giovedì 23 settembre 2021

Drive My Car, il silenzio che smuove l’anima: incontro con Ryusuke Hamaguchi

“Per comprendere se stessi bisogna prima comprendere gli altri.”
Una frase con cui Ryusuke Hamaguchi sintetizza il cuore pulsante di Drive My Car. Un film con pochi dialoghi capace di appassionare senza un attimo di tregua, regalando una parola struggente sulla comunicazione, intesa nel senso più ampio e pieno di umanità possibile. Premiato alla sceneggiatura allo scorso Festival di Cannes, conferma il talento sempre più consolidato dell’autore de Il gioco del destino e della fantasia, Orso d’argento alla Berlinale a inizio anno. 

Drive My Car è uscito al cinema, distribuito da Tucker Film. Ne abbiamo parlato con Ryusuke Hamaguchi in un’intervista via zoom dalla sua Tokyo, con l’ausilio di un (ottimo) interprete dal giapponese. Un autore innamorato del cinema dopo aver visto ventuno anni fa Mariti di John Cassavetes, che ama i libri di Murakami, tanto da avventurarsi nell’adattamento di un suo racconto. Un Murakami che ha visto il film, almeno secondo notizie giunte indirettamente a Hamaguchi. Sembra che l’abbia visto in un cinema vicino casa, e l’abbia amato “perché guardandolo non riusciva a distinguere le parti relative al suo racconto e quelle create da me.”

 “Lo amo molto. Sembra strano che lo dica io, ma i suoi romanzi sono molto difficili da adattare, perché la loro bellezza risiede nella descrizione della realtà interiore dei personaggi, attraverso un’indagine che fa nella sua propria. Qualcosa di molto personale e privato che rende in maniera universale, per questo penso sia amato dai lettori in tutto il mondo. Un elemento particolarmente difficile da valorizzare in un film. Drive My Car è uno dei pochi adattamenti fattibili, con la sua ambientazione realistica e la presenza di movimento. Le interazioni tra Kafuku e Misaki, i due personaggi principali, avvengono all’interno di un’auto. E questo ha innescato i miei ricordi. Certe conversazioni, conversazioni intime, possono nascere solo all’interno di quello spazio chiuso e in movimento. Un luogo, in realtà un non-luogo, che ci aiuta a scoprire aspetti di noi stessi mai mostrati a nessuno. O pensieri che, prima, non sapevamo esprimere con le parole”.

Kafuku è un attore e regista teatrale che non riesce a superare la perdita della moglie Oto, e accetta di dirigere Zio Vanja per un festival di Hiroshima. Lì conosce Misaki, una giovane donna silenziosa incaricata di fargli da autista e di guidare la sua macchina. Dopo iniziali timidezze e riluttanze, Kafuku e Misaki si aprono a confidenze insospettate.

Fra le personalizzazioni di Hamaguchi alla storia c’è proprio la preparazione da parte di una compagnia di attori provenienti da differenti parti dell’Asia della pièce di Checov. “Il tema di Zio Vanja è fondamentale nella narrazione. Ho riflettuto sul testo e mi ha colpito il modo in cui il protagonista aveva corrispondenza profonda con Kafuku. Terminata una vita precedente con la morte della moglie, senza che abbia avuto la possibilità di farle la domanda più importante, ne ha intrapresa una successiva. Questo porta a un’identificazione fra i due molto forte. La pièce ha un ruolo importante: quello che in Murakami è raccontato in prima persona lo faccio raccontare dalle battute di Zio Vanja. Attraverso l’opera i personaggi riescono a dire quelle verità che nella vita normale non direbbero così liberamente.”

La comunicazione fra i personaggi ha un ruolo chiave in Drive My Car. Qual è il ruolo del silenzio e dell’arte, nella funzione sia catartica che comunicativa, che permette ai personaggi di dialogare?

Non avevo fatto molto caso al ruolo del silenzio, realizzando il film. Ma ce ne sono di due tipi: uno è legato al linguaggio dei sordi con cui si esprime una delle attrici, che non è un’assenza, ma un metodo di comunicazione. Un altro è quello fra Kafuku e Misaki, la sua autista. Le loro conversazioni si fanno sempre più rade, mano a mano che si conoscono meglio. Specialmente nel lungo viaggio che fanno verso l’Hokkaido, il grande nord. Ma è un silenzio ricco di comunicazione, che indica quanto è diventato profondo il rapporto fra i due. Per me il silenzio è semplicemente un’altra forma di comunicazione. Quanto alla funzione dell’arte, non ho riflettuto molto approfonditamente. Per me l’arte non è una funzione, con responsabilità sociale, ma nasce perché deve esserci, nasce da un bisogno di esprimersi dell’artista. Dalla volontà che quello che fa vengo visto, ascoltato. La sua esistenza stessa è necessaria e inevitabile. Se poi qualcuno ne trae giovamento va bene, visto che è in grado di smuovere l’anima dello spettatore, ma non è il nutrimento principale. L’arte esiste perché è.

Nella sua nuova vita Kafuku dirige un giovane attore molto popolare, Koji, che sospetta essere stato amante della moglie.

Questo rapporto esiste nel racconto. Il protagonista vuole conoscere il segreto dell’amante di sua moglie. Nel film ho solo invertito la persona che si avvicina all’altro: non più Koji come nel libro, ma Kafuku. Era la soluzione migliore nell’economia del film e ha fatto nascere una differenza. Nel racconto Kafuku vive un conflitto fra il desiderio di vendetta e l’amicizia che nasce, essendo lui che va a cercare l’altro. Nel film i suoi sentimenti sono più ambigui, e la cosa mi piace perché non capisci in pieno le motivazioni che sono alla base delle sue azioni. Vendetta o sincera ammirazione per il talento del giovane attore?

Come ha costruito la messa in scena visiva del film?

Il film si basa, oltre a Drive My Car, anche su altri racconti di Murakami, oltre a Checov. Ma il film è fatto di movimento, non di parole, attraverso il quale un regista deve far capire allo spettatore quali sono le relazioni che si instaurano fra i personaggi, i sentimenti che li muovono. Facendo il film ero in difficoltà nel creare movimento all’interno di un’automobile o in scene in cui i personaggi leggono un copione senza dare intonazioni. Proprio quest’assenza ha permesso di far emergere il movimento che nasce all’interno del corpo dei personaggi. La manifestazione del quale sono le parole, la voce. È difficile afferrarlo con la macchina da presa, ma viene trasmesso. In questo modo riuscivo a focalizzare l’attenzione sulla voce, su ciò che succede all’interno dei personaggi, che vengono smossi nell’anima.



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