mercoledì 29 settembre 2021

The Queen Helen Mirren a Bari: “Uomini, non ci date per scontate”. E arriva Zalone

A rendere omaggio alla regina del cinema britannico, che è stata Elisabetta II in The Queen di Stephen Frears, è arrivato al Bari International Film Festival addirittura Checco Zalone, che con Helen Mirren ha ballato al ritmo della buffa canzone "La Vacinada". L’attrice ha ricevuto, presso il Teatro Petruzzelli e in mezzo agli applausi, il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence. Lo stesso premio è andato al marito Taylor Hackford, che con la sua signora possiede una masseria non lontano da Tricase. Appena è comparso l’impareggiabile Checco sul palco, il tacco della scarpa rossa dell’attrice si è incastrato nel pavimento, e Luca Medici ha prontamente soccorso l’amica dicendo: "Dodicimila Euro di tacco" e "Io sono contentissimo di averti dato la possibilità di lavorare con me". Poi Checco ha condiviso con il pubblico la sua personalissima motivazione del riconoscimento, che è l'amore della Mirren per la Puglia, perché è facile per George Clooney amare la sua villa sul lago di Como, e per Leonardo DiCaprio il suo attico a Verona, ma scegliere Tiggiano come propria residenza estiva è un atto di grandissimo affetto per la terra che ospita il Bif&st. L’indomani Helen Mirren ha tenuto una masterclass insieme a Paolo Virzì, e i due hanno ricordato i tempi felici della loro collaborazione (per Ella & John - The Leisure Seeker) e hanno parlato di fughe sul set, cinema inglese e di girl power.

La masterclass di Helen Mirren e Paolo Virzì al Bari International Film Festival 2021

A moderare la masterclass Mirren/Virzì è stato il regista e giornalista David Grieco, che ha espresso tutta la sua ammirazione per una donna che è sempre stata ribelle, anrticonformista, determinata e intelligente. Virzì era ed è d’accordo con il collega e così è cominciata una chiacchierata che ha toccato diversi argomenti:

Parole di lode

P.V. - Anche io ho una grandissima ammirazione per l'artista e la persona. Helen Mirren è la testimonial dell'intelligenza, del coraggio e della libertà. E’ stato meraviglioso aver avuto il privilegio di stare gomito a gomito con lei in un camper e vederla gestire ogni momento e ogni cosa con intelligenza, grazia e un talento fenomenale, perfino quando si trattava della luce di Luca Bigazzi, che è crudele perché mostra la fragilità dei corpi, cosa di cui a lei non importava, perché non si preoccupava di essere carina. Ci siamo fatti una promessa con Helen. Ci siamo detti: raccontiamo un po’ di segreti su come abbiamo lavorato insieme, facciamo coming out, diciamo la verità sul nostro viaggio.

Girare in ordine cronologico

H.M. - La prima cosa interessante è che tu, Paolo, abbia deciso di girare Ella & John in sequenza cronologica. Di solito, in un film, si comincia dall'ultima scena e magari si prosegue con la prima. Non avevo mai lavorato così. Il viaggio e il film sono andati di pari passo.

Donald Trump

H.M. - Era l'estate del 2016 e l'America stava bruciando. Abbiamo cominciato dalla scena nella casa di Ella & John, eravamo ad Atlanta. Alla fine siamo arrivati a Key West e durante il viaggio ci siamo fermati in diverse aree di campeggio, e là ho scoperto un mondo che non conoscevo. Eravamo in un periodo particolare per la politica americana. Donald Trump si era candidato alla presidenza degli Stati Uniti, quindi attraversavamo una fase di cambiamento, e Paolo, da italiano, era nelle retrovie, osservava con curiosità e fascinazione quello che stava accadendo, e così abbiamo deciso di inserire qualcosa di quel periodo nel film.

P.V. - Ho aggiunto una scena nella parte finale. Dappertutto c'erano segni di questa violentissima campagna elettorale che divideva l'America e anche la nostra crew: i capi reparto erano a favore di Trump, mentre quasi tutti gli altri no. La nostra troupe veniva dalla Georgia e molti dei suoi componenti avevano armi nel portabagagli, cosa che ho scoperto essere frequente negli Stati Uniti.

