venerdì 19 giugno 2020

Si muore solo da vivi: recensione della commedia con Alessandro Roia e Alessandra Mastronardi

I luoghi richiamano vagamente quelli di Carlo Mazzacurati: sono quelli della Pianura Padana, del Po, degli argini, dei casolari, i bar sotto i pioppi, e dei borghi incastonati in quella porzione di territorio che comprende Emilia, Veneto e Lombardia. E non a caso, a co-sceneggiare col regista, c'è Marco Pettenello.
I toni oscillano tra quelli del primo Marco Ponti (con un Alessandro Roia che sfiora anche venature alla Libero De Rienzo ma senza mai il suo cinismo e il suo ruvido sarcasmo, e mantenendo un certa innata fragile dolcezza) e vaghe e rispettose sfumature felliniane, con anche una spruzzata delle atmosfere cinematografiche e musicali di Ligabue.
Ma in mezzo a tutto questo c'è sempre Alberto Rizzi, e il film che aveva in mente lui. Che è un film semplice, se vogliamo anche ingenuo, ma allo stesso tempo capace di una tenerezza diretta e semplice, e di momenti di verità familiari e sentimentali che emergono nel contesto di una messa in scena che sa essere volutamente surreale, e a tratti perfino caricaturale e favolistica.

Il terremoto, nella vita dell'Orlando interpretato da Roia con spiccato e non disprezzabile accento emiliano, era arrivato anche prima di quello del 2012: era arrivato con la rottura con l'amata fidanzata Chiara (Alessandra Mastronardi), e l'addio stizzito alla band funky di cui era cantante e leader, i Cuore aperto.
Poi è arrivato anche il terremoto quello vero, che gli ha portato via una "casa" in riva al fiume, un fratello e una cognata, e che l'ha fatto tornare sotto lo stesso tetto dei genitori, assieme alla nipote.
E però, siccome Si muore solo da vivi è un film dichiaratamente sulle seconde chance, ecco che - con lo zampino della nipotina - Orlando sembra rimettersi in moto, abbandonando la sua apatia, riunendo la band come nei Blues Brothers e partendo, consciamente o meno, alla riconquista della bella Chiara.

Roia trova la giusta combinazione di indolenza e attivismo, e a supportarlo c'è soprattutto un Neri Marcorè polleggiato ma in gran forma, che con Francesco Pannofino, Andrea Libero Gherpelli e Paolo Cioni compone la line-up dei Cuore aperto.
L'esordiente Rizzi, dal canto suo, trova (prima di tutto in scrittura) la chiave per far emergere il passato recente, il dolore e la riscossa di un territorio che è in grado di raccontare anche attraverso i dettagli meno noti (come quelli della comunità indo-pakistana che lì vive e lavora), e anche di parlare di sentimenti senza troppe smancerie (basta vedere il rapporto tra Orlando e la nipote, o i genitori, per capirlo, prima ancora che non la Mastronardi).
Gli errori di gioventù non mancano, la confezione è a tratti fin troppo curata scivolando quasi nel pubblicitario, ma sono difetti, questi, che a Si muore solo da vivi si perdonano in virtù di una freschezza, una morbidezza di toni e, soprattutto, una generale simpatia che sono innegabili.
Cammei divertenti per Amanda Lear, Red Canzian, Ugo Pagliai e l'emilianissimo Vito.



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