giovedì 2 novembre 2017

Maria by Callas: in her own words

Se siete fra coloro che pensano di conoscere e aver già visto tutto di, con e su Maria Callas, beh, vi sbagliate. E correte immediatamente a vedere, quando uscirà sul grande schermo, o lo trasmetterà questo o quel canale satellitare, questo prodigioso documentario costato al regista Tom Volf tre anni di lavoro e di ricerche per rintracciare materiali inediti (là dove ‘inediti' sta per realmente ‘mai visti') sulla vita artistica, pubblica e privata di uno dei più grandi geni del XX secolo: Maria by Callas: in her own words. Sì, perché Maria Callas non è stata soltanto una cantante lirica, forse da qualcun'altra superata in precisione tecnica e varietà di repertorio alla prova dell'ascolto: ‘la' Callas è stato qualcosa di indescrivibilmente unico come fenomeno culturale e sociale, la cui presenza fisica sul palcoscenico di un teatro d'opera non ebbe prima, né mai ha più avuto o potrà avere in futuro, eguale impatto ed importanza. Al termine della visione, consapevoli di essersi avvicinati come non mai al cuore, all'intima natura di una donna e di un'artista di statura unica ed irraggiungibile, si comprende come la precarietà e la prosaicità della nostra epoca senza ideali e riferimenti condivisi siano causate non dalla morte di Dio, ma dalla scomparsa di creature ‘divine' come la Callas, e ci invade, come un panico scomodo e sgradito, la sensazione che ormai non potremo più essere ‘contemporanei' di simili espressioni e manifestazioni del Genio, fenomeno sostituito da un più omologato ‘professionismo', corretto, pulito, funzionale, ma privo di quella forza rivoluzionaria (ecco perché non saremmo nemmeno più in grado di fare una rivoluzione come si deve) che risuonava nella voce di Maria Callas, guizzava nei muscoli delle gambe di Rudolf Nureyev, o vibrava nella bacchetta di Herbert von Karajan. Senza il corredo di alcun pleonastico commento della solita voce fuori campo, il racconto completo, integrale, mai prima d'ora così vicino a tutta la verità su di lei, della vita di Maria, come dice il titolo stesso del film, ci arriva direttamente ‘by Callas', ovvero dalla sua viva voce, nelle interviste televisive (la più lunga, che funge un po' da filo conduttore, insieme a David Frost per le tv americana), radiofoniche, o catturate dai microfoni dei giornalisti che accorrevano per intervistarla agli arrivi o alle partenze negli aeroporti di tutto il mondo, perché il mondo, quello in cui l'Opera era ancora un pane quotidiano dell'intera società suddivisa in quelle classi sociali distribuite nei differenti ordini di un classico teatro lirico ‘all'italiana', dalla platea alla piccionaia, aveva fame di sapere, e conoscere, come di ogni eroina donizettiana, belliniana o verdiana, i dettagli più privati e segreti della vita di un personaggio così colossale; oppure attraverso ‘her own words', cioè il suo epistolario, lettere intime, intimissime, ad amiche fedeli, al suo primo marito Battista Meneghini, o all'amato-odiato ‘Aristo' Onassis (cosa non è di straziante quella lettera d'amore, letta, come tutte le altre lettere raccolte nel film, da una splendida Fanny Ardant). E' insomma la stessa Callas, che parli o che canti, a dare ‘il tono' all'intero film, che forte di immagini di una bellezza struggente e antica come possono essere i super8 degli anni '50 e '60 (disgraziate, infatti, quelle generazioni che conservano i ricordi della propria infanzia nella confusa e granulare approssimazione dei vhs…), filmini privati che colgono la Diva in vacanza sullo yacht di Onassis, o nell'ultima vacanza in Florida pochi mesi prima della sua morte, ma pure girati da amatori e fans che rubavano qualche attimo della sua immensa arte dai palchi o da dietro le quinte dei teatri d'opera, costituisce un prezioso compendio di immagini che brillano e rilucono, tutte nuove di zecca. Perciò il gusto dell'inedito affiora per tutto il film, al cospetto di Visconti, Pasolini, Marilyn Monroe, Grace Kelly e Ranieri di Monaco, Liz Taylor, Yves Saint-Laurent e Pierre Bergé, John Fitzgerald Kennedy, Tullio Serafin, Antonino Votto, Carlo Maria Giulini, ma tutti nelle versioni inedite di repertori d'archivio finora, se non sconosciuti, non poi così noti. C'è una folgorante sequenza girata in un circo equestre dove insieme a Maria siedono sugli spalti, interagendo con gli artisti sotto il tendone, Omar Sharif e Vittorio de Sica!... Potrebbe far discutere la scelta di ricolorare materiali originariamente in bianco e nero, ma il lavoro digitale è così scrupolosamente perfetto che non si può non rimanerne stupefatti. La motivazione di un'operazione linguisticamente così delicata, almeno a leggere il comunicato stampa, sta in un aggiornamento ritenuto necessario per avvicinare a Maria Callas anche il pubblico dei giovanissimi, per i quali il bianco e nero avrà forse – che possiamo saperne? – un sentore di dipinto ad olio, cioè cose se non dell'altro mondo, di un altro tempo inutile da rivisitare – non sia mai! – o recuperare per rifondare una prospettiva verso il futuro partendo da lì. Essenziale, e tra i picchi del film, è sotto questo profilo un giro di interviste fuori dal Metropolitan di New York dove per tutta la notte, e al freddo, centinaia di persone fecero la fila per acquistare i biglietti per la serata del ritorno di Maria nel teatro da dove qualche anno prima il grande impresario Rudolf Bing l'aveva, per così dire, ostracizzata: tre ragazzetti infreddoliti, avvolti in coperte di lana, e non necessariamente tutti ‘gay', in poche battute definiscono il valore e la qualità dell'arte di Maria Callas meglio di qualsiasi critico musicale paludato. Altri tempi, altre epoche, scomparse per sempre. Eppure il cinema, quando ha QUESTA qualità, e si ritrae di fronte al Genio, semplicemente mostrandolo secondo un ordine drammaturgico scandito e dosato con l'intelligenza del grande narratore, ha il potere magico di restituirlo, almeno per il tempo della visione.

(Maria by Callas: in her own words); Regia: Tom Volf; interpreti: Fanny Ardant (voce); produzione: Petit Dragon, Elephant Dog & Volf Productions; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia, 2017; durata: 113'



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