Il film si apre con un carrello laterale che accompagna il ritorno a casa di Xhafer, un virologo di origine kossovara che vive e lavora in Germania. Una musica secca, martellante e disturbante scandisce la scena che rivedremo più volte nel corso del film. La ripetizione è la cifra stilistica dominante del film; del resto il regista, anch'egli kossovaro, Visar Morina (41 anni, al secondo lungometraggio, il primo, cinque anni fa è entrato nella long list dell'Oscar come miglior film straniero, vincendo altresì diversi premi in festival piuttosto celebri anche se non di primissimo livello, tipo Bosforo, Karlowy Vary, Cottbus, Monaco, il film s'intitolava Babai) si richiama, sul piano della drammaturgia, esplicitamente a Samuel Beckett. Questa cifra stilistica viene abbondantemente assecondata dal direttore della fotografia, ovvero Matteo Cocco che a Berlino dirige la fotografia anche del film di Giorgio Diritti e che ha malgrado l'ancor giovane età una carriera alle spalle davvero di tutto rispetto, in Italia e fuori dall'Italia.
Il ritorno a casa di Xhafer coincide con il primo elemento disturbante di una lunga serie: sulla porta di casa c'è il cadavere di un topo morto, sapremo di lì a poco che, malgrado lavori in un laboratorio dove si compiono anche esperimenti sui ratti, Xhafer nutre un'autentica fobia nei confronti dei topi e chi ha piazzato lì quell'animale parrebbe saperlo. Sposato a una donna non esattamente affettuosa e passionale (interpretata da Sandra Hüller, l'attrice di Vi presento Toni Erdmann, Maren Ade, la regista, con la sua "Komplizen Film" è fra le produttrici del film), padre di tre figli, due un po' più grandicelle e uno che la madre ancora allatta, Xhafer è un individuo molto sensibile e come tale, diciamolo pure, qua e là incline alla paranoia. Quel che piace del film è proprio questa incertezza di fondo: se all'inizio si è portati, per solidarietà, a sposare in tutto e per tutto il punto di vista del protagonista, alcuni suoi comportamenti vieppiù strani insufflano nello spettatore dubbi sempre maggiori su quanto corrisponda al vero quel che Xhafer afferma e quanto invece sia frutto della sua immaginazione.
Più passa il tempo e più si è portati a propendere per la seconda ipotesi. Sempre vestita di rosso (altro tratto antinaturalistico del plot), la stessa moglie, pur faticando a ottenere le simpatie dello spettatore, fin dall'inizio lo aveva del resto messo in guardia nel giudicare le ostilità avvertite sul posto di lavoro (sottrazione di materiali decisivi per stendere le proprie relazioni, esclusione della mailing list, attese prolungate per ottenere un appuntamento) come frutto di un implicito o esplicito razzismo nei confronti di qualcuno che non si è – e non è mai stato – veramente integrato nella comunità di appartenenza, non escludendo che la scarsa integrazione potesse invece essere dovuta a un'antipatia di fondo da lui suscitata.
Tutto il film si svolge all'interno di due ambienti profondamente claustrofobici: il posto di lavoro e la casa, ripresi sempre allo stesso modo da Cocco, labirintico e incolore l'ufficio, tendenzialmente notturno con colori giallo-verdastri e i soffitti bassi basi la casa dove Xhafer entra ed esce senza che nessuno se ne accorga, dove le notti sono piene di incubi, le discussioni livorose e aggressive e anche i momenti affettuosi con le figlie sembrano da un momento all'altro nascondere una minaccia. Si tratta decisamente di un buon film, non a caso già passato poche settimane fa a Sundance, e adesso riproposto a Berlino nella sezione “Panorama”, uno studio psicologico sospeso fra razzismo e paranoia, capace anche di accogliere un piccolo gruppo di comprimari che arricchiscono una sceneggiatura decisamente di livello: il collega sovrappeso, almeno all'inizio solidale, imbranato con le donne e con qualche turba psichica, il collega a cui Xhafer attribuisce tutto il male possibile, interpretato da un eccellente Rainer Bock, ma che nella parte finale del film contribuirà da diversi punti di vista a cambiare non di poco le carte in tavola, la donna di servizio (con tanto di ragazzino a rimorchio), d'origine albanese, con cui Xhafer sembrerebbe avere una relazione clandestina. Più il film prosegue e più il sembrerebbe è di prammatica, ma la continua revisione del punto di vista da parte dello spettatore è, al cinema, sempre una gran bella cosa.
(Exil); Regia:Visar Morina; sceneggiatura: Visar Morina fotografia: Matteo Cocco; montaggio:Laura Lauzemis, Hansjörg Weißbrich, Visar Morina;interpreti: Mišel Matičević (Xhafer), Sandra Hüller (Nora), Rainer Bock (Urs),Thomas Mraz (Manfred); produzione:Komplizen Film, Berlin, Frakas Productions, Liège, Ikone Studio, Prstina; origine: Germania-Belgio- Kosovo 2020; durata: 121'.
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