L'Aston Martin DB5 simbolo della saga bondiana, anche raffigurata nel portachiavi regalato ai presenti all'anteprima stampa di No Time to Die, percorre le tortuose strade che condurranno James e Madeleine a Matera.
"Vai più veloce", dice lei, mollemente adagiata sul sedile del passeggero.
"Non c'è bisogno di andare veloci," risponde lui, innamoratissimo, "abbiamo tutto il tempo del mondo." We have all the time in the world: e subito ti chiedi quando, più che se, in quest'ultimo Bond dell'era Daniel Craig risuoneranno le note della canzone omonima e la voce di Louis Armstrong.
Tu lo sai benissimo che non è vero, e che qualcosa arriverà immancabile a interrompere l'idillio della coppia, e non sarò certo io a rivelare che cosa e quando, né quello che accade dopo né a quale epocale conclusione verranno condotte le vicende, nel corso di due ore e quarantatré minuti di film, non tutti necessari e non tutti giustificati.
Fatto sta che il tempo è un concetto centrale in questo No Time to Die, evidenziato anche nella (bruttina) sequenza dei titoli di testa che è accompagnata dalla (buona) canzone di Billie Eilish.
Il tempo che scorre implacabile: perché ogni Bond movie che si rispetti è anche un corsa contro il tempo per fermare questo o quel piano criminale, ma anche perché il tempo di Craig si è esaurito, e perché il mondo non è più quello dello 007 di Connery (non è nemmeno più quello del Bond di Brosnan, figuriamoci), e far incastrare l'icona Bond in questi tempi qui, tempi oramai purtroppo quasi impraticabili per uno old fashioned come lui, è una cosa complicata. Molto complicata.
Tempo che scorre, poi, significa anche fare i conti con la finitezza della cose, e della vita, e quindi con la morte: quella morte che viene evocata nel titolo (nel tentativo di esorcizzarla, forse); nella trama (verrà la morte e avrà i tuoi occhi, scriveva qualcuno); nella scelta della frase che rievoca il brano di Armstrong composto per Al servizio segreto di Sua Maestà, il film dove 007 si sposa e che finisce però con la morte della moglie, il primo e unico interpretato da Lazenby.
Tutto No Time to Die, film che segna una fine, la fine di un'era, è permeato dalla morte.
Da questo punto di vista, No Time to Die è attentissimo, fin troppo, a chiudere tutti i cerchi, un po' come era già stato fatto in Skyfall: non a caso si parte con James a Matera, spinto da Madeleine a visitare la tomba di Vesper, finita lì chissà per quale motivo, facendo salire la nostalgia per Eva Green, ma anche riportando simbolicamente Craig all'inizio della sua avventura bondiana, per spingerlo verso la sua conclusione.
Cary Fukunaga (un discreto mestierante ma non un fulmine di guerra, che utilizza i controluce per sopperire alla mancanza di idee) e i suoi (che poi sarebbero Neil Purvis e Robert Wade, sceneggiatori, supportati poi da Phoebe Waller-Bridge, forse non incisiva fino in fondo come si sarebbe sperato) stanno bene attenti a spuntare tutto ciò che è sulla checklist di ogni film di 007: l'Aston Martin, lo smoking, il Martini, i gadget, il supervillain, M, Q e Moneypenny (il fumo non è più in lista da tempo, e spiace segnalare che anche il sesso latita, relegato a parentesi iniziale e fuoricampo: poco eros, molto thanatos). Ci sono poi le scene d'azione che ti aspetti da un Bond-movie nato nel post-Bourne, e che sono nel complesso apprezzabili: meglio quelle iniziali di quelle finali.
E però non mancano le sorprese, che anzi abbondano, e sono soprattutto relative a un tono che lascia spiazzati e sconcertati, in maniera anche piacevole, sebbene decisamente irrituale: perché No Time to Die è il film di Bond più drammatico e cupo, certamente, ma è anche quello più fuori di testa negli snodi assurdi del racconto e capace di una leggerezza che non è solo la solita ironia ma è spesso camp se non volutamente sciocca, se mi si passa il termine. Da questo punto di vista è esemplare la sequenza cubana del film, e in particolare il personaggio di Paloma, interpretata da una sprecatissima Ana de Armas.
Italia, Giamaica, Cuba, Inghilterra, Norvegia. Come sempre (altra casella spuntata) Bond fa il giro del mondo.
Fino a una sperduta isoletta tra Russia e Giappone dove regna un moderno Dr. No, l'über-villain poco carismatico di Rami Malek, il cui piano è vago e confuso, nel contesto di una trama dove i passaggi logici non vengono tenuti molto da conto, ma dove al centro di tutto, in maniera costante, coerente e volutamente ossessiva, sta il ruolo di Bond nel mondo moderno (le chiacchierate con M sui tempi che sono cambiati), e il ragionamento su quel che ha lasciato, e lascerà dopo il suo addio, il Bond di Craig. Al mondo, e alla serie.
È una questione di sguardo, di vedere le cose in modo diverso, con occhi nuovi: e non a caso gli occhi, nel film, contano tantissimo, per i cattivi come per i buoni. Pavese prima non era citato a caso.
Quel che è certo, è che dopo questo No Time to Die, dopo questo finale imprevisto, sconvolgente, perfino commovente, che ha fatto e farà la storia di questa saga, nessuno guarderà più a James Bond con gli stessi occhi. Un Bond, quest'ultimo di Daniel Craig, sofferente e furioso, dolente e battutaro, capace di alternare - anzi: tenere assieme - armi letali e teneri pupazzi, soliti martini e insospettabili languori.
A chi verrà dopo, donna o meno, c'è da fare gli auguri, perché l'eredità che si caricherà sulle spalle sarà pesante, il nome (o cognome) ingombrante. Craig e compagnia lo sanno, e sembra quasi di vedere un sorriso sarcastico sulle loro labbra: "Avete voluto cambiare? Ribaltare Bond? Ora sono affari vostri".
Mi rendo conto che queste righe (scritte da me con carattere grigio chiaro su fondo nero, perché così mi pareva appropriato) possano lasciare interdetti e risultare un po' enigmatiche. Ma non sono io che ho elevato la rivelazione di dettagli di trama a peccato mortale, e non ho deciso io l'hashtag che, prima del film, campeggiava sullo schermo: #NOTIMEFORSPOILERS.
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