mercoledì 29 novembre 2017

L’America della frontiera protagonista al Torino Film Festival 2017


Sarebbe un peccato se le sventurate vicende del criminale Harvey Weinstein trascinassero con sé uno dei migliori film dell’anno, Wind River, in sala a marzo per Eagle Pictures. Prima regia per Taylor Sheridan, sceneggiature di due ottimi recenti film sull’America: Sicario e Hell and High Water, e che con questo teso thriller - miglior regia del Certain Regard a Cannes - chiude una trilogia di grande livello sulla frontiera americana. Dopo il confine col Messico e il Texas profondo, questa volta siamo in una riserva indiana molto ampia (grande quanto il Rhode Island), nel cuore dell’inverno gelido delle montagne del Wyoming; lo stato di Brokeback Mountain, per intenderci. 

Jeremy Renner è un cacciatore (solitario) di animali feroci per le autorità locali che durante un’escursione di routine trova nella neve il cadavere della figlia di un suo caro amico. Un dramma del suo passato lo porta ad accettare di collaborare con la giovane agente FBI incaricata del caso, Elizabeth Olsen, iniziando una caccia all’assassino che in parallelo sarà occasione per far luce sul suo passato. 

Wind River è un film scavato nei volti dei suoi interpreti, di poche parole e aspro come i ghiacci di un inverno molto sotto zero. Per di più siamo in una riserva indiana, con una sua giurisdizione a parte e la maledizione della criminalità e l’alcolismo che si stanno portando via i pochi giovani nativi che si ostinano a vivere così lontano da tutto, nei territori dei loro avi. “La fortuna puoi averla in città, quella di essere investita al semaforo oppure no, qui si tratta di sopravvivere o soccombere”: è questo il mondo darwiniano in cui si sviluppa una storia piuttosto tradizionale, ma scritta, diretta e interpretata con un equilibrio davvero mirabile, tanto quanto l’interpretazione di uno straordinario Jeremy Renner, che non ci stupirebbe vedere nominato ai prossimi Oscar, e di caratteristi azzeccati; anche la Olsen se la cava, in un ruolo che ricorda quello di Emily Blunt in Sicario.

Ma è tutto il film che meriterebbe considerazione, per il suo ritmo claustrofobico, nonostante l’ambientazione, per la creazione di una tensione che alterna momenti di sospensione con esplosioni di violenza che lasciano spiazzati. Presentato qui a Torino nella sezione Festa mobile, prenota una nomination come miglior film, visto l’allargamento della categoria deciso negli ultimi anni.

Sarà davvero interessante vedere il prossimo giugno (e chissà, prima a Cannes) il sequel di Sicario, Soldado, sempre scritto da Sheridan, e diretto dal nostro Stefano Sollima, con il ritorno di Benicio Del Toro e Josh Brolin. Il primo trailer, presentato in questi giorni alle Giornate professionali di Sorrento, sembra molto promettente.


Continuando a parlare di ottimi film, da segnalare in concorso il film di Armando Iannucci, intitolato da noi Morto Stalin, se ne fa un altro, in uscita l’11 gennaio per I Wonder. Si tratta di una scatenata satira sulla successione del dittatore sovietico, diretta da uno specialista del genere, vedi la serie televisiva Veep e Into the Loop. Siamo nella notte del 2 marzo 1953, un uomo sta morendo, uno più importante e potente degli altri abitanti dell’Unione Sovietica: Joseph Stalin, uno dei peggiori dittatori che il pianeta abbia mai ospitato. I suoi più stretti collaboratori da tempo giocano una specie di Cluedo per vincere la carta della successione, e ritardano di 48 ore l’annuncio pubblico della morte proprio per organizzare per bene le cose. Il film racconta proprio queste ore, con un ritmo forsennato come il susseguirsi di complotti e alleanze.

Su tutto aleggia uno struggente senso di idiozia che rende leggera quell’atmosfera pestilenziale e, ahinoi, anche molto attuale il film. Il cast è sontuoso, da Steve Buscemi a Michael Palin, membro di quei Monty Python chiara ispirazione di Iannucci, da Jeffrey Tambor (coinvolto recentemente in uno scandalo per molestie) a Jason Isaacs e la pianista dissidente Olga Kurylenko. Come frequente negli ultimi tempi, la storia è tratta da una graphic novel francese, La morte di Stalin, di Fabien Nury e Thierry Robin. Molto dell’humor, però, è tutto di casa Iannucci, e di un colore nero pece che ricostruisce le dinamiche, quasi tutte realmente accadute, di un duello folle e disumano in anni in cui l’utopia era arrivata alla sua massima arte dittatoriale.


Restando nel concorso, è stato presentato un documentario del montatore Jacopo Quadri, Lorello e Brunello, su due gemelli che vivono soli nel podere dove sono nati in una Maremma aspra di vento e sole. Contadini che rimangono a un’Italia di secoli fa, in cui non esistono orari di lavoro e giorni di pausa, in un ritorno in auge del latifondo che sembrava sconfitto da secoli e la difficoltà di andare avanti, visto quanto gli pagano latte e grano. Altri personaggi ruotano intorno ai Biondi, in una carrellata di giornate che si susseguono scandite dal ciclo della natura, nel corso delle quattro stagioni. Un film sulla terra e sull’uomo che da sempre ci vive e la lavora, che richiede molta disponibilità all’ascolto di suoni, rumori e situazioni diventate inconsuete. 

Infine nella sezione Festa mobile è stata presentato, dopo Toronto, un film in costume britannico, rigoroso nella messa in scena e formalmente impeccabile, con la particolarità di essere diretto dalla unica regista donna della storia dell’Arabia Saudita. Haifaa Al-Mansour si è fatta conoscere qualche anno fa per la neorealistica storia di Wadjda, e ha saputo leggere a suo modo un’altra vicenda al femminile, il percorso pieno di ostacoli di Mary Wollstonecraft Godwin per vedere riconosciuti i suoi diritti di autrice del celebre romanzo gotico Frankenstein, ma più in generale i diritti di scrittrice, in un’epoca come gli anni 10 e 20 dell’Ottocento che consideravano la donna incapace geneticamente di tanto estro. Elle Fanning si conferma interprete sempre più matura, nonostante la sua giovanissima età, nei panni di questa ragazza, cresciuta da una matrigna ostile e un padre libraio, alle prese con una relazione tempestosa con il già noto poeta romantico Percy Shelley.

Non possiamo essere altrettanto prodighi di complimenti nei confronti di Douglas Booth, appunto Shelley, ma soprattutto di un proto dandy e irritante Tom Sturridge nei panni di Lord Byron. Le loro figure vengono banalmente avvicinate a quelle di due figurine da narrativa emo e Young adult, più che a quelle dei poeti romantici britannici. Rimane un’interessante lavoro sulla maturazione di una consapevolezza identitaria, quello compiuto da una Mary capace di esorcizzare creativamente gli incubi di una vita difficile, seppur giovanissima. 



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