martedì 31 maggio 2016

Julieta

Julieta - locandina“I ricordi, queste ombre troppo lunghe/ del nostro breve corpo”, poetava Vincenzo Cardarelli. E inghiottito dall’ombra densa di memorie taglienti e tormentose è l’esile corpo spirituale di Julieta. “Questo strascico di morte/ che noi lasciamo vivendo”. Lo sconosciuto sul treno, Xoan… Si estende pervasiva nel tempo la scia di morte che Julieta si è lasciata alla spalle.

Sempre più insistentemente Pedro Almodóvar torna ad affermare che l’essenza d’ogni uomo è, in fondo, il suo passato e il ricorso massiccio alla tecnica narrativa del flashback lo attesta fin da La mala educación, forse il titolo peggiore del cineasta iberico, lungo, poi, Gli abbracci spezzati e La pelle che abito. E ora in Julieta. Un incontro fortuito, per strada, che le recherà la (buona?) novella di un altro episodio altrettanto casuale, basta a sottrarre la protagonista alla quiete labile dei suoi cinquant’anni e a risospingerla nell’antro asfittico di tribolazioni (mai) trascorse. E all’uncino che ancora le trapassa atri e ventricoli: sua figlia.

Sì, perché a cominciare dal tema nevralgico di una maternità sofferta e contrariamente agli annunci che ne hanno preceduto lo sbarco a Cannes, Julieta è un pellicola inequivocabilmente almodovariana. Certo, degli almodrammi più esuberanti e onusti mancano sicuramente gli inserti comici o il consueto florilegio di citazioni e riferimenti alla cultura pop, dal linguaggio pubblicitario alla settima arte. Tuttavia, quanto c’è di riconducibile al regista surclassa eventuali carenze e poco importa se l’ispirazione è giunta da tre racconti di Alice Munro della raccolta In fuga. È sufficiente un colpo d’occhio a chi abbia una familiarità anche minima con l’estetica del regista. A certe inquadrature dall’alto. A certi morbidi carrelli verticali. Alle tinte espressionistiche e, in particolare, ai rossi alla Schmidt-Rottluff. Al design delle scenografie. Come Lari a guardia del focolare paterno, Rossy De Palma interpreta la governante come in Kika e Darío Grandinetti il maschio appetitoso, confortevole e magnanimo come in Parla con lei. E non manca la comparsata di Agustín Almodóvar, in divisa da controllore, stavolta.

Julieta - un fotogramma

Intanto, entro l’ampolla di stilemi e facce assodati, Don Pedro de la Mancha mescola i crucci di sempre. Ciò che Manuela in Tutto su mia madre non era riuscita a confessare al figlio Esteban per un inganno della sorte, forse lo svelerà Julieta alla figlia Antía dopo una lunga e snervante lontananza; e, in ambedue le vicende, è qualcosa di sottaciuto sulla figura paterna. Anche se i segreti del film del 1999 erano assai più roventi e scabrosi. Tant’è che lo spettatore più affezionato, pur ritrovando nell’ossessione monomaniacale di Julieta uno degli input psichici più comuni nei personaggi almodovariani (!), non può astenersi dal reputarne, talvolta, eccessiva l’intensità e arcane le cause (lo sconosciuto sul treno…).

L’impressione, non molto allettante, è che Almodóvar si stia gradualmente mutando, più che nella maniera, nel compendio di se stesso e che le sue opere, anziché impressionare le incandescenti contraddizioni di una società e di una natura umane imponderabili e complicate, e quindi restituirci la truffautiana idea di mondo, si limitino a sintetizzare un’idea di cinema o, meglio, l’idea che un tempo innervava il cinema dell’autore, di cui Julieta pare più uno stinto bigino che un’evoluzione o una riproposizione con il botto o la falsificazione popperiana che provi, per contrasto, la validità del pregresso e lo superi al contempo. Perché il film è, in definitiva, dignitoso e sarebbe ingiusto dargli meno di due stelle Morandini, ma la poetica del filmmaker è fuoriuscita in modo assai più incisivo ed emozionante altrove. Talmente cartaceo e pretestuoso è, a tratti, l’intreccio, da privare il film d’ogni tensione. E il deficit riguarda pure l’autenticità: i coiti con la biancheria intima indosso lasciamoli a Hollywood. Anche nello scoperchiare le scatole cinesi dei diversi flashback Almodóvar si mostra affaticato e non più il lucido sceneggiatore che sapeva squadrare i ciottoli drammaturgici affinché ogni componente della diegesi combaciasse con le altre: le nipoti di Beatriz, figlie di un fratello che era bimbo al calare degli anni Novanta, non possono essere adolescenti ai giorni nostri. E l’impaccio appesantisce, purtroppo, anche gli involi pindarici verso mete liricheggianti, come il cervo che corre rasente il treno (serviva proprio il ralenti?) o Emma Suárez che, nella parte di una Julieta invecchiata, emerge dall’asciugamano in cui era stata avvolta Adriana Ugarte, Julieta da giovane, a significare la senescenza interiore dell’eroina.

Almodovar con il cast di Julieta

Almodóvar mira alto quando cerca di appropinquare il tema della trasmissione ereditaria della colpa, come nella tragedia greca che la filologa classica Julieta ben conosce; Julieta che, per inciso, mutua il nome dalla Juliet di Munro, ma che, a proposito di colpe dei genitori che ricadono sui figli, è omonima pure della Juliet shakespeariana. Le ambizioni, tuttavia, restano in larga misura inattuate. Tant’è che, per insaporire una storia scialba e scontata, il regista è costretto ad accumulare sventure in numero superiore al buon senso. E a ridurre il film al loro elenco.



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