A rivederlo oggi, non sorprende che I vitelloni - secondo film e mezzo diretto da Federico Fellini, con titolo che, esattamente come poi avvenuto con La dolce vita, è entrato nel linguaggio comune sinonimo di qualcosa che in realtà viene descritto con toni assai più amari e disillusi - sia considerato il film che ha rivelato come il suo autore avesse un talento davvero speciale, ben diverso e ben superiore rispetto a quello di tanti altri registi.
Basterebbe vedere il modo in cui, man mano che le maglie del rapporto del gruppo di giovani uomini che racconta si allargano, e che i singoli protagonisti sono costretti a fare i conti con i loro errori, le loro illusioni e le loro speranze, e scegliere se adagiarsi per sempre nella stasi della provincia e della loro esistenza o di reagire in qualche modo, Fellini lascia gradualmente sempre più alle sue spalle le apparenze del racconto realista, comunque sempre molto sui generis - per dare libero sfogo alla sua idea, libera e visionaria, del cinema e della narrazione.
Facciamo un solo, semplice ma chiaro esempio.
Siamo verso la conclusione del film. Sandra (Leonora Ruffo) è sparita, non si trova da tutto il giorno. Con l’aiuto di tutti gli altri amici, il fratello Monaldo (Franco Interlenghi) e il marito Fausto (Franco Fabrizi, doppiato da Nino Manfredi), che con i suoi tradimenti è responsabile della fuga della ragazza, si affannano per cercarla.
Lasciati alle spalle Alberto, Ruggero e Leopoldo, Fausto vaga da solo per la Rimini-non-Rimini dove Fellini ha ambientato il film (che, nello sguardo del co-sceneggiatore Flaiano, poteva e doveva essere una Pescara-non-Pescara), e a un certo punto finisce per andarla a cercare in spiaggia.
Lì, seduta al tavolino di un bar, di nero vestita, c’è la donna del cinema, quella che mesi prima Fausto aveva cercato di sedurre, cui aveva fatto piedino mentre vedeva un film al cinema con Sandra, e che poi aveva inseguito e baciato nell’androne nel suo palazzo, incurante della povera moglie.
Quella donna, interpretata da Arlette Sauvage, che nel film di Fellini nemmeno ha un nome, era scomparsa completamente dal racconto dopo quell'episodio, avvenuto un'ora di film prima, e riappare improvvisamente e fugacemente, quasi magicamente, proponendo a Fausto di accompagnarla a casa: come una visione tentatrice, come l’incarnazione della colpa.
Una riapparizione che non è nemmeno una parentesi, è una virgola diracconto che colpisce e sorprende, che arriva inaspettata e svanisce in un secondo, quasi ad anticipare l’andirivieni dei personaggi della Dolce vita.
E poi Fausto, che se la lascia alle spalle noncurante, cerca con lo sguardo carico d'apprensione la sua Sandra, scrutando la spiaggia e il litorale, ma l’unica cosa che vede è una cosa puramente felliniana (oggi qualcuno direbbe “sorrentiniana”): una fila di preti di vero vestiti che corrono sulla spiaggia, tonache al vento e mano sul cappello per non farlo volare via.
Tutto questo avviene in meno di un minuto di film, ma è secondo me uno degli esempi più lampanti di tutti quei momenti in cui Fellini, in un film che parte con una voce narrante che sta lì proprio a garantire un ingannevole statuto di “realismo”, trasfigura sottilmente I vitelloni in qualcosa di diverso, di magico, di metafisico.
Certo, la grande rivoluzione di La dolce vita e di 8 ½ sono ancora là da venire, ma quel modo di raccontare attraverso il cinema è già tutto dentro il suo autore.
Allo stesso modo, dentro I vitelloni, e tra le sue pieghe, ci sono anche già la voglia e la capacità di Fellini di raccontare la sua giovinezza e la sua Rimini (che però è simbolica di tutto il mondo della provincia italiana) attraverso una rielaborazione personalissima che abbatte ogni steccato tra la ricostruzione realistica, in entrambi i casi innegabile, e la voglia però di fare reale tutto ciò che è filtrato e magari deformato dal ricordo, dal sogno, dalla prospettiva di un'età che non è più.
Anche per questo, quel saluto finale di Monaldo al giovanissimo Guido, che è poi un saluto a tutti gli altri, a quei luoghi, a una fase della vita, che Federico Fellini ha voluto doppiare lui, mettendo la sua voce in bocca a Franco Interlenghi, è così straniante e commovente.
“Il visionario è l’unico realista”, diceva Fellini, e aveva ragione.
Perché è grazie a questo suo modo di raccontare così libero e personale, alla libera espressione del suo genio, che I vitelloni e gli altri suoi film rimangono così impressi nello spettatore.
Con scene magnifiche, e di registri completamente diversi, ma accomunate dalla capacità di raccontare con una miscela sempre nuova e unica tra ironia e amarezza un reale chiaramente rielaborato dall’immaginario di Fellini.
Come quella del confronto tra il signor Michele (Carlo Romano), suo datore di lavoro, e Fausto, che gli aveva insidiato la moglie, che parte con una lunga arringa di Michele sul cosa voglia dire volersi bene e che termina con pacate minacce fisiche a un Fausto che appare sempre più piccolo e meschino. O quella, barocca e carica di chiaroscuri cromatici e non solo, in cui Leopoldo e il suo mito, l’attore Sergio Natali (Achille Majeroni) sfidano la notte e il vento forte che viene dal mare per parlare della commedia scritta da Leopoldo: o così almeno pensa Leopoldo, che poi si rende conto come quel teatrante lo voglia condurre in spiaggia per ben altri motivi.
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