giovedì 23 settembre 2021

Parsifal, il nuovo film di Marco Filiberti si arrende all'Apocalisse e traccia una via

È da oggi nelle sale l' "opera cinematografica" Parsifal di (e con) Marco Filiberti: a partire dalla sua stessa definizione, che travalica quella più semplice di "film", si può provare a guidare lo spettatore in quello che Filiberti e i suoi colleghi attori hanno voluto creare: non solo dal punto di vista artistico, ma anche esistenziale e sociale. Abbiamo incontrato l'autore, sceneggiatore e cointerprete in una conferenza stampa durante la quale anche gli attori hanno potuto raccontarci qualcosa di questo viaggio d'introspezione e allo stesso tempo di negazione di se stessi: Matteo Munari come protagonista, Diletta Masetti, Giovanni De Giorgi, Elena Crucianelli, Luca Tanganelli, Zoe Zolferino.

Parsifal, di cosa parla e come funziona l'opera di Marco Filiberti

C'è un giovane ingenuo, senza passato né presente, Parsifal, e ci sono uomini e donne che incontra nelle sue peregrinazioni, nello spazio come nel tempo. Parsifal è un lavoro che nega una lettura diacronica: in altre parole, anche se come ogni altro film ha un inizio e una fine, ciò che accade al suo interno non segue la classica sequenzialità di un film medio, ma gli stessi attori e gli stessi personaggi appaiono via via in contesti differenti, seguendo un percorso che è mentale prima di essere lineare e tipicamente narrativo. Coerentemente, il tema che Parsifal racconta, cioè la resa e la liberazione dai vincoli dell'io e dell'umano (identificato essenzialmente col desiderio), si sposa con la negazione della gabbia narrativa classica.  Da dove arriva la necessità di un simile strappo? Nell'eterno presente tutto è possibile, senza fardelli. Filiberti ci spiega: "La grazia di Parsifal è il non ricordare", una grazia che inizialmente gli altri personaggi, come il cavaliere (?) Amfortas e la prostituta Kundry, non possono vivere pur anelandola, finché non si "liberano" di se stessi, influenzati dal suo esempio. Filiberti aggiunge:

Siamo nel Centro dell'Apocalisse, penso sia evidente. Le arti sono in ritardo nell'annunciare nuovi cieli e nuove terre. C'è una stanchezza per il niente che ci viene proposto e imposto. Io credo in un destino finale redentivo, di cui l'arte deve farsi carico. Il mito di Parsifal mostra la resa, liberandosi però dell'ego: è apocalittico, ma non perché mostri il disfacimento. La sua è una resa spirituale ontologica, senza scorciatoie. [Il traguardo è rinunciare al desiderio], che "tutto muove". Andiamo oltre la cifra culturalizzata del mito, la lettura di Parsifal epico-cristiana. [...] È la ricerca di qualcosa al di là di noi, [...] Dante, Cristo e Platone sono allineati nell'accettare la resa, [...] in funzione però di una rinascita.

Parsifal inizia il suo peregrinare nel porto di Odessa, tra fine Ottocento e primi del Novecento, una "terra desolata" in omaggio a T. S. Eliot. Passa per una spiritualità dogmatica incontrando un morente Amfortas in un'epoca che richiama le Crociate medievali. Entra nel flusso dell'umanità, nell'uomo che diviene desiderio, nel trionfo dell'epoca jazz negli anni Trenta, per poi liberarsi dal corso e ricorso ed entrare nel flusso dell'eterno adesso. Senza più passato, né presente, sradica da queste epoche e da queste singole visioni ristrette le figure di Amfortas e Kundry, che in vesti diverse attraversano queste differenti incarnazioni della lotta dell'essere umano, contro la propria dipendenza dal desiderio.

Parsifal, la genesi del progetto di Marco Filiberti

Parsifal ha preso vita come un'effettiva folgorazione da parte di Marco Filiberti, al punto che l'attore e autore ricorda distintamente il giorno in cui è avvenuto: 13 luglio del 2017. Stava in realtà lavorando su un romanzo, come ci ha ricordato, quando una notte si è svegliato inseguito da quest'idea, che ha preso forma molto rapidamente come sceneggiatura nell'arco di appena tre settimane. Da allora sono operati pochissimi ritocchi al testo, anche se la sua lavorazione non è stata affatto lineare, in parte a causa dei diversi impegni teatrali, in parte perché Filiberti era consapevole della difficoltà di trovare un producer interessato a questo tipo di esperienza così inusuale nel panorama cinematografico nostrano.
Eppure la preparazione è andata avanti, "vaneggiando lucidamente", con la forza di una riscoperta di sé dopo una crisi, fugata dal Cammino di Santiago da Compostela, vissuto da Filiberti prendendosi il proprio tempo, fermandosi anche più a lungo in ogni tappa. L'incontro col produttore Sandro Frezza ha avviato l'esperienza, resa più solida dal contributo del direttore della fotografia Mauro Toscano. Importante era, una volta deciso di realizzare il film, procedere in modo molto spedito, perché l'autore era consapevole che il processo psicologico che l'aveva portato a concepire Parsifal non poteva avere nei suoi collaboratori le stesse radici che aveva dentro di sé. "Mi hanno prospettatato tre anni di preparazione, ci siamo preparati in tre mesi".

Parsifal, i suoi attori e la rinuncia all'io

Come spiega Matteo Munari interprete di Parsifal, la nascita dell'opera cinematografica è scaturita come qualcosa di organico, da una comunione d'intenti e di ricerca con Filiberti e gli altri attori. L'autore voleva che gli attori per primi rinunciassero all'ego che caratterizza spesso questo lavoro, legandosi alle sorgenti primare, agli archetipi, "distribuendo anche nel corpo i piani di ascolto", con l'aiuto di un coreografo per ogni tipo di scena. Munari approfondisce: "È stato un ascolto e un abbandono", come quello del protagonista.
Kundry, portata sullo schermo da Diletta Masetti, è per l'attrice invece "estensione massima del femminile, mistica e prostituta, mite pur nell'estasi dell'eros." Giovanni De Giorgi vede nel Parsifal di Filiberti una liberazione dal concetto ossessivo di "mercato", che non dovrebbe essere sinonimo di arte: "È un'opera al di fuori, non tutto può essere quantificabile." Luca Tanganelli giudica l'esperienza "un regalo ma anche un fardello, però la testimonianza di un mestiere d'attore che si può fare anche in un altro modo". L'esperienza attoriale qui, riunita intorno alla ricerca (non solo artistica) di Filiberti porta a un sentire più alto, con l'ebbrezza di "non averne nemmeno piena consapevolezza".



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