Il passato raccontato con nostalgia, contro un futuro dispotico terribile che diventa presente. La comunicazione al cuore di un dialogo sui massimi sistemi, rispetto all’incomunicabilità al centro di un mondo guidato dalle regole della violenza. Il passaggio di George Miller è brutale, a sette anni di distanza, da Mad Max: Fury Road a Three Thousand Years of Longing. Ma non possiamo aspettarci altro da un autore così amante della rivoluzione di temi e forme, che ha diretto in passato anche Happy Feet e Babe.
Il punto di partenza dei suoi ultimi due viaggi, uno con la fantasia e la rievocazione, l’altro con una frenetica messa in scena dell’ora e chissà se mai più, è sempre il Festival di Cannes, dove il regista australiano, dalla carriera per molti anni marginale, ormai è diventato, superati i 70 anni, ospite di grande nobiità.
Ispirato da un racconto di A.S. Byatt della fine degli anni ’90 dal titolo The Djinn in the Nightingale’s Eye, Three Thousand Years of Longing racconta di una accademica, Alithea Binnie (Tilda Swinton), studiosa di narratologia, ovvero di strutture narrative, che si trova a Istanbul per una conferenza e incontra un Jinn, creatura citata nel Corano, entità soprannaturale “intermedia fra l’angelico e l’umanità”, fra il maligno e la benevolenza. Questa imponente figura, interpretata da Idris Elba e un bel po’ di CGI le presenta tre desideri in cambio della sua libertà. Il punto di partenza per un viaggio nelle proprietà ineguagliabili del racconto, rievocando fantastiche storie in dialoghi serrati fra il Decameron e le Mille e una notte.
Esotismo, filosofia, parabole buone per ogni occasione e per un vero viaggio nella storia del mondo, umanità compresa. Il tutto con uno stile visivo colorato e dalla patina che rievoca lunghe sessioni di playstation. Un viaggio a suo modo spensierato, anche se in punta di malizia, che intrattiene con un certo godimento e senza voler ambire a ponderose lectio magistralis, nonostante si voli fra i massimi sistemi. Al contrario del suo film precedente, qui si viaggia con la fantasia, in una costruzione a scatole cinesi fatta di parole, senza muoversi dalla stanza. Al centro il candore british di una vedova disperatamente ancorata, per convivere con una grande solitudine, alle abitudini quotidiane e ai suoi viaggi con la fantasia da studiosa di evasione narrativa. La dottoressa Alithea interpretata con la consueta maestria da Tilda Swinton. Un personaggio che spiazza il jinn, abituato a confrontarsi con ben altre doppiezze e ambiguità, terrene e umane.
Three Thousand Years of Longing omaggia il racconto come forma più alta di amore, riportando in superficie le sensazioni primordiali, epidermiche delle prime emozionanti sortite dell’uomo intorno a un fuoco per condividere dopo essere uscito dall’isolamento primordiale. Un film che richiede una messa in ascolto, da parte della sua protagonista come di noi spettatori, sommersi da parole - forse anche troppe - in un percorso di scarnificazione di quanto di immutabile c’è nella natura umana, anche dopo tremila anni di attesa. Anche per questo nella parte conclusiva lascia perplessi una fuga narrativa, che poi rappresenta un ritorno a casa, che fa ingarbugliare il racconto compromettendolo con un contemporaneo in cerca di riferimenti al dibattito sociale di cui non si sentiva il bisogno.
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