sabato 23 marzo 2024

Pattini e acciaio: intervista a Pino Mazzella, campione mondiale di hockey che ha lasciato il segno e reso possibile il sogno

Non capita tutti i giorni di incontrare un campione di hockey su pista, soprattutto se ci si occupa di cinema e non di sport. Fortunatamente esistono i film di finzione e i documentari che parlano di calcio, di basket, di football americano e così via, ed è grazie a Pattini e acciaio che abbiamo scoperto qualcosa in più su Pino Marzella, alias il Maradona dell'hockey su pista partito da Giovinazzo e arrivato fino ai mondiali.

Diretto da Rossella De Venuto e arricchito da inserti di animazione, il film racconta la scalata al successo di un ragazzo biondo innamorato di una disciplina sportiva praticata in particolare nell'Italia settentrionale. Marzella, classe 1961, ha vinto tutto quello che poteva vincere. Per otto anni capocannoniere e Stecca d'Oro, ha rappresentato con orgoglio la sua regione (la Puglia) e la sua cittadina, e cioè Giovinazzo. La parabola di quest'uomo che ha sposato la ragazza più bella del paese si intreccia con la storia delle Acciaierie Ferriere Pugliesi, che hanno fatto di Giovinazzo uno dei comuni del Mezzogiorno d'Italia con il più alto indice di industrializzazione negli anni '60 e '70. A volere la squadra è stato l'ingegnere Michele Scianatico, che ha incaricato il campione di pattini a rotelle Gianni Massari di allenare un pugno di ragazzi talentuosi, che nel 1973 sono stati promossi in serie A.

Pattini e acciaio è stato presentato in anteprima al Bari International Film Festival 2024 e, insieme alla regista, è arrivato a Bari anche Pino Marzella, che abbiamo avuto il grande piacere di intervistare, chiedendogli prima di tutto un'opinione sul documentario e sull'esperienza di raccontarsi davanti alla macchina da presa. "Per me è stato un grande piacere partecipare a questo film" - ha risposto. "Quando Rossella De Venuto ha avuto l'idea, per me è stato come avere un'illuminazione. Riuscire a concentrarmi su questo documentario è stato davvero importante. Mi sentivo a mio agio, abbiamo parlato tanto e, quando ho visto Pattini e acciaio, l'ho trovato bellissimo, perché la regista è riuscita ad arrivare all'essenza della storia, che non sono le vittorie ma gli aneddoti e la costruzione di questo sogno, che parte dalla strada e da qualcosa che uno ha dentro".

E cos'era questo "qualcosa" che lei aveva dentro?

A 9 anni sono andato da mia mamma e le ho detto: "Mamma, mi devi cucire questo scudetto su questa maglia azzurra perché io diventerò il giocatore più forte del mondo e parteciperò ai Mondiali". Questa storia somiglia a quella di Diego Armando Maradona, di Michael Jordan o altri sportivi. Noi lo sentiamo prima che ci venga dato questo bacio del Signore, poi è chiaro che devi avere la forza, la perseveranza, la passione, la volontà di sfruttare il talento che hai. È la natura che ti ha fatto questo dono e tu quasi non credi a ciò che ti succede, però dentro di te hai sempre saputo che avresti avuto un destino glorioso.

Secondo lei cos'ha di speciale questa storia?

Ciò che la rende incredibile è l'ingegnere Michele Scianatico, che ha fondato questa acciaieria che è stata un esempio per tutto il mondo. Negli anni '60, lo stabilimento Acciaierie Ferriere Pugliesi forniva i binari a Cuba, all'Iraq, all'Iran, all'Egitto, ma soprattutto aveva un dopolavoro dove andavano i bambini e i vecchi. Io non potevo entrare perché mio papà non lavorava lì e quindi scavalcavo il muro esterno e pattinavo. Solitamente stavo lì fra le due e le quattro di pomeriggio. Avevo dei pattini che mi aveva regalato mio fratello e mi piaceva pattinare perché era il mio modo di volare. Così è iniziata la mia storia,  che a Giovinazzo si è conclusa con la vittoria dello scudetto e la finale di Coppa delle Coppe dove ho fatto 11 gol, che poi è il record di sempre. Dopodiché ho girato l'Italia e non solo, portando il nome di Giovinazzo prima al nord e poi a vincere i campionati del mondo con la nazionale italiana per ben due volte, di cui una in Spagna, e quindi nella casa dei maestri, il tutto con la fascia del capitano. Infine ecco la vera realizzazione del mio sogno: le olimpiadi di Barcellona, a cui abbiamo partecipato come sport dimostrativo.

Nel documentario lei dice che a un certo punto Giovinazzo le ha voltato le spalle e che la gente non diceva cose lusinghiere su di lei.

Per fortuna quelli che parlano sono sempre una minoranza, sono le persone negative, i maligni, gli invidiosi. Quando giravo per Giovinazzo con la mia Porsche, con una donna bellissima, che era mia moglie, incarnando il cliché della modella con lo sportivo, alcuni mi guardavano male. Riflettendoci, erano un numero piuttosto esiguo, dal momento che a Giovinazzo tutti mi volevano un gran bene. Il problema era che non riuscivo a digerire queste critiche e gli sguardi di disapprovazione che attiravo. Era come se mi dicessero che avevo fatto qualcosa di male, invece io avevo reso celebre Giovinazzo in tutto il mondo.

Lo scorso anno lei ha riportato la squadra di hockey su pista di Giovinazzo in serie A. Cosa l'ha spinta a diventare allenatore?

A un certo punto il mio obiettivo è diventato fare l'allenatore. Dopo aver realizzato il mio sogno, mi sembrava giusto aiutare altre persone a realizzare il loro. Ogni tanto ho qualche difficoltà con questa nuova generazione di ragazzi che non capiscono che hanno il loro Maradona che li allena, però non mi importa, e quindi continuo il mio percorso. Mi sembra giusto dare agli altri quello che è stato dato a me.

Come il suo allenatore Gianni Massari, anche lei fa correre i giocatori?

Sono un maniaco. Alla fine tutti i grandi allenatori sono dei maniaci, perché, per il tuo bene, ti portano all'esasperazione. Quando ero ragazzo, sul campo si prendevano schiaffi e anche stecche addosso, però io ringrazio il signore per tutto ciò che mi ha dato e per avermi donato una rabbia che già un po’ avevo dentro e che lui ha amplificato, proprio perché per arrivare dove sono arrivato io bisognava essere più forte di tutto e di tutti, e non c'era spazio per le cadute, o meglio c'era spazio solo per la caduta che doveva essere un rimbalzo e che consentiva di saltare ancora più in alto. Mi piace tanto fare l'allenatore, perché io non voglio lasciare solo il sogno ma voglio lasciare il segno, mostrando a tutti i ragazzi del sud che c'è un modo per essere i migliori arrivando al traguardo. 



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