sabato 1 luglio 2023

Pietro Sermonti ovvero l'ultimo giovane Werther a cui il successo ha regalato il sorriso

È sempre piacevole intervistare Pietro Sermonti, un attore che, nonostante la popolarità, continua a sembrare "uno di famiglia". Nel resort di Forte Village in Sardegna, dove si svolge il Filming Italy Sardegna Festival, lo riconoscono in tanti, a cominciare dalla figlia di una collega giornalista che, vedendolo arrivare, grida: "Guarda, c'è Stanis!". Stanis è il personaggio che Sermonti interpreta in Boris, un attore mediocre che gioca a fare il divo hollywoodiano. Ma prima della serie tv ideata da Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e Mattia Torre, Pietro è stato Guido Zanin di Un medico in famiglia, la seguitissima fiction con Lino Banfi. Al cinema, l'attore ha recitato prevalentemente in commedie, poi è arrivato Marco Bocci che gli ha affidato un ruolo drammatico nella sua nuova regia La Caccia. La nostra intervista parte da qui, e Pietro Sermonti, sorridente e gentile, ci racconta divertito l'inizio della lavorazione: "Era il 6 dicembre. A mezzanotte e mezza ho finito Boris, ho preso la macchina, sono arrivato a Rieti, e 4 ore dopo ero sul set, dove Marco stava girando l'ultima scena del film, quindi ho avuto la fortuna di vivere un’esperienza psichicamente rilevante, perché passare da Stanis a La Caccia è stato un trauma da cui ancora non mi sono ripreso".

Cosa è più nelle tue corde: la commedia o il dramma?

Confesso che la mia indole di uomo è molto più simile al personaggio de La Caccia che a Stanis. Quando ero ragazzino, volevo fare Cechov, Amleto. I film di Ingmar Bergman in confronto alla mia vita erano una sitcom, per cui mi sento di dire che vengo da un mondo duro, buio, tosto, tanto che, se dovessi diventare regista o sceneggiatore, non vedrete cose tanto allegre, e credo che il fatto che io abbia avuto un po’ di fortuna con la commedia sia proprio il risultato di una distanza che ho dovuto prendere dal mio pessimismo. Di solito i comici sono persone malinconiche, sole, tendenzialmente tristanzuole, e io mi riconosco perfettamente in questo identikit, anche se non sono esattamente un comico. Io sono stato ai domiciliari dai 20 ai 30 anni senza avere commesso reati.

Finché un giorno…

Finché un giorno mi sono strofinato contro la superficie giusta e mi sono acceso. Ammetto di essere stato fortunato ad avere amici come Giacomo Ciarrapico e Mattia Torre, che conoscevo dall'82 e che mi hanno dato il copione di Boris, e in quel momento per me il mondo è cambiato. Credo di essere diventato allora un attore brillante, di commedia, chiudendomi però in una prigione. Poi, per fortuna, è arrivato Marco Bocci, che è un attore, e subito gli ho permesso di farmi fare cose che non avevo mai permesso a nessuno. Mi sono fidato di Marco, perché sono un istintivo. Campo molto di improvvisazione, ma Bocci aveva un'idea precisa del film, e così mi sono abbandonato alla sua visione. Inizialmente mi sono detto: "Io mica la farei così", ma dal secondo giorno ho cominciato a ripetermi: "ok, fidati vai!".

Avevi visto il primo film di Marco Bocci, A Tor Bella Monaca non piove mai? Hai notato un cambiamento, un miglioramento?

Direi di sì, La Caccia sembra il film di un eroinomane norvegese novantaduenne sdentato, che ha avuto una vita difficilissima e ha deciso di raccontare questa storia in questo modo così fastidioso. C'è uno scarto clamoroso rispetto al suo esordio A Tor Bella Monaca non piove mai. Non sono 2 film della stessa persona, soprattutto se si considera il fatto che non sono passati 60 anni ma un anno e mezzo.

E com’è andata? Come hai costruito Mattia?

