In un capannone industriale di vaste proporzioni prende corpo una sorta di esperimento sociologico che ha tutte le caratteristiche dell'happening a metà tra sperimentazione e teatro d'inchiesta.
Sul palcoscenico prendono posto alcuni lavoratori (nessun attore di professione, quindi) che non devono far altro che performare, davanti a un pubblico invisibile, i gesti quotidiani del proprio mestiere. Il macellaio taglia la carne, il muratore costruisce un muro, la centralista propone un sondaggio telefonico agli sfortunati il cui nome compare nell'elenco telefonico, il meccanico ripara una macchina. Tutti i lavori hanno una propria dignità, come ribadito anche nelle interviste alle cavie dell'esperimento spettacolare, purtuttavia non tarda a crearsi presto una sorta di graduatoria interna tra le occupazioni con franca disistima, ad esempio, per la donna delle pulizie che, obbligata a prestare la sua opera non solo sul vastissimo palcoscenico, ma anche nei bagni che vengono poi utilizzati anche dal pubblico, non si capisce bene se sia attrice anche lei o una dipendente del teatro.
Dipendenti, in fondo, lo sono tutti, in questa perversa spettacolarizzazione del lavoro con l'aggravio che il frutto della propria opera è ridotto alla mera funzione spettacolare. A fine giornata, infatti, i panini prodotti dal barista (quelli perlomeno non venduti al chiosco che comunque, pur essendo sul palco è aperto anche al pubblico) vengono buttati nella spezzatura e stessa sorte tocca alla carne tagliata dal macellaio, ai capi di abbigliamento cuciti dalla sarta e al muro del muratore che viene più volte buttato giù a suon di martellate per il visibilio rumoroso del pubblico.
Fuor di visione la metafora è chiara e limpida come acqua sorgiva: nel mondo capitalista il prodotto non conta per la sua capacità di servire, ma è merce transitoria, destinata alle discariche sin dal momento che la si toglie dall'imballaggio del supermercato. E, anche se il muratore lamenta spesso lo svilimento del proprio mestiere a discapito degli applausi del pubblico, la scarsa qualità del mattone di oggi unita alle mostruosità della speculazione edilizia sono tristi dimostrazioni di come troppo spesso si costruisce solo per demolire.
In linea di principio l'esperimento sociologico, portato avanti di fronte a un pubblico per lo più invisibile ma incredibilmente rumoroso, replica in piccolo le dinamiche del lavoro così come le vediamo accadere tutti i giorni sotto i nostri occhi senza rendercene conto. I lavoratori accolgono dapprima favorevolmente l'idea di lavorare a condizioni tutto sommato ragionevoli (otto ore di lavoro al giorno per ripetere continuamente sempre le stesse azioni senza variazioni di sorta), ma quando i datori di lavoro cominciano a pretendere un aumento di produttività allo stesso salario sentono montare dentro uno spirito di classe che chiede a gran voce di opporsi a uno sfruttamento che non si stenta a prevedere si farà più bieco e pesante.
Frattanto tra gli operai prendono corpo le consuete problematiche che derivano dalla condivisione di orari di lavoro e pause pranzo, con possibili aperture anche a possibilità di romances sentimentali che regia e sceneggiatura si rifiutano di sviluppare perché porterebbero oltre la dimensione di puro pamphlet imposta al film.
In breve La mano invisibile smaschera il bluff che è alla base di una regolamentazione del lavoro verticalicistica che procede dall'alto senza appoggiarsi a una reale coscienza di classe. Allo stesso tempo demistifica l'idea romantica del lavoratore sfruttato suo malgrado dimostrando come, laddove la classe operaia sia portata a credere seriamente nella mancanza di alternative, viga anche tra i più derelitti la norma dell'homo homini lupus.
Lo sguardo a trecentosessanta gradi della macchina da presa coglie infine anche le reazioni del pubblico a fronte dei timidi tentativi di protesta dei lavoratori dimostrando quanto sia distorta la nostra percezione del mondo del lavoro e come tra le pieghe di questa distorsione si annidino anche le derive violente dei black bloc.
Film impostato secondo un modello tanto simile (eppure tanto diverso) al Dogma di qualche anno fa (qualcuno ha scritto di un Dogville sul mondo del lavoro), La mano invisibile ragiona con precisione sull'ossatura di un preciso percorso metaforico e spesso allegorico ed è qui il suo merito più grande. Il problema è che il senso dell'operazione è per lo più confinato nelle sue stesse premesse e che il film tende spesso a sembrare la dimostrazione di un assioma piuttosto che un'opera di poesia.
Un difetto da poco se si considera l'urgenza di un totale ripensamento della realtà sociale che questo film auspica e che sembra, ahinoi, ancora troppo drammaticamente lontano.
(La Mano Invisible); Regia: David Macián; sceneggiatura: Daniel Cortázar, David Macián; fotografia: Fernando Fernàandez; montaggio: Daniel Cortazar; interpreti: Anahí Beholi, Josean Bengoetxea, Eduardo Ferrés, Elisabet Gelabert, Christen Joulin; produzione: David Macián; origine: Spagna, 2016; durata: 80'; webinfo: Sito ufficiale
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