Un italiano a Hollywood

P.V. - La parte italiana del film, composta innanzitutto da me e Luca Bigazzi, è rimasta sconvolta dalle regole dell’organizzazione del lavoro in America. In Italia siamo abituati al cosiddetto cinema da guerriglia: corriamo a cercare la luce, non stiamo mai fermi, sfruttiamo tutte le occasioni. Avevamo due aiuto-registi: la mia, Betta, e un tipo delle unions americane che aveva fatto Grease. Secondo le regole organizzative del lavoro negli States, una volta girata una scena, tutti i reparti devono controllare gli attori, ma noi stavamo in un camper senza aria condizionata, era luglio e in Florida e Georgia l'umidità era tremenda. Avremmo dovuto aspettare il controllo del trucco e del parrucco. Ci sembrava una pazzia, per cui ogni tanto spegnevamo le radio con cui eravamo collegati con l'aiuto regista americano e scappavamo, Donald guidava, io aiutavo Helen a sistemare la parrucca, fuggivamo e giravamo come dei matti mentre alla radio l'aiuto regista USA gracchiava: "What the fuck are you doing?".

Il cinema inglese

H.M. - Il cinema britannico ha uno svantaggio di fondo: la lingua inglese. Gli americani parlano in inglese e quindi ho sempre visto una certa schizofrenia. Il cinema britannico ha sempre avuto un occhio rivolto al mercato USA e questo non gli è stato utile, perché nel momento in cui si fa un film pensando al guadagno, si perde quella volontà di realizzare qualcosa di vero, autentico, di fedele alla cultura e alla storia del mondo da cui si proviene. Io per fortuna ho lavorato con registi che sono riusciti a prendere le distanze, come Peter Greenaway e Lindsay Anderson, però per lungo tempo ho avuto difficoltà a lavorare per il cinema inglese. Credo che i film più belli siano quelli locali, che mantengono la specificità del contesto del pubblico che li va a vedere. Naturalmente ci sono diversi tipi di cinema, adesso sono in un film di supereroi, Shazam 2!, che è bellissimo, perché si vede l'artigianalità e l'attenzione ai dettagli è ineccepibile.

Una storia americana o italiana?

H.M. - La ragione per cui ho accettato di fare il film è che avevo visto gli altri lavori di Paolo. Avevo amato la sua sensibilità, umanità e il suo umorismo mai brutale e aggressivo, ma gentile e che riflette sulla condizione umana. Paolo, ti sei avvicinato al cinema americano con una storia che avrebbe potuto benissimo essere italiana.

P. V. - Certo, e il viaggio potevamo farlo da Torino a Tiggiano. Ella & John è un'opportunità che mi è stata offerta, non una mia iniziativa. Volevo evitare di cedere alla tentazione facilona di andare a girare negli Stati Uniti, così ho cercato di proteggermi dicendo: "Ok, lo faccio solo se Ella la interpreta Helen, mentre Donald è John. Purtroppo per me, o per fortuna, hanno accettato, pensavo che fosse impossibile, ma a quel punto non potevo sottrarmi, e ho fatto bene, perché il film è stato uno spettacolo per me, ho imparato tanto in termini di lavoro con gli attori, soprattutto a gestire due scuole diverse, opposte, in termine di approccio al personaggio. Donald, che è un'icona della New Hollywood, è figlio del metodo Strasberg. Io non ho incontrato Donald Sutherland ma John Spencer. Donald era già il personaggio fin dal nostro primo incontro ed è rimasto in parte per tutto il tempo delle riprese, anche fuori dal set. Credetemi, era difficile avere a che fare con un personaggio che sta perdendo la testa. Helen, invece, lavorava in maniera opposta. Come sapete, doveva interpretare una signora che nasconde la sua infelicità causata dalla consapevolezza di avere una malattia terminale, e tuttavia la sua maniera di avvicinarsi al personaggio era leggerissima. Parlavamo del suo torcicollo, di cucina pugliese, di come fanno bene il pane e prosciutto in Italia, poi si cominciava a girare e lei faceva cose commoventissime. Quindi davamo lo stop, e lei mi diceva cose tipo: "Ah, ti devo far assaggiare il succo di melograno che facciamo noi". Non so se questo sia il metodo british di un'attrice che viene dal teatro o semplicemente il metodo Mirren.

