“I ricordi, queste ombre troppo lunghe/ del nostro breve corpo”, poetava Vincenzo Cardarelli. E inghiottito dall’ombra densa di memorie taglienti e tormentose è l’esile corpo spirituale di Julieta. “Questo strascico di morte/ che noi lasciamo vivendo”. Lo sconosciuto sul treno, Xoan… Si estende pervasiva nel tempo la scia di morte che Julieta si è lasciata alla spalle.
Sempre più insistentemente Pedro Almodóvar torna ad affermare che l’essenza d’ogni uomo è, in fondo, il suo passato e il ricorso massiccio alla tecnica narrativa del flashback lo attesta fin da La mala educación, forse il titolo peggiore del cineasta iberico, lungo, poi, Gli abbracci spezzati e La pelle che abito. E ora in Julieta. Un incontro fortuito, per strada, che le recherà la (buona?) novella di un altro episodio altrettanto casuale, basta a sottrarre la protagonista alla quiete labile dei suoi cinquant’anni e a risospingerla nell’antro asfittico di tribolazioni (mai) trascorse. E all’uncino che ancora le trapassa atri e ventricoli: sua figlia.
Sì, perché a cominciare dal tema nevralgico di una maternità sofferta e contrariamente agli annunci che ne hanno preceduto lo sbarco a Cannes, Julieta è un pellicola inequivocabilmente almodovariana. Certo, degli almodrammi più esuberanti e onusti mancano sicuramente gli inserti comici o il consueto florilegio di citazioni e riferimenti alla cultura pop, dal linguaggio pubblicitario alla settima arte. Tuttavia, quanto c’è di riconducibile al regista surclassa eventuali carenze e poco importa se l’ispirazione è giunta da tre racconti di Alice Munro della raccolta In fuga. È sufficiente un colpo d’occhio a chi abbia una familiarità anche minima con l’estetica del regista. A certe inquadrature dall’alto. A certi morbidi carrelli verticali. Alle tinte espressionistiche e, in particolare, ai rossi alla Schmidt-Rottluff. Al design delle scenografie. Come Lari a guardia del focolare paterno, Rossy De Palma interpreta la governante come in Kika e Darío Grandinetti il maschio appetitoso, confortevole e magnanimo come in Parla con lei. E non manca la comparsata di Agustín Almodóvar, in divisa da controllore, stavolta.
Intanto, entro l’ampolla di stilemi e facce assodati, Don Pedro de la Mancha mescola i crucci di sempre. Ciò che Manuela in Tutto su mia madre non era riuscita a confessare al figlio Esteban per un inganno della sorte, forse lo svelerà Julieta alla figlia Antía dopo una lunga e snervante lontananza; e, in ambedue le vicende, è qualcosa di sottaciuto sulla figura paterna. Anche se i segreti del film del 1999 erano assai più roventi e scabrosi. Tant’è che lo spettatore più affezionato, pur ritrovando nell’ossessione monomaniacale di Julieta uno degli input psichici più comuni nei personaggi almodovariani (!), non può astenersi dal reputarne, talvolta, eccessiva l’intensità e arcane le cause (lo sconosciuto sul treno…).
L’impressione, non molto allettante, è che Almodóvar si stia gradualmente mutando, più che nella maniera, nel compendio di se stesso e che le sue opere, anziché impressionare le incandescenti contraddizioni di una società e di una natura umane imponderabili e complicate, e quindi restituirci la truffautiana idea di mondo, si limitino a sintetizzare un’idea di cinema o, meglio, l’idea che un tempo innervava il cinema dell’autore, di cui Julieta pare più uno stinto bigino che un’evoluzione o una riproposizione con il botto o la falsificazione popperiana che provi, per contrasto, la validità del pregresso e lo superi al contempo. Perché il film è, in definitiva, dignitoso e sarebbe ingiusto dargli meno di due stelle Morandini, ma la poetica del filmmaker è fuoriuscita in modo assai più incisivo ed emozionante altrove. Talmente cartaceo e pretestuoso è, a tratti, l’intreccio, da privare il film d’ogni tensione. E il deficit riguarda pure l’autenticità: i coiti con la biancheria intima indosso lasciamoli a Hollywood. Anche nello scoperchiare le scatole cinesi dei diversi flashback Almodóvar si mostra affaticato e non più il lucido sceneggiatore che sapeva squadrare i ciottoli drammaturgici affinché ogni componente della diegesi combaciasse con le altre: le nipoti di Beatriz, figlie di un fratello che era bimbo al calare degli anni Novanta, non possono essere adolescenti ai giorni nostri. E l’impaccio appesantisce, purtroppo, anche gli involi pindarici verso mete liricheggianti, come il cervo che corre rasente il treno (serviva proprio il ralenti?) o Emma Suárez che, nella parte di una Julieta invecchiata, emerge dall’asciugamano in cui era stata avvolta Adriana Ugarte, Julieta da giovane, a significare la senescenza interiore dell’eroina.
Almodóvar mira alto quando cerca di appropinquare il tema della trasmissione ereditaria della colpa, come nella tragedia greca che la filologa classica Julieta ben conosce; Julieta che, per inciso, mutua il nome dalla Juliet di Munro, ma che, a proposito di colpe dei genitori che ricadono sui figli, è omonima pure della Juliet shakespeariana. Le ambizioni, tuttavia, restano in larga misura inattuate. Tant’è che, per insaporire una storia scialba e scontata, il regista è costretto ad accumulare sventure in numero superiore al buon senso. E a ridurre il film al loro elenco.
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