mercoledì 29 settembre 2021

A Chiara e il suo universo calabrese: intervista a Jonas Carpignano

L’universo di Gioia Tauro e dintorni è il mondo in cui vive e racconta le sue storie, da ben dieci anni, Jonas Carpignano. A Chiara, presentato alla Quinzaine di Cannes, conclude una trilogia aperta nel 2015 da Mediterranea e proseguita due anni dopo con A Ciambra. Dopo i migranti e i rom, questa volta racconta la criminalità organizzata, all'interno della vita quotidiana di Gioia Tauro. Al centro c’è la famiglia Guerrasio, riunita per celebrare i 18 anni della figlia maggiore di Claudio e Carmela.

È un'occasione felice e la famiglia sembra molto unita, nonostante una sana rivalità tra la festeggiata e sua sorella Chiara di 15 anni sulla pista da ballo. Il giorno seguente, quando il padre parte improvvisamente, Chiara inizia a indagare sui motivi che hanno spinto Claudio a lasciare Gioia Tauro. Più si avvicinerà alla verità, più sarà costretta a riflettere su che tipo di futuro vuole per sé stessa.

Con A Chiara racconta una storia più tradizionale, rispetto agli altri due suoi film.

Per me il punto di partenza è sempre il personaggio. Voglio che il mondo raccontato rispecchi come loro vivono veramente. Il caos di A Ciambra rappresenta Pio e quella realtà. Il mondo della criminalità è molto più strutturato, per questo il racconto si adegua. In questo modo il film e i personaggi sembrano nati nella realtà che racconto.

Il lavoro con gli attori, anche, è diverso. Non interpretano loro stessi, pur muovendosi nel loro ambiente. 

Ci sono due modi per rispondere a questa domande. Per quanto riguarda la conoscenza della sceneggiatura, era molto simile agli altri film. Pio in A Ciambra non conosceva il testo perché è analfabeta, quindi gli spiegavo le scene giorno per giorno. Swamy Rotolo non sapeva tutto quello che succedeva, perché volevo vivesse la storia del film come Chiara, per mantenere la sorpresa. Abbiamo girato in ordine cronologico, lei sapeva solo la mattina quello che sarebbe successo il giorno stesso. Per me era molto importante lavorare in questo modo. Per quanto riguarda le dinamiche fra di loro, sono molto simili ai miei altri film. Riusciamo a creare intimità sul set perché loro si conoscono. Non c’è un rapporto tradizione fra regista e attore, ma ci conosciamo molto bene. Cerchiamo di superare la struttura cinematografica tradizionale, i ritmi abituali sul set. Siamo amici che si ritrovano per fare delle cose insieme. Da questo punto di vista è simile a quello accaduto in passato.

Lei ha vissuto dieci anni a Gioia Tauro, per raccontare quella realtà nei suoi primi film. È l’inizio ora, con A Chiara, di un distacco, per cercare un altro modo di raccontare?

Ovviamente non posso vivere in un posto per dieci anni ogni volta, prima di fare un film. Altrimenti lavorerei troppo poco. Devo dire, però, che in questi anni sono riuscito a trovare la mia bussola. So come mi voglio orientare in questo mondo del cinema. Non so ancora dove voglio andare, ma penso di poterci arrivare. Magari andrò a girare in Sicilia, o sempre in Calabria o da un’altra parte, ma so che questo modo di lavorare mi piace e più riesco a portare questo metodo nella prossima realtà più contento sarò.

Nel film c’è un grande lavoro sui luoghi, sul territorio.

È nato in scrittura. Volevo rafforzare il mondo interiore di Chiara con quesi luoghi. È vero che si racconta un mondo un po’ nascosto, ma anche quegli aspetti della famiglia sono a lei sconosciuti. Il punto di partenza era il mondo della criminalità, ma anche il suo interiore e i segreti nella sua casa.

Cosa è cambiato in questi anni in quella terra. Come la vede ora rispetto all’inizio?

Il posto sicuramente è cambiato, ma anche io. I primi anni la vedevo più come un laboratorio, mentre nel frattempo è diventata casa per me. Il rapporto con il paese è totalmente diverso ora. Non so se rispecchia quello che è successo nel mondo esterno o più come io vedo quei luoghi. La Calabria, e Gioia Tauro nello specifico, appartiene sempre di più al mondo globalizzato. Non è più un posto arcaico, con le sue regole, tagliato fuori dalle infrastrutture e dalla cultura globale. Soprattutto i ragazzi, vivono il mondo di oggi con tutte le sue contraddizioni.

Lei racconta uno stato che interviene nella quotidianità di famiglie che vivono nella criminalità, talvolta non conoscendole fino in fondo e mancando di empatia umana.

Capisco la logica della legge. È difficile costruire una norma che possa funzionare per ogni situazione e persona diversa. Il film cerca soprattutto di dare spazio al punto di vista che vorrebbe valutare per bene ogni caso, prima di fare un’azione importante come cambiare la vita di una persona. Dire semplicemente che appartiene a un’ambiente criminale, senza guardare nel dettaglio la realtà in cui vive, è il limite di una legge del genere.

Dimostra poi una grande speranza nei confronti dei giovani. Nei suoi film sono sempre quelli con maggiore apertura al cambiamento. Chiara viene tolta alla sua famiglia e adottata in un paese lontano dalla Calabria. Secondo lei dove finirà, una volta diventata adulta?

I ragazzi che ho conosciuto, che sono stati coinvolti in una situazione del genere, rimangono molto legati alla “nuova” famiglia in cui sono cresciuti, ma spesso tornano a Gioia Tauro a trovare i parenti. Riescono a vivere fra questi due mondi con una bussola morale che sono riusciti a sviluppare vivendo proprio questa esperienza. La vedo come una persona capace di decidere come e quanto vuole vivere fra questi due mondi.

Molte persone emigrate dal sud durante la pandemia sono tornate. Pensa che sarà un fenomeno capace di dare nuova vitalità a quelle zone?

Me lo auguro. Da parte dei giovani c’è sempre la voglia di vedere cosa c’è al di fuori di Gioia Tauro. È importante. Anche io mi sono formato fuori e poi sono rientrato. Non posso negare l’importanza di fare un viaggio, lasciando la propria terra per un po’ di tempo. Però anche tornare ha un valore notevole. Nella mia esperienza, non ho mai pensato di non vivere in Italia da grande. Per me era cruciale formarmi negli Stati Uniti, perché i miei hanno fatto il possibile per permettermelo. Dovevo sfruttare quell’opportunità, mantenendo chiara l’importanza di rientrare. Spero sia così anche per loro. Avere un’esperienza fuori non vuol dire abbandonare la propria terra.



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