giovedì 2 settembre 2021

Il potere del cane, la recensione: il west di Jane Campion in concorso al Festival di Venezia 2021

Un ranch nel Montana del 1925. A gestirlo per conto dei ricchi genitori, due fratelli: uno ruvido e spigoloso, che ama sporcarsi le mani e vive del mito del cowboy che gli ha insegnato tutto su quel mondo; l'altro più morbido, sensibile, empatico, il contrario di uno d'azione.
Una donna e suo figlio. Trattati male e con disprezzo dal primo fratello, mentre il secondo quella donna la consola e la sposa, portando a casa, al ranch, prima lei e poi anche quel figlio strambo e timido, scatenando tensioni e crudeltà psicologiche.
Jane Campion sceglie un romanzo western di Thomas Savage e una storia tutta al maschile, per questo suo ritorno alla regia cinematografica a dodici anni da Bright Star.
Rispetta tutte le regole del genere, affidandosi ai panorami naturali di un finto Montana ricreato in Nuova Zelanda, raccontando il mondo rude dei cowboy, le differenze di classe e quelle di genere, ma la cosa più notevole di questo suo nuovo film sta nella sua capacità di trasformarsi, pur rimanendo coerente e uguale a sé stesso, rivelando la fallacia di certe apparenze iniziali, affidando di capitolo in capitolo il ruolo di protagonista a ognuno dei suoi quattro protagonisti principali.

Dapprima quella di Il potere del cane è la storia di George (Jesse Plemons), il fratello debole. La storia della sua emancipazione dal dominio del rude Phil (Benedict Cumberbatch), del suo matrimonio con Rose (Kirsten Dunst). Poi la protagonista diventa Rose, la sua solitudine, la sua sofferenza per l'ostilità di quel cognato che sembra detestarla e provocarla ogni volta che può. Dopo tocca a Phil, e infine a Peter (Kodi Smit-McPhee), il figlio di Rose.
E nessuno di loro, fin dall'inizio, è in realtà quello che sembra. Tutti hanno i loro segreti, e tutti riveleranno sfumature nascoste.
Se Il buon George tradirà tutta la sua inettitudine, Rose una tendenza all'alcolismo. Phil si rivelerà assai meno rozzo, e forse anche meno macho, di quel che vuole apparire, mentre il timido Pete assai più astuto e calcolatore di quanto tutti credano.

Jane Campion gestisce bene il racconto e, ancor di più, i suoi attori: Cumberbatch e Plemons non sbagliano un colpo, subito dopo arrivano Dunst, e Smit McPhee. I sentimenti che la regista mette in scena sono primari, intensi, totali: su tutti l'odio di Phil per chi invidia e per chi desidera senza poter avere, che lentamente si traforma in qualcosa di diverso. E quindi il suo tormento, che si va scontrare con la sete di vendetta di chi ha promesso alla propria madre di alleviare il suo dolore.
Ma se quella scritta da Savage era una storia viscerale e asciutta, essenziale e ruvida, Campion la tradisce volontariamente nell'estetica e nelle immagini lasciandosi andare a momenti retorici e romanticheggianti un po' stererotipati che paiono tradurre in chiave western le mollezze eccessive di Bright Star.
Le atmosfere evocative e i simbolismi del genere americano per eccellenza non mancano, ma sono utilizzate in maniera un po' ovvia meccanica, non bastano affinché Il potere del cane trovi a forza per scartare, e di diventare qualcosa di più di un prodotto ben confezionato e ben recitato ma incapace di regalare grandi sorprese e forti emozioni, rimanendo nell'ambito del già visto, già sentito, già sperimentato.



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