, la guida completa di tutti i canali televisi del palinsesto.



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Attori e attrici più pagati del 2019: Dwayne Johnson e Scarlett Johansson guidano le classifiche


Come di consueto in questo periodo dell'anno, il magazine Forbes fa in conti in tasca a tutti.

A fine estate si tirano le somme, si chiudono i conti, si pagano le tasse. Ed è anche il momento in cui il magazine Forbes fa ciò che sa far meglio, i conteggi che contano, quelli realitivi ai guadagni delle persone più facoltose del pianeta. Jeff Bezos, il fondatore di Amazon, è al primo posto con un patrimonio di 131 miliardi di dollari (che verrà leggermente ridimensionato quando la causa di divorzio dalla moglie sarà conclusa). Quello che interessa a noi però sono gli attori e le attrici che hanno avuto i maggiori introiti tra il 1° giugno 2018 e il 1° giugno 2019.

Forbes ha recentemente pubblicato le classifiche e certo non sorprende certo vedere Dwayne Johnson al primo posto tra gli attori. The Rock si è messo intasca 89.4 milioni di dollari provenienti dal suo abituale compenso di circa 20 mln per i film di cui è protagonista, la fetta del 15% sugli incassi, i 700 mila dollari per ogni episodio della serie Ballers e i benefits della sua linea di abbigliamento e accessori sportivi in partnership con Under Armour. C'è anche la divisione degli utili con i soci della sua casa di produzione Seven Bucks che è dietro ad ogni progetto che lo riguarda. Poi, grazie al successo planetario di Avengers Endgame, nella top ten ci sono Chris Hemsworth, Chris Evans, Robert Downey Jr. e Paul Rudd, anche loro con beneficiari di un contratto con compenso e percentuale sugli incassi proporzionata al peso del loro ruolo nel mondo Marvel (non fa eccezione Bradley Cooper, voce di Rocket Raccon). Jackie Chan va sempre forte in Cina, come Akshay Kumar in India.

Anche sul fronte femminile non sorprende trovare nuovamente al primo posto Scarlett Johansson (alla Mostra del Cinema di Venezia in questi giorni). L'attrice risulta essere la più pagata dell'anno con 56 milioni di dollari (lo era anche l'anno scorso con 40 mln) soprattutto grazie alla percentuale sugli incassi di Avengers Endgame, circa 35 milioni. Nella top ten delle attrici si riaffacciano ai piani alti Sofia Vergara e Reese Witherspoon, mentre per la prima volta si affacciano Elisabeth Moss e Margot Robbie. Qui sotto le due classifiche complete dove appare evidente l'ampio divario tra quanto riescano a negoziare e ottenere uomini e donne. La parità di compensi e trattamento è ancora lontana, non solo a Hollywood.

 

TOP TEN ATTORI PIÙ PAGATI 2018/2019 (importi lordi)

  1. 1. Dwayne Johnson $ 89.4 milioni
  2. 2. Chris Hemsworth $ 76.4 milioni
  3. 3. Robert Downey $ 66 milioni
  4. 4. Akshay Kumar $ 65 milioni
  5. 5. Jackie Chan $ 58 milioni
  6. 6. Bradley Cooper $ 57 milioni
  7. 7. Adam Sandler $ 57 milioni
  8. 8. Chris Evans $ 43.5 milioni
  9. 9. Paul Rudd $ 41 milioni
  10. 10. Will Smith $ 35 milioni

 

TOP TEN ATTRICI PIÙ PAGATE 2018/2019 (importi lordi)

  1. 1. Scarlett Johansson $ 56 milioni
  2. 2. Sofia Vergara $ 44.1 milioni
  3. 3. Reese Witherspoon $ 35 milioni
  4. 4. Nicole Kidman $ 34 milioni
  5. 5. Jennifer Aniston $ 28 milioni
  6. 6. Kaley Cuoco $ 25 milioni
  7. 7. Elisabeth Moss $ 24 milioni
  8. 8. Margot Robbie $ 23.5 milioni
  9. 9. Charlize Theron $ 23 milioni
  10. 10. Ellen Pompeo $ 22 milioni


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