Di persona, Filippo Barbagallo appare timido, un po’ esitante e vagamente lunare quanto il personaggio che interpreta nel suo film d’esordio, Troppo azzurro, dal 9 maggio nelle sale italiane dopo un’anteprima di grande successo alla Festa del Cinema di Roma 2023.
Il film - che Barbagallo ha scritto, diretto e interpretato - racconta infatti di un ventenne di nome Dario, caratterizzato da un incastro perfetto tra tra pigra indolenza, insicurezza, timidezza e nevrosi che lo rende riluttante e un po’ passivo nei confronti della vita da vivere: quella che riguarda il suo futuro, e ancora di più il suo rapporto con l’altro sesso.
L’idea di questo film, racconta Barbagallo è nata qualche anno fa, quando era studente di sceneggiatura al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma: “avevo 23 o 24 anni”, racconta, “dentro al film credo ci siano le preoccupazioni e i pensieri di quell’età, un’età che poi a livello psicologico può durare anche parecchio: in me è durata più di quanto avrei voluto”. Dall’alto della mia vecchiaia vorrei dire al 28enne Barbagallo che quei quattro o cinque anni che sono trascorsi sono un lasso di tempo quasi esiziale, per fare un discorso del genere, ma evito.
Troppo azzurro: trailer e trama ufficiale del film
Dario, 25 anni, è aggrappato al suo equilibrio da adolescente: vive ancora a casa con i suoi e ha lo stesso gruppo di amici dal liceo. Quando nel torrido agosto romano inizia a frequentarsi prima con Caterina, una ragazza conosciuta per caso, e poi con Lara, la ragazza “irraggiungibile” che ha sempre amato, dovrà scegliere se restare nella sua comfort zone o lasciarsi finalmente andare.
“C’è parecchio di me in Dario”, ammette Barbagallo. “Il mio è un film abbastanza autobiografico da quel punto di vista, ma il punto della questione non sono io. Non uso il cinema per elaborare un trauma. Però la materia che avevo sottomano era quella, e pensavo che raccontare parti di me mi avrebbe permesso di scrivere una cosa più autentica, e che per gli altri trovarsi di fronte a un racconto di prima mano potesse essere più divertente”.
E purtuttavia, pur essendo partito da dati di realtà che ben conosce, Filippo Barbagallo confessa di aver fatto di una certa vaghezza, e di una chiara indeterminazione, una delle caratteristiche del suo racconto: “Non scrivo volentieri di qualcosa ho troppo chiara in testa. In questo caso conoscevo le sfumature di un carattere, le sue applicazioni nella vita di tutti i giorni, ma devo ammettere che il nocciolo della questione, il dolore profondo di un personaggio, pur raccontato in un film molto leggero, non credo di averlo capito fino in fondo”. Va detto che questa assenza di risposte chiare, in Troppo azzurro, si tramuta in un pregio, invece di essere un difetto.
Da più parti, di fronte a questo felice esordio, si sono tirati in ballo nomi importanti del nostro cinema, paragonando Troppo azzurro ai primi film di autori come Carlo Verdone, Nanni Moretti o Massimo Troisi.
“Sono autori che amo da morire, e che sicuramente ho introiettato, e i paragoni mi fanno piacere, ma non so se ci avrei pensato per conto mio, se non me lo avessero detto”, dice Barbagallo. “Quando ho iniziato a scrivere il film ho provato a non pensare al cinema degli altri, soprattutto ai film che amo, perché è sempre rischioso farlo: se hai troppo una cosa in testa rischi di copiarla, e copiandola di esagerare”. In particolare, dice Barbagallo, forse dimenticando la storia del non pensare all’elefante, “ho cercato di evitare di pensare a Troisi, perché soprattutto agli inizi il suo è stato un cinema sulla timidezza, che è un tratto importante del mio personaggio e della storia. Poi lui è stato un genio assoluto, un attore inarrivabile, non solo tra gli attori comici, e paragonarmi a lui mi avrebbe gettato nel terrore assoluto. Però certe tematiche, sì, le avevo in testa”.
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A sentir parlare il suo autore, che pure porta un cognome importante nel panorama del cinema italiano, Troppo azzurro è un film che si è fatto quasi per caso, per una serie di piccole spinte e di coincidenze fortunate. Se è finito a dirigere e interpretare la sua sceneggiatura, racconta, “è perché la mia produttrice, presso la quale stavo facendo uno stage e cui avevo fatto leggere il copione, mi ha detto ‘se non lo fai te, chi lo fa?’, e in fondo la stessa cosa è successa per la recitazione. Ammetto che la cosa mi ha fatto piacere, perché avevo il film molto bene in testa, in fondo pensavo che avevo i mezzi per farlo, ma ho sempre bisogno di una spintarella per fare le cose che vorrei, è importante per me sentire la fiducia altrui”.
Su una cosa, però Barbagallo è netto: il suo non vuole essere un film generazionale. “Ho solo raccontato una storia, alla quale non ho nemmeno io tutte le risposte, e in più non mi piace affatto l’idea di fare un film a tavolino, per dimostrare un tesi, rischiando i luoghi comuni”.
Ecco, di Troppo azzurro potrete pensare quel che vorrete, ma di certo non è un film che gioca sui luoghi comuni. Ambientato in una Roma insolita (“volevo luoghi che trasmettessero l’atmosfera dolce, rilassata e un po’ fumettistica del film”, dice il suo autore), forte di scelte di casting funzionali e intelligenti (con Barbagallo recitano un ottimo Brando Pacitto, l’amico del cuore di Dario, e le giovani e brave Alice Benvenuti e Martina Gatti, i due amori tra cui il protagonista oscilla - ma c’è anche un ruolo per l’amico Valerio Mastandrea, che Barbagallo ha voluto nel film per sentirsi più sicuro), Troppo azzurro è un esordio divertente, dolce e stralunato, che mette addosso anche molta curiosità di vedere come il suo autore "per caso" darà seguito alla sua carriera.
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