Netflix concorre con due pezzi da novanta come Klaus e Dov'è il mio corpo.
Le nomination agli Oscar di quest'anno ci mostrano una battaglia molto contemporanea tra i cinque nominati come miglior film di animazione: Netflix entra infatti di prepotenza anche in questo settore, con due lungometraggi che potrebbero mettere in seria difficoltà i concorrenti più tradizionali. Qualunque studio strappi alla fine la statuetta, noi appassionati vinciamo, perché ci tuffiamo in una preziosa varietà di stili e proposte, dove la CGI non è più l'unico trionfatore e la tendenza inaugurata l'anno scorso dall'Oscar a Spider-Man Un nuovo universo potrebbe confermarsi.
Dragon Trainer: Il mondo nascosto
La maturazione parallela tra il drago Sdentato e il neo-capo-villaggio Hiccup giunge all'apice e al termine con questo Dragon Trainer: Il mondo nascosto, che ha chiuso la trilogia più elegante della DreamWorks Animation. A dir il vero il film di Dean DeBlois, al suo secondo assolo alla regia dopo Dragon Trainer 2 (2014), è meno sofisticato del predecessore: sicuramente amabile com'è sempre stato questo ciclo tratto dai lavori fantasy di Cressida Cowell, però è meno duro e di conseguenza meno originale. Difficile non commuoversi all'idea di un distacco tra i due protagonisti, però in fin dei conti è un distacco raccontato in modo piuttosto indolore. Un Oscar a questo film avrebbe il valore simbolico di un Oscar alla trilogia intera, visto che nessun capitolo è riuscito mai a portarlo a casa. Lo capiremmo, ma più per principio che per i meriti dell'opera in sè, indispensabile per i fan della saga ma piuttosto convenzionale se guardata con un occhio più distaccato.
La nostra recensione di Dragon Trainer 3
Dov'è il mio corpo?
Questo spiazzante lungometraggio di Jérémy Clapin, già autore di cortometraggi qui al suo esordio nel lungo, è stato in realtà distribuito nelle sale francesi, ma nel resto del mondo è un'esclusiva Netflix. Il colosso dello streaming ha così dato la possibilità a questo Dov'è il mio corpo? di raggiungere un pubblico che non avrebbe mai avuto, vista la natura fortemente indipendente e visionaria dell'impianto. Seguiamo infatti una mano mozzata che, dotata di vita propria, abbandona l'ospedale in cui è bloccata e cerca di ricongiungersi al suo proprietario, attraversando la città. Appartiene al giovane Naoufel, che per la sua vita, che scopriamo nei flashback, aveva sognato qualcosa di più della consegna di pizze e dell'artigianato. E' ancora in tempo? Surrealismo, dolore, tecnica bidimensionale evocativa. Tratto dal romanzo Happy Hand di Guillaume Laurant, non è il nostro favorito solo per gusti personali: se vincesse, non potremmo però certo opporci.
Klaus
Ammettiamo di esserci votati anima e corpo al primo lungometraggio animato interamente prodotto e distribuito da Netflix. Il suo regista Sergio Pablos, ex del Rinascimento Disney anni Novanta, meriterebbe per noi di stringere la statuetta per due ragioni. In primis, Klaus è un recupero, produttivamente impegnativo ma ragionato, dell'animazione a mano libera bidimensionale di stampo disneyano: dieci anni di lavoro per ritrovare o addestrare il numero sufficiente di artisti in grado di riprodurla. La tecnica è però anche arricchita di shading, luci e texture per non dimenticare che la CGI ha abituato il pubblico alla tridimensionalità. Klaus però non è solo tecnica: è un'origin story ironica di Babbo Natale, piena di buoni sentimenti senza essere smielata o moralistica, condita da gag verbali e visive intelligenti, e osa prendere di petto senza giri di parole la pigrizia con cui ci abituiamo ai cattivi pensieri e alla negatività. Rivoluzione, stile e sostanza.
La nostra recensione di Klaus
L'anello mancante
Amiamo la maestria della Laika Entertainment nell'ambito della stop-motion, in alcuni momenti e soluzioni persino più elaborata di quella garantita dalla mitica inglese Aardman. Scritto e diretto da Chris Butler, L'anello mancante partecipa agli Oscar dopo aver già vinto un Golden Globe, che potrebbe in realtà valere come contentino. Missing Link è un film di un'eleganza formale stupefacente, che sintonizza immagine, suono e doppiaggio (originale) su una gentilezza totale, un garbo raro, una carezza costante. E' tuttavia proprio questa gentilezza estrema che gli impedisce uno scarto ulteriore di decisione e incisività, quel quid che trasformi una dimostrazione di impressionante professionalità e sicurezza tecnica in qualcosa che non si riesce a dimenticare.
Toy Story 4
Con Frozen 2 relegato alle nomination per la miglior canzone, con il remake del Re Leone (per noi giustamente) spostato nella categoria delle nomination all'Oscar per gli effetti visivi, la Disney è rimasta in gara solo con il prosieguo della saga di Toy Story a cura della Pixar. Come avemmo modo di esprimere, Toy Story 4 non è riuscito a convincerci della sua necessità, specie perché nel 2010 Toy Story 3 ci fu presentato come un perfetto sipario. Non c'è nulla che davvero non funzioni in Toy Story 4, ma più che altro perché il film di Josh Cooley rischia pochissimo, meno di quel che sembra, e gioca sul sicuro, sui soliti temi e sulla familiarità con personaggi di fronte ai quali è impossibile rimanere indifferenti. Piacevole, a nostro modesto parere non è all'altezza dei migliori contendenti di questa categoria.
La nostra recensione di Toy Story 4
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