domenica 23 febbraio 2020

Persian lessons - Berlino 2020

È accaduto spesso di parlare da queste colonne del massimo sceneggiatore tedesco Wolfgang Kohlhaase (1931). A lui si devono numerosi film culto del cinema della DEFA (la società di produzione della DDR), ma anche numerosi film del cinema successivo alla riunificazione, pochi dei quali (purtroppo) sono arrivati in Italia; della sua produzione post-riunificazione forse è conosciuto in Italia solamente Il silenzio dopo lo sparo di Volker Schlöndorff. Se Kohlhaase è poco conosciuto in Italia come sceneggiatore, lo è ancor meno come scrittore in proprio, anche la sua produzione è ridottissima, ma non per questo meno importante. Negli anni '70 uscì a Berlino Est una deliziosa raccolta di una decina di racconti intitolata Silvester mit Balzac (San Silvestro con Balzac).

All'interno di questa raccolta ce n'è uno intitolato Erfindung einer Sprache (L'invenzione di una lingua) che ha funto da canovaccio per il film presentato oggi a Berlino nella sezione Berlinale Special, una coproduzione internazionale (tedesco-russa-bielorussa) – si badi bene – senza il coinvolgimento dello stesso Kohlhaase. Anzi, la sceneggiatura l'ha scritta il russo Ilja Zofin, considerato l'iniziatore dell'intera impresa. La regia è stata affidata a Vadim Perelman, russo di origine ebraica, ma ormai stabilitosi sulla west-coast. Il valore aggiunto del film sono i due attori principali, ovvero il protagonista Gilles, interpretato dall'eccellente attore di origine argentina Nahuel Pérez Biscayart (conosciuto al pubblico internazionale grazie a 120 battiti al minuto di Robin Campillo) e Lars Eidinger, il nazista con la voglia in faccia di Babylon Berlin, presente in numerose produzioni internazionali ma soprattutto la star numero uno dei palcoscenici berlinesi).

Ma il valore aggiunto principale è il plot, decisamente originale, pur nel quadro di un genere, i film sulla Shoah, dove si fa fatica, ormai, a presentare storie che non diano la sensazione del già visto. Gilles viene trasportato in un campo di concentramento e nel furgone scambia un pezzo di pane con un libro scritto in persiano. Sul momento la scelta sembra peregrina non solo perché ha molta fame ma soprattutto perché uno si chiede che cosa potrà mai farsene di un libro in farsi, visto che quella lingua non la conosce? E invece, fin da quando, a metà tragitto i prigionieri vengono uccisi, Gilles si salva perché dichiara di esser stato rastrellato per errore: lui non è un ebreo ma un persiano. Si dà il caso che l'ufficiale del campo di concentramento dove sono diretti, nonché responsabile della cucina per gli ufficiali (lui, nella vita civile, cuoco che guarda caso di cognome si chiama proprio Koch) sia alla disperata ricerca di qualcuno che gli insegni il persiano perché ha deciso, finita la guerra, di trasferirsi a Teheran, dove, come apprenderemo abbastanza presto, vive anche il fratello. Gilles diventa allora l'insegnante di persiano di Klaus Koch che, come il tedesco della barzelletta, decide di imparare il persiano apprendendo un certo numero di parole al giorno.

Parole che con un esercizio mnemonico che si rivela un esercizio di salvezza e di salvataggio ogni giorno Gilles deve inventarsi mentre è dietro a svolgere l'altro suo compito che è quello di sguattero in cucina. E quando gli viene affidato un terzo compito da Koch, ovvero quello di trascrivere scrupolosamente i nominativi dei prigionieri giustiziati direttamente al campo, ovvero trasferiti ad altri campi di sterminio è proprio da quelle liste (dalle lettere di alcuni nomi o cognomi) che trae lo spunto per le parole in finto persiano che deve giornalmente ammannire all'ufficiale. La vicenda, strabiliante e solo parzialmente realistica, racconta, oltre alla trama di fondo, il lento avvicinamento fra il nazista e il prigioniero, un avvicinamento che decreta una sostanziale seppur paradossale umanizzazione del nazista, persona lesionata da una storia famigliare di miseria che ha vissuto l'adesione al nazismo come potenziale riscatto. In mezzo a questo commovente kammerspiel si dipanano tutta una serie di vicende di rivalità, accanimenti e gelosie nella vita del campo, che forse rappresentano la parte più debole del film, vicende che vedono protagonisti ufficiali, ufficialetti e soldati.

Il film a più riprese riporta alla memoria tutti i film, soprattutto quelli degli ultimi vent'anni, sia quelli tragici sia quelli più grotteschi e paradossali: da Train de vie a Schindler's List, da La vita è bella a Jakob il bugiardo, da Il pianista a Il figlio di Saul ma si caratterizza per originalità proprio in grazia dell'invenzione di fondo, l'invenzione della lingua tramite la quale i due protagonisti, per l'appunto, trovano un linguaggio comune secondo un più generale assunto in base al quale trovare un linguaggio comune non può non condurre a un processo di umanizzazione e di avvicinamento, anche all'interno di uno stato d'eccezione.

Il finale è sensazionale e commovente: l'arrivo a Teheran di Koch che crede di parlare farsi ma parla una lingua che evidentemente in loco non conoscono affatto, tanto che i persiani non possono far altro che arrestarlo, e l'interrogatorio di Gilles da parte delle truppe alleate, le 2840 parole della lingua inventata ritornano ad essere, secondo un procedimento uguale e contrario a quello compiuto per inventarle e memorizzarle, i 2840 nominativi di ebrei sterminati, col che il protagonista diventa un archivio vivente, uno Yad Yashem orale della memoria della Shoah. Un maggiore rigore formale, qualche taglio nelle vicende parallele, un uso meno patetico della musica avrebbero giovato al film che ha tutte le caratteristiche, pensiamo, per trovare ampia distribuzione internazionale.

(Persian Lessons); Regia: Vadim Perelman; sceneggiatura: Ilja Zofin; fotografia: Vladislav Opelyants; montaggio: Vessela Martschewaski; interpreti: Nahuel Pérez Biscayart (Gilles), Lars Eidinger (Koch ), Jonas Nay (Max), Leonie Benesch (Elsa), Alexander Beyer (il comandante); produzione: Hype Films, Mosca, LM Media, Berlino origine: Germania-Russia-Bielorussia 2020; durata: 127'



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