H.M. - Ci sono anche degli attori britannici, come Gary Oldman, che lavorano un po’ più come Donald Sutherland: devono immergersi nel personaggio e non devono uscirne. Il loro metodo è legittimo, ma io lo trovo faticosissimo, io tra una scena e l'altra voglio condurre una vita normale, restare l'essere umano che sono. Non credo che la mia maniera faccia perdere qualità alla performance. Kate Winslet è esattamente come me, poi è chiaro che, quando comincia la scena, devi essere concentrata e pensare solo al lavoro, ma fra un ciak e l'altro mi distrarrebbe continuare con l’immedesimazione, perché tu sei il tuo personaggio e devi recitare per la macchina da presa, non per il camper del trucco.

La serie tv Prime Suspect

H.M. - E’ stata la prima volta in cui una donna è stata protagonista di una serie tv poliziesca, prima di allora c'erano state solo un paio di serie americane. Prime Suspect è stata rivoluzionaria per l'epoca, l'ho fatta per diversi anni e nel frattempo ho recitato in altre cose. E’ stata una meravigliosa opportunità perché mi ha permesso di imparare qualcosa sulla recitazione al cinema, ed è stata quindi vantaggiosa per la mia carriera, anzi posso affermare con tranquillità che è stata la più grande lezione professionale che ho avuto. All'inizio il set cinematografico mi intimidiva, non avevo idea di chi fossero tutte quelle persone, poi ho imparato che è importante l'operatore che spinge il dolly, che quando lo guardi ti può aiutare nel tuo lavoro. Ho capito inoltre quanto sia fondamentale l'assistente operatore, a cui dico spesso: "Io posso anche essere bravissima, ma se tu sbagli il fuoco, la scena è rovinata". La bellezza del cinema, comunque, è che si tratta di un lavoro collettivo. Anche chi prepara il cibo è fondamentale. Il cinema è un esercito di collaboratori, Sembra di stare in un circo itinerante, e io sono contenta di aver fatto parte del circo di Paolo Virzì insieme a Donald.

Le donne e il cinema

P.V. -  Il cinema italiano è poco inclusivo, è molto maschile, l'unica sceneggiatrice di una volta era Suso Cecchi d'Amico, e c'erano due registe, Liliana Cavani e Lina Wertmüller​, che andavano sul set con i pantaloni. Le cose stanno un po’ cambiando. Da Francesca Archibugi in poi le registe hanno cominciato a presentarsi al lavoro in gonna, e per fortuna si stanno moltiplicando le registe di grande valore, le direttrici della fotografia. Tutto questo mi fa pensare che un movimento si sia messo in marcia, e mi fa ben sperare. Ciò che succede in USA mi stupisce perché a volte oltrepassa la linea della ragionevolezza, in particolare per i temi della morale e della sessualità.

H.M. - E’ straordinario essere testimone di questa rivoluzione. Per la gran parte della mia carriera, sono arrivata sul set e il 99% delle persone che vedevo erano uomini. La cosa interessante era che i maschii non sembravano rendersene conto, per loro era la normalità, c’erano al massimo 2 o 3 donne. Lo dicevo agli uomini e loro sembravano non capire. Il problema è che ti abitui a questa cosa, cominci a gestirla, ma non è stato facile né piacevole. Dicevo ad alcuni uomini: "Immagina se ogni giorno della tua vita tu arrivassi sul tuo luogo di lavoro e fossi uno dei pochissimi uomini. Come ti sentiresti?". Qualcuno per fortuna ha cominciato a rifletterci sopra e io stessa sono stata testimone del cambiamento. 10 anni fa ho lavorato con il primo direttore della fotografia donna. E’ una trasformazione molto recente e tutti stanno imparando le nuove regole del gioco. E’ fondamentale stabilire nuove regole. Però non si può fare nulla senza opportunità, è importante che vengano date opportunità, perché senza di esse non c'è lo spazio per agire, ed è questo che dovremmo fare: ampliare il mondo delle opportunità. Vale per qualsiasi cosa: per questioni di razza, di genere. Gli ultimi 5 anni sono stati in questo senso elettrizzanti. Pensavo che ormai i giochi fossero fatti e le porte si fossero chiuse, e invece la vita è così: trova sempre dei nuovi modi per sorprenderti. Certo, queste nuove regole vanno rinegoziate, e non è facile.

Il consiglio di Helen Mirren agli uomini

Non date nulla per scontato.



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