martedì 25 febbraio 2020

The Woman Who Ran: recensione del film di Hong Sang Soo in concorso al Festival di Berlino 2020


Una variazione al femminile nel percorso minimalista di analisi delle quotidiane ansie e sentimenti dell'autore coreano.

Con la pazienza di un autore da un film all’anno, qualche volta anche di più, il regista coreano Hang Sang Soo ha messo in scena spesso protagonisti che somigliavano, per età e professione, a sé stesso, finendo per diventare ospite fisso da anni dei festival internazionali, come Locarno e la Berlinale.

Come Woody Allen, spesso racconta di intellettuali alle prese con relazioni con donne molto più giovani, con lunghe scene girate a tavola con un notevole flusso di Soju nei bicchieri e sesso dentro le mura domestiche. Il suo è un cinema che riecheggia la nouvelle vague, più volte citata e chiara ispirazione dei suoi percorsi lungo gli angoli intimi della sua Seoul. Un ibrido personale, insomma, fra Rohmer e Woody Allen, se vogliamo semplificare il suo cammino. Sempre uguale a sé stesso, tende a ripetere più e più volte il medesimo schema, tanto da aver recentemente fatto esplodere questa particolarità narrativa in un film, Right Now, Wrong Then, in cui metteva in scena due volte lo stesso incontro e la stessa giornata, con due sviluppi diversi.

Arrivato al suo ventiquattresimo film, l’ottavo negli ultimi cinque anni, scarsi, Hong torna a dirigere per la settima volta la sua musa, Kim Min-hee, mettendo ancora una volta al centro di una sua storia il dualismo, i due punti di vista possibili nell’incontro fra due persone, abbandonando per una volta un punto di vista maschile, in cui la donna è funzione o al massimo motore dell’azione, per raccontare di donne che gli uomini li evocano, li commentano e li criticano a distanza. Il tutto, in un contesto sociale maschilista e conservatore come quello coreano. Le donne di The Woman Who Ran, infatti, sono al centro di questa storia solo per una sospensione temporanea del normale flusso quotidiano della loro vita, orientato e finalizzato alla presenza di un uomo.
Il film è stato il quarto film in concorso a Berlino per Hang, con 
On the Beach at Night Alone che nel 2017 aveva permesso alla protagonista Kim Min-hee di essere la prima coreano a vincere il premio per le migliore interprete, all’interno di una storia che rievocava molto da vicino la loro relazione sentimentale personale, che ha creato, e continua a creare, molte polemiche in patria, dove il regista non riesce a ottenere il divorzio dalla moglie.

Il punto di partenza di The Woman Who Ran è un viaggio per lavoro del marito che consente a Gamhee di incontrare tre donne che fanno parte della sua vita, all’interno di un quartiere elegante ma periferico di Seoul. Due in casa loro, una per caso in un cinema. Il minimalismo di Hong Sang Soo torna in primo piano in questa storia di punti di vista, di maschere e ipocrisie, di insistito dialoghi fra donne, inizialmente concentrate su famiglia, salute, nuovo taglio di capelli, ma che sotto la superficie placida lasciano affiorare qualche risentimento o non detto legato ai loro rapporti passati. Riprese con camera fissa, con qualche zoom a sottolineare passaggi particolarmente spiazzanti o comunque significativi, queste donne emergono nella loro dimensione duplice, quella pubblica e sociale e poi quella più intima, ma sincera, in una costante tensione che è connaturata alle “buone maniere” della società coreana. 

Una parentesi femminile, in cui gli uomini sono solo episodici agenti di disturbo, che dimostra la consueta capacità di Hang di catturare l’attenzione dello spettatore, anche se qui solo per 77’, ma anche una certa vacuità, che sembra promettere chissà quale variazione esistenziale ma rimane sempre piuttosto statica e galleggiante in superifice.



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