venerdì 3 dicembre 2021

Azor, la recensione: un algido e allucinato incubo tra Borges e Conrad

Yvan (Fabrizio Rongione) è un banchiere privato svizzero. Con la moglie Inés (Stéphanie Cléau), arriva nella Buenos Aires del 1980. Per lui è la prima volta in Argentina: è arrivato perché il suo socio René Keys, normalmente incaricato dei rapporti con i clienti argentini, è improvvisamente svanito nel nulla. Scappato, dicono.
Così Yvan è costretto a quello che in gergo chiamano "il giro del cammello": incontrare e parlamentare con i clienti: nuovi ricchi, aristocratici decaduti, proprietari terrieri, perfino membri del clero.
E per tenere il passo con una classe sociale decadente, cinica e spietata, per cercare di portare a casa sua, in Svizzera, le loro ricchezze più o meno oscure, Yvan finirà col correre il rischio più grande: smarrire sé stesso.

Quello raccontato da Andreas Fontana in Azor è chiaramente un viaggio all'inferno. E non è solo perché la tappa finale e definitiva del percorso di Yvan viene effettuata risalendo un corso del fiume che sono giustificati i paralleli fatti da più parti (dalla prestigiosa rivista britannica Sight and Sound, che ha scritto che Azor è come "se Graham Greene avesse riscritto Apocalypse Now", in giù) con "Cuore di tenebra" di Joseph Conrad.
Dopo un breve prologo che può risultare enigmatico, ma di cui successivamente si capirà la natura, nella prima scena del film vediamo Yvan e Inés, in auto, che assistono al fermo di alcuni giovani da parte dei militari: è il loro primo contatto diretto con l'Argentina della dittatura, e con un mondo che sarà sempre evocato dai loro interlocutori per mezzo di parole enigmatiche, attraversate da una costante più o meno esplicita. Le sparizioni. Di Keys. Della figlia di un proprietario terriero. Di alcuni cavalli.
Il composto sgomento di Yvan e Inés, mediato dal distacco della loro classe sociale e dalla ontologica neutralità svizzera, lascerà gradualmente, quasi impercettibilmente il posto a consapevolezze diverse. Incontro dopo incontro, Yvan, spronato shakesperianamente dalla moglie, capirà, quasi a livello inconscio, che molto di quel che di Keys disprezzava - una scarsa eleganza, la spregiudicatezza, l'esuberanza, un'inclinazione eccessiva al sotterfugio - è ciò che dovrà adottare per sopravvivere, e portare a termine il suo lavoro

C'è Conrad, in Azor (che, nel gergo dei banchieri svizzeri, vuol dire "tenere la bocca chiusa"), ma c'è appunto anche Greene, e c'è Le Carré: personaggi ambigui, messaggi oscuri, liste enigmatiche, pericoli latenti.
E c'è, forse più di tutti, un evocato Borges, con i suoi mondi onirici e metafisici, con le sue geometrie incantate, le sue realtà immaginate.
Azor, nella sua forma così nitida e algida, nel parlottare enigmatico e allusivo dei potenti, nell'astrazione da ogni dettaglio della realtà e nella concentrazione totale nel mondo ipotetico di chi vive al di sopra degli eventi, è un film che sembra voler confondere lo spettatore tanto più è preciso e perfettamente controllato nel suo racconto. La tensione che si viene a creare in questo modo è perturbante e via via più opprimente, ed è quasi con sorpresa e con un senso di fastidioso sollievo che si assiste a una risoluzione degli eventi che stava lì, davanti ai nostri occhi, fin dal primo minuto.
Fontana - che nella strutturazione del percorso di Yvan si è fatto assistere, in sceneggiatura, dal geniale Mariano Llinás di Historias extraordinarias e La flor -  mostra un cosa e parla di un'altra. O meglio, parla dell'orrore della dittatura argentina mostrando coloro che l'hanno silenziosamente approvata, e del ruolo della finanza europea codarda, complice, ignava e opportunista.
Lo fa senza proclami né banali esplicitazioni: solo con l'uso di un cinema di grande immaginazione e affabulazione, che elabora il thriller secondo coordinate anomale e rimane sempre affilato come una lama di coltello.



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