sabato 22 dicembre 2018

Cold War

Non era mai successo che i cinque film nominati come miglior pellicola per gli European Film Awards fossero stati presentati tutti a Cannes: tre in concorso e due nella sezione “Un certain regard”. I tre film in concorso erano: due film italiani ossia Dogman di Matteo Garrone e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, l'altro film era Cold War di Pawel Pawlikowski. Ha vinto, notoriamente, Cold War che si è portato a casa la bellezza di cinque statuette: film, regista, sceneggiatura, montaggio e protagonista femminile. Il film di Garrone ne ha vinte tre: Marcello Fonte, più trucco e costumi. Alice Rohrwacher se ne è tornata da Siviglia (i premi sono stati consegnati lì una settimana fa) con il solo European University Film Award, un premio minore assegnato da una selezionata giuria di studenti universitari. Dei tre film il solo Cold War è riuscito a rientrare nella longlist degli Oscar come miglior film straniero, fra gli esclusi eccellenti, lo si è saputo, per l'appunto Dogman che concorreva per l'Italia.

Pawlikowski aveva già ottenuto lo European Film Award con Ida, che poi vinse anche a Hollywood, Cold War è a cinque anni di distanza il suo film successivo, nonché il suo secondo, almeno in parte, girato in Polonia, dove – sostiene – il cinema viene ancora preso sul serio. Almeno in parte girato in Polonia: perché il film parte dalla Polonia per farvi ritorno solamente verso la fine, le altre tappe sono Berlino Est, Parigi, la Jugoslavia, e ancora e sempre Parigi.

Straordinario l'inizio: sembra di assistere a un documentario di etnomusicologia, primi piani di individui fortemente segnati nei tratti del volto che cantano melodie popolari, per lo più in mezzo a una campagna innevata (tutto ricostruito sulla base di fotografie d'epoca, racconta il regista), accompagnati dai più vari strumenti. Solo dopo qualche inquadratura si capisce che non ci sono solo gli spettatori ad ascoltarli e la macchina da presa a riprenderli, ma c'è un team che sta battendo a tappeto le campagne polacche alla ricerca di melodie nonché di giovani aspiranti cantanti e ballerini al fine di metter su un ensemble di musica folklorica che canterà e ballerà le tradizioni e i temi immutabili che agitano l'animo umano, ma anche le magnifiche sorti e progressive dello stato polacco e del modello sovietico. Il gruppo, realmente esistito, seppur con altro nome, nel film si chiamerà "Mazurek", ossia mazurca. Il talent è gestito dal pianista e direttore d'orchestra Wiktor, dalla sua collega e compagna Irena e dal funzionario del partito Kaczmarek che raccoglierà i selezionati in una vecchia villa padronale al fine di operare ulteriori e più severe selezioni, Fame ai tempi di Stalin. Sembra proprio che lo XFactor ce l'abbia Zula (la bravissima Joanna Kulig, anch'essa premiata a Siviglia, con piccola parte anche in Ida, anche lì cantava), ragazza fragile e consapevole di sé a un tempo nonché dal passato a dir poco turbolento (è in libertà vigilata, si dice che abbia ucciso il padre) su cui si appunta l'interesse non solo artistico di Wiktor. In breve: fra i due inizia una storia d' amore intensa e disperata che si protrarrà almeno per il quindicennio successivo in mezzo alle più diverse peripezie, fra le quali certamente spiccano le condizioni geopolitiche europee, di cui al titolo, ma non solo. I due si perdono e si ritrovano si perdono ancora e si ritrovano ancora, in un racconto denso di dissolvenze in nero, di ellissi, in cui la psicologia e i nessi logici ci sono eccome, ma solo accennati e mai didascalici, in cui la fanno da padrone – oltre alla Storia che ora sembra impedire la felicità degli amanti, ora, nei momenti di ricongiunzione, pare assolutamente obbligarli a essere felici– la musica e il cinema.

La musica, perché il film, molto breve per gli standard attuali (solo 88 minuti), è un film in larga parte musicale e coreografico: a parte le sequenze iniziali, valgano le scene della selezioni nella villa, con canti a cappella, numeri di danza, audizioni in cui si mescola il solfeggio e I Loves You Porgy, gli spettacoli in Polonia e all'estero in un pullulare di canti, balli inneggianti alla cultura popolare, agreste e agli eroi del socialismo, le esibizioni di Wiktor a Parigi come pianista in un localino jazz, l'arrivo di lei trasformata da matrjoska con gonne a fiorami e treccine e - unico accenno vagamente sexy - la bocca rossa rossa in swinger seduttiva e magnetica del localino della rive gauche (nel piano sequenza più bello del film non a caso utilizzato anche nel trailer) , fino al ritorno in Polonia quando Zula diventa quanto di più vicino a una popstar da baraccone. Bisognerebbe rivedere il film una seconda volta con il cronometro in mano, ma i minuti in cui sentiamo musica, senza parti dialogiche, sono davvero tanti, insomma in molti momenti si ha la sensazione di assistere a un musical, anche, lo ripetiamo, in considerazioni dell'attenzione agli elementi coreografici, a cui il regista ha dato, soprattutto nella prima parte del film, molto spazio.

Ma Cold War è – in presenza di uno stile assolutamente inconfondibile, chi ha visto Ida si sentirà a casa (il formato del film, il ruolo della musica, alta e bassa, le intrusioni della Storia nella biografia dei personaggi, Parigi e il jazz) - un film che intende riprendere, citare, variare tanto, tantissimo cinema, bello, ricco e diversificato: il cinema polacco, documentario e non, della scuola di Lodz, il cinema di spionaggio, tipico della guerra fredda, a Berlino Est, il cinema della nouvelle vague a Parigi (le poche inquadrature in strada fanno subito pensare a Jean Seberg e a Jean Paul Belmondo), il cinema di Antonioni: le scene nel locale ricordano chiaramente La notte, se poi si tiene conto che non troppo casualmente il locale si chiama L'eclipse, beh.

In questo senso Cold War merita a pieno titolo il premio come miglior film europeo del 2018 perché rappresenta con compiutezza e originalità una sintesi della sua storia, quanto meno per quel che riguarda la seconda metà del Novecento. E come se non bastasse: era tempo che non si vedeva una sequenza finale così memorabile, che non riveleremo: una cerimonia di unione e di addio, con parole indimenticabili, la dedica ai genitori del regista, a cui la vicenda è vagamente ispirata, e dopo l'ultimissima dissolvenza in nero, l'attacco delle Variazioni Goldberg, nella seconda incisione, quella del 1981, lentissima e straziante, di Glenn Gould.

(Cold War); Regia: Pawel Pawlikowski sceneggiatura: Pawel Pawlikowski, Janusz Glowacki, Piotr Borkowski; fotografia: Łukasz Żal; montaggio: Jaroslaw Kaminski; interpreti: Joanna Kulig (Zula), Tomasz Kot (Wiktor), Borys Szyc (Kazmarec), Agata Kulesza (Irena), Cédric Kahn (Michel), Jeanne Balibar (Juliette); produzione: Apocalypso Pictures, BFI Film Fund, Film4 origine: Francia, Polonia, Inghilterra 2018; durata: 88'.



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