La regista ha vissuto cinque mesi chiusa nella comunità dei monaci campioni di kung fu che abita le colline marchigiane, in attesa dell'apocalisse.
Sulle colline dell'entroterra marchigiano, da oltre vent'anni, esiste un monastero un po' particolare. È stato fondato da un maestro di kung fu, già parrucchiere, che sostiene di aver ricevuto una chiamata, e di aver messo assieme il gruppo dei "Guerrieri della Luce", composto da Monaci Guerrieri e Madri Guardiane, tutti ex campioni di arti marziali, che si preparano a un'apocalisse nella quale saranno chiamati a combattere contro il Male nel nome del Padre.
Un luogo misterioso dove si mescolano, in maniera confusa eppure - per chi vi abita - coerentissima, la fede cristiana, il culto mariano, il buddismo oorientale, l'esercizio furibondo delle arti marziali e balli sfrenati su ossessivi ritmi da discoteca.
Questo luogo e questa comunità sono raccontati da Faith, documentario diretto da Valentina Pedicini, prodotto da Donatella Palermo per Stemal Entertaiment con Rai Cinema, che dopo essere stato presentato con successo a numerosi festival internazionali è nella line up della Berlin Critics' Week, che si svolge in concomitanza con la Berlinale.
Fede non solo religiosa, ma in qualcuno
"Sono entrata in questo mondo e in questo film con una domanda," racconta la regista. "Volevo capire perché si decide a un certo punto di abbandonare il mondo esterno e parte della propria identità e di mettere la vita e l'esistenza nelle mani di qualcun altro. Faith non è un film su una setta, loro non sono una setta. È un film su un meccanismo psicologico, sulle dinamiche e relazioni tra le persone. Il titolo del film non fa riferimento solo alla fede religiosa, ma a quella in qualcuno," spiega. "In questo caso del loro maestro."
Tutti i monaci e le madri del monastero, infatti, vivono in totale isolamento e nella venerazione del loro Maestro, che esercita su di loro un controllo totale, figlio di un carisma che è stato capace di toccare perfino la Pedicini. "In genere si pensa che a fare scelte estreme di questo genere possano essere persone con problemi sociali, o economici," aggiunge, "ma in quel monastero ho incontrato persone provenienti dalla borghesia media e alta, alcuni di loro sono laureati, e questo è ancora più inquietante, perché non ci sono giustificazioni che a noi possano apparire logiche. La domanda iniziale si è fatta ancora più grande, ma non ho trovato risposte. Ho conosciuto alcune motivazioni, e un mondo radicale stranissimo, quello creato da nulla dal maestro. Mi affascina e respinge assieme che dal nulla un uomo abbia potuto inventare un mondo, imporre delle regole e una religione. Ma non ho rispote, e ancora meno certezze di quando ho cominciato."
Un film girato in una dimensione di clausura
Per girare il film, e raggiungere la relazione e l'affetto necessari affinché i monaci si rivelassero davanti alla sua telecamera, Valentina Pedicini a vissuto nella comunità per cinque mesi, con una troupe di quattro persone. "Un tempo molto lungo da vivere in una dimensione di clausura come quella," commenta. "Un tempo infinito. Giravano quindici ore al giorno per arrivare a un'ora buona e utile al montaggio finale. La sfida era quella di raccontare la verità in modo autentico. Sono stata sincera fin dall'inizio col maestro, spiegandogli di voler raccontare la verità e non avere dei limiti nel farlo."
Da parte loro, i Guerrieri della Luce hanno accettato di farsi riprendere "per una motivazione molto umana," spiega la regista. "Avevo girato su di loro un corto undici anni fa: ai tempi volevo fare un corto sportivo, ma mi ero resa conto subito che quella in cui ero capitata non era una semplice palestra di kung fu. E non ero pronta, allora, come persona e come regista, per andare più in profondità. Rivedermi dopo undici anni ha aperto in loro lo spiraglio che mi ha permesso di rientrare. Il maestro era convinto che fosse stato il Signore a riportarmi da loro. Con lui ho messo subito in chiaro che il cinema è un'arma potentissima, e che avevo bisogno di una verità senza filtri. Lui ha accettato. C'era sicuramente la voglia di veder traghettare la vicenda della comunità all'esterno, di essere conosciuti e riconosciuti, ma ho avuto sempre la sensazione di filmare quello che per loro era un testamento."
Questioni etiche sconcertanti
Vivendo isolata, in regime di povertà, a tratti toccata da scandali sessuali, la comunità dei Guerrieri della Luce si sta infatti lentamente sgretolando. E Faith racconta, tra tante altre cose, anche la fuga improvvisa di uno dei suoi membri.
Girando il film, Valentina Pedicini si è spesso trovata di fronte a questioni etiche che definisce "sconcertanti". "Ho visto cose che non mi appartenevano e suscitavano in me una reazione. E che di volta in volta mi costringevano a chiedermi cosa fare di fronte a quello che vedevo."
Lei, come la sua troupe, ha anche dovuto sottostare a delle regole. La prima e più importante è stata quella di vestirsi unicamente di bianco come tutti gli altri monaci. "Rinunciare ai colori," spiega la regista, che non ha caso ha girato Faith in un elegantissimo bianco e nero fotografato da Bastian Esser, "è parte della guerra che loro fanno contro loro stessi. Vivono in uno stato di continuo controllo e di mortificazione dei propri desideri, della loro identità e della loro personalità. Il loro rapporto ossessivo col corpo," aggiunge la regista, "li rende quasi degli attori con un controllo costante sulle menti, oltre che sui loro corpi. Io dovevo stare lì con loro, e aspettare che si spogliassero di quella performance continua, toglierli dal palco su cui costantemente si esibiscono. Volevo ricordare che c'è ancora dell'umanità in loro, nonostante un'impressionante rimozione del loro passato, di quello che c'era prima del monastero: una cosa che ho trovato molto difficile da digerire."
Difficile da girare, difficile da vedere
Non è stato un film facile da girare, Faith. "Spesso c'è stata la tentazione di mollare," confessa Valentina Pedicini. "Ma sapere che quello era solo un film, per me, sapere di poter uscire alla fine delle quindici ore di riprese, è stato fondamentale. Alla fine di Faith sono cambiata io. Il film mi ha permesso di conoscermi meglio, sia come regista che come persona. Non ho fatto questo film per cambiare la realtà ma ho sperato che l'intromissione così violenta del mondo esterno potesse generare qualche riflessione in più negli abitanti del monastero. Non sappiamo ancora se ci sia stata: i loro tempi di elaborazione sono molto lunghi. "
Quello che sappiamo è che i Guerrieri della Luce hanno visto Faith, in una sala noleggiata a Macerata esclusivamente per loro. "Avrebbero voluto vederlo dentro il monastero, ma li abbiamo convinti a entrare in un cinema per la prima volta dopo 20 anni. È stato molto commovente per loro. Il maestro mi ha detto di aver trovato il film duro e violento, ma anche di sapere che loro sono anche quella cosa lì, e ha riconosciuto l'onestà della nostra operazione."
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