venerdì 28 febbraio 2020

Irradiés: recensione del dirompente documentario sulla memoria di Rithy Panh in concorso al Festival di Berlino 2020


Le radiazioni della malvagità umana che tormentano uno dei sopravvissuti dei genocidi del Novecento.

Il cinema della memoria assume un concetto del tutto originale e unico, quando si parla del cambogiano Rithy Panh. Un sopravvissuto, è così sintetizzabile tutta l’opera documentaristica, o meglio fra cinema e realtà, di questo autore sensibile e capace di sperimentare con la forma filmica. La famiglia venne espulsa dal regime dei Khmer rossi nel 1975 da Phnom Penh, capitale cambogiana. Uno dopo l’altro, quasi tutti i suoi familiari più stretti furono sterminati dalla fame e dagli stenti nei campi di lavoro nelle regioni più remote del paese. Il padre era un ministro e politico di rilievo, e come tale rappresentava uno dei primi nemici da rieducare per il regime khmer. Il giovane Rithy scappò a 15 anni e visse alcuni anni in Thailandia, in un campo di rifugiati. Poi arrivò a Parigi, dove ha studiato e si è formato, prima di tornare negli anni ’90 in Cambogia e fare avanti e indietro fra i due suoi paesi.

Proprio il ritorno dall’esilio l’ha spinto a scavare sempre più nella memoria, prima della sua famiglia, oltre che di sé stesso, poi del suo paese e in generale degli angoli del mondo che hanno subito stermini e regimi liberticidi. La sua è diventata presto una missione e un’ossessione: mantenere in vita la memoria, attraverso il cinema e il documentario in particolare, tanto da poterlo definire una sorta di Primo Levi del racconto per immagini

Il lavoro che l’ha fatto conoscere è stato S-21, la macchina di morte Khmer rossa (2003), in cui mise a confronto a distanza di trent’anni due prigionieri e i loro ex carnefici. Apprezzamento confermato poi con la nomination all’Oscar 2014 per L’image manquante, un primo tentativo di sperimentare con il documentario, spinto ora all’estremo con i 90’ di suggestioni dolorose, con immagini d’archivio e voce fuori campo, che in Irradiés ricostruiscono una specie di percorso fra l’onirico e il requiem in un’impossibile (ri)elaborazione del dramma dei sopravvissuti, di chi è stato irradiato dalle radiazioni nucleari, a Hiroshima e Nagasaki, ma più in generale dal morbo della malvagità umana.

Un virus, quello del male, che rischia di propagarsi di generazione in generazione, e in risposta al quale da anni Rithy Pahn è in cerca di un antidoto. Le immagini sono durissime, difficile non distogliere lo sguardo davanti a corpi deformati dalle radiazioni, ad arti mozzate, e ferite profonde di ogni genere. Un incubo a occhi aperti generato come flusso di coscienza da chi quell’incubo, a occhi chiusi, continua a viverlo da tanti anni, sentendosi, come dice lui, “uno scarto della macchina dello sterminio”. È questa la sua definizione, implacabile, di sopravvissuto. Un dolore che “si esprime attraverso tutto quello che faccio, creo, con il terrore di dimenticare e l’ansia di tradire”.

Tante sensazioni che ci assalgono, da spettatori del film, in un’esperienza di immersione sensoriale da accettare così com’è, irradiati anche noi di una minima parte di quell’oscurità, di quel limbo della perversione umana, da custodire come memoria involontaria per le future generazioni.



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