Un western insolito, con dolcetti al posto delle armi, ma anche un film che ragiona sull'America e le sue radici.
“The bird a nest, the spider a web, man friendship”.
L’esergo di William Blake è chiaro: First Cow è un film che racconta un’amicizia. Simple as that. Ma le cose semplici a volte sono anche le più stratificate, e se poi la semplicità è quella del racconto nitido e preciso di Kelly Reichardt, possiamo essere sicuri che, oltre all’amicizia, c’è qualcosa di più. Molto di più.
Gli amici sono Otis e King-Lu: due uomini che hanno seguito la corrente della vita fino all’Oregon selvaggio del 1820, alla ricerca del loro posto nel mondo. Il primo attraverso l’America del Nord, dalla Boston dove faceva il fornaio fino all’Ovest inesplorato, dove è arrivato come cuoco al servizio di un gruppo di trapper. Il secondo ha girato il mondo, e in quel posto, “dove la storia non è ancora arrivata, è alla ricerca di un modo per affermarsi, e magari arricchirsi.
Si sono incontrati per caso, ma non rimarranno insieme per caso: lo faranno perché tra loro s’instaura un sincero legame, ma anche perché insieme, la creatività dell’uno unita allo spirito d’avventura imprenditoriale dell’altro, sembreranno riuscire a realizzare il loro sogno.
Allora, come praticamente tutti gli altri suoi film, anche questo nuovo di Kelly Reichardt, che mette assieme tanti pezzi tematici ed estetici dei suoi precedenti, è un film sull’America. È chiaro che, oltre che d’amicizia, qui si parla di ambizione, di avidità, di Sogno Americano. Di come dal basso si possa sperare di salire verso l’alto e cambiare la propria posizione sociale ed economica.
I due protagonisti di First Cow lo fanno nell’unico modo possibile per loro: rubando di notte il latte dalla prima e unica vacca (quella del titolo) fatta arrivare dal ricco colono inglese in quell’avamposto commerciale che è teatro della vicenda, un mucchietto di baracche sistemate l’una vicina all’altra.
Con quel latte, prepareranno dolci da rivendere al mercato, e che attireranno l’attenzione e la golosità del padrone della vacca. Che non si spiega come mai la bestia, al mattino, abbia così poco da mungere.
Che l’avventura dei due amici sia purtroppo destinata a finire tragicamente, Kelly Reichardt lo dice apertamente nel prologo contemporaneo del film, quando una donna ritrova, in un bosco nei pressi di un fiume, due scheletri distesi l’uno al fianco dell’altro. Ma quelle ossa che emergono man mano che scava dal terreno, non sono solo uno spoiler volontario, ma anche il simbolo di quello che si cela sotto i successi e le contraddizioni degli Stati Uniti di oggi, le radici passate, da non dimenticare, di un presente che sembra tornare sempre di più alla struttura economica e sociale di un tempo.
Dentro un’inquadratura in 4:3 nella quale risplende gloriosa la grana della pellicola, Kelly Reichardt racchiude una storia umana tenera e avvincente, distesa ma capace di tensione; personaggi silenziosi e di grande spessore narrativo, che si muovono immersi in una natura primordiale e lussureggiante, grandiosa e misteriosa, spettatrice neutrale degli eventi che ospita, alternativamente amica in quello che regala agli uomini, e nemica per gli ostacoli che pone loro di fronte.
Il suo è un western anomalo, quasi senza armi ma con tanti dolcetti, nel quale la macchina da presa si muove poco e lentamente (ma quando di muove, che eleganza!), ipnotizzando con implacabile efficacia l’attenzione dello spettatore e il suo coinvolgimento emotivo. Anche grazie alla capacità di Kelly Reichardt di catturare i piccoli, grandi dettagli degli sguardi, dei sorrisi e dei movimenti dei suoi personaggi, più espressivi di tante parole, qui fortunatamente assenti.
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