mercoledì 3 febbraio