Non ha certo perso la passione con cui ci raccontò alcuni anni fa la sua opera prima, Raw. Julia Ducournau ha un’idea molto precisa e personale della narrazione cinematografica, con cui vuole regalare agli spettatori un’esperienza anche disturbante, ma non certo banalmente passiva. L’emotività è sempre in gioco, anche in Titane, la sua opera seconda, in sala dal 1 ottobre distribuita da I Wonder Pictures, che ha diviso radicalmente al Festival di Cannes, dove ha trionfato con la Palma d’oro.
Alexia (Agathe Rousselle) adora le automobili, sin da quando, bambina, un incidente le ha donato una placca di titanio nella testa. Facendola rinascere, gonfia di rabbia e amore represso che la trasformeranno in un essere ibrido e nuovo. Perché la metamorfosi si completi, dovrà scoprire la forza potente che muove le cose del mondo: l’essere umano. Per farlo il suo destino si incrocerà con quello di un vigile del fuoco in lutto, interpretato da Vincent Lindon.
Amante dell’Italia, fin dalle estati trascorse da bambina lungo le spiagge pugliesi, abbiamo incontrato Julia Ducournau a Roma, in occasione dell’apertura del nuovo Cinema Troisi, e così ci ha raccontato il viaggio emotivo e artistico che l’ha portata all’ideazione di Titane.
“Quando ho incominciato a pensare a quello che sarebbe poi stato Titane, ero impegnata nella post produzione di Raw. Un momento in cui amo pensare ad altre storie, con nuove idee, per rinfrescarmi la mente dopo essere stata tanto tempo su un film. Raw raccontava in prima persona l’emancipazione di una giovane donna attraverso la scoperta della sua mostruosità. Mi sono detta che nel film c’era una relazione della protagonista con il personaggio di Adrien, un amore assoluto che ho molto amato scrivere, con la loro maniera di scegliersi, come fossero una nuova famiglia. Con amore e desiderio, al di là della loro sessualità e del loro genere, perché Adrien era omosessuale. Una storia che faceva pensare alla possibilità di un amore assoluto. Mi sono detta che era incredibile come non avessi messo questa relazione al centro del film e ho capito che l’ho fatto perché per me era molto difficile parlare d’amore. Ho l’impressione che per me sia qualcosa sempre in divenire, non uno stato acquisito. Allora mi sono sfidata a raccontare l’amore, di tipo incondizionato, caratterizzato dall’accettazione incondizionata di sé e dell’altro, al di là di ogni determinismo. Per me questo è il cuore del mio film, penso davvero sia la storia della nascita dell’amore fra due persone che non erano destinate ad amarsi in alcuna maniera.”
Titane è una storia d’amore, ma anche di un amore protettivo. Tutti i personaggi lo intendono come prendersi cura e proteggere la persona amata. Succede a Vincent Lindon verso la protagonista e alla sua ex moglie verso di lui.
È interessante, non ho mai pensato alla questione in termini di protezione, anche se ha assolutamente ragione. L’ex moglie è protettiva nei confronti di Vincent perché può sembrare una persona forte, ma in realtà è fragile e infantile. Lo sa bene essendo stata tanto tempo con lui, avendo subito insieme la perdita di un figlio. Fra la protagonista e Vincent è centrale più il riconoscimento della solitudine reciproca. Vedono l’uno nell’altra delle ferite profonde. Quello che vogliono proteggere più di ogni altra cosa è la loro umanità, il sentirsi umani insieme. Alla fine vogliono proteggere il loro amore. All’inizio Vincent vuole metterla alla prova, poi finiscono per custodire l’unica cosa che hanno nella vita: il loro amore.
Cosa rappresenta per lei la fusione fra due elementi come la carne e il metallo, cruciale in Titane, oltre che nel cinema di autori come Cronenberg o Tsukamoto?
All’inizio era qualcosa che mi disturbava, perché era al centro di un incubo ricorrente che mi ha angosciata per anni, in cui partorivo parti di motore. Davvero un incubo terrificante, non certo non sogno. Ogni volta che mi svegliavo pensavo quanto fosse forte e disturbante come immagine, anche se non riuscivo a precisare il motivo. Pensandoci per molto tempo ci ho visto la collisione fra atti puri dell’esistenza, come la vita e il parto, e il metallo che rappresenta la morte. Una collisione che mi ha angosciato. Ovviamente è poi stata alla base della sceneggiatura di Titane, con la sua potenza. Ma scrivendolo, e soprattutto girandolo, ho deciso che volevo intrecciare il metallo, rappresentato non come la morte, ma come elemento vitale, e la protagonista, fatta di carne, vitale, ma che è totalmente morta dentro. L’immagine iniziale del film, in cui ci muoviamo nel motore fino al fondo della macchina per arrivare alla ruota in movimento, rappresenta un viaggio all’interno del corpo della protagonista. Il motore per me è l’intestino, il lungo tubo sotto la macchina è la colonna vertebrale e la ruota che gira il cervello. A un certo punto vediamo fuoriuscire dell’olio per renderla organica, non morta, pulsante. D’altra parte lei invece è morta dentro, anche la placca di metallo che ha in testa dimostra come le manchino dei pezzi. Le manca una parte della sua umanità, all’inizio. Il film è il suo viaggio di trasformazione in qualcosa di diverso. Alla fine il metallo si trasforma in qualcosa di vitale, mentre all’inizio era morto. Una delle tante ragioni per cui ritengo che Titane sia un film ottimistico.
Quali emozioni vorrebbe che gli spettatori di Titane provassero?
Da quando faccio dei film, la cosa che mi interessa di più è lavorare sul corpo dei personaggi. In questo modo lavoro anche su quello degli spettatori, sulle loro sensazioni. Voglio vedere se è possibile trovare altri modi per identificarsi in un personaggio. In Titane il corpo ha un ruolo particolarmente importante, l’unica cosa che ti lega per i primi 30 minuti al personaggio principale. All’inizio non è possibile identificarsi in lei, non ha emozioni, è fredda, una psicopatica che uccide, una pulsione di morte ambulante. Ma non volevo renderla astratta, altrimenti tutti sarebbero usciti dopo pochi minuti. Non potendo identificarci con lei ho cercato di far sentire quello che prova lei, fisicamente. Anche per questo all’inizio mostro così tanta violenza in maniera così dettagliata e organica. Sempre dal suo punto di vista. Se lo spettatore la sente, finisce per aver paura per il suo corpo, per quello che può fare o che gli può succedere. Anche se non ama il personaggio e non lo approva moralmente. Questa è la maniera, per me, di mettere lo spettarore nei panni di una persona che inizialmente non ama, restando con lei e che, dopo la trasformazione umana, più che quella fisica, possa emozionare ancora di più. Tutto questo risponde a una domanda che mi pongo fin dalla fase di scrittura della sceneggiatura: perché seguire e come entrare in un personaggio che non si può amare nella prima mezz’ora? Le reazioni che in questo modo genero me le aspetto, sono volute e padroneggiate.
Cosa pensa abbia convinto la giuria ad assegnarle la Palma d’oro?
Per quanto riguarda Cannes, le reazioni contrastanti fanno parte della mia maniera di pensare un film, che vivo più come un’esperienza che come una storia classica raccontata in tre atti. Ho abbandonato molto presto l’idea degli atti. Volevo costruire un’esperienza che portasse verso un’assenza totale di umanità, fino alla nascita di una nuova umanità attraverso l’amore. Un processo trasformativo davvero enorme. Il mio è un percorso che è iniziato dal primo cortometraggio che ho realizzato. Per questo do lo stesso nome a tutti i miei personaggi.
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