Il lavoro che ho fatto è  stato semplicemente di avvicinarmi a me stesso, per cui altro che catarsi! Emotivamente parlando, ho voluto spegnere i motori. Io facevo Gesù dentro Boris: immaginati quanto stavo sopra le righe, era come prendere l'LSD tutti i giorni, per cui ho dovuto togliere tutto, spegnere la macchina, mettere in folle,  e lavorare di sottrazione. È stata un’esperienza potentissima, perché con un personaggio del genere sei più vicino alla tua anima, alla persona che sei, non hai bisogno di fare il pavone, di andare a cercare niente. Ne La Caccia tutti i personaggi sono ingolfati in modo atroce e il mio è quello che si rompe immediatamente: sembra che ce l'abbia fatta invece si sfascia, perché si illude di poter cambiare. Fare questo film mi ha spinto a mettermi a fuoco e in gioco, e qualcosa è cambiato: mi sono subito sentito più leggero e più giovane ma concentrato su ciò che dovevo fare. È come quando surfi: se l'onda è grande e tu non sei lì con il corpo e con la testa, al 100% muori.

Torniamo al momento in cui è arrivato il successo…

Come ho già detto, vivevo ai domiciliari, e di colpo non potevo più uscire di casa perché mi riconoscevano tutti. Io non avevo la televisione, ma sapevo che Boris andava forte e ho capito che la vita stava ricominciando a sorridermi quando per strada la gente mi chiamava Stanis. Io sono Stanis ormai da una decina d’anni e sono contento, anche perché Stanis è più bello di Guido.

E come ti sentivi? Eri contento?

Guarda che è una sostanza stupefacente mica da ridere. Tu esci e vedi che la gente ti riconosce, le ragazzine si emozionano, urlano. Avevo 30 anni e sapevo che non avevo scoperto il vaccino contro l’aids, ma è difficile avere un rapporto normale con la gente quando sei un volto noto, perché o ti adorano, o ti odiano. Se sei una persona qualunque, vai in un autogrill, ti gratti la schiena, incontri uno al bar e ci fai due chiacchiere. Io non potevo farlo. Rammento che mi dicevo: ‘'Faccio questo mestiere per conoscere gli uomini, per avvicinarmi agli esseri umani e invece guarda cosa succede, in Italia non avrò mai una vita normale. Così ho iniziato a fare un percorso spirituale: andavo in India, nella Foresta Nera e stavo in silenzio, perché quando tutti sanno chi sei, l'ultimo che se l'è dimenticato sei tu, per cui andavo in lande remote in cui nessuno mi filava: in India, per esempio. A Bangalore Un medico in famiglia non era ancora arrivato, e io passavo 20 giorni con degli elefanti e 300 gradi. Ballavo e parlavo in sanscrito, era meraviglioso non essere riconosciuto da nessuno. Poi tornavi e tutto ricominciava come prima.

Ma non ti rende felice almeno un po’ il fatto che così tante persone amano te e il tuo lavoro?

Devo dire la verità. sono molto fortunato perché non mi è mai capitato di essere insultato o aggredito. Quando incontravo ragazzini di 13, 14 anni che venivano a fare la foto con me che tremavano, ammetto che tremavo anche io. Chiedevo io l'autografo a chi me l'aveva appena chiesto. E pensare che poco prima ero un marxista convinto. Volevo entrare nel sistema e gridare: "Io faccio questa cosa e vi dimostro che la televisione è una merda!", e invece mi sentivo John Lennon.

Finita l'intervista, diciamo a Pietro che frequentavamo il suo stesso asilo. Lui quasi si commuove. Lo racconta alla sua assistente mentre arriva qualche fan di Stanis e gli chiede l'autografo. Lui obbedisce e sorride, poi si allontana, lasciandoci l'impressione di aver chiacchierato con un amico. La grande differenza è che  dobbiamo sbobinare la piacevole conversazione, ma per Sermonti lui ne vale la pena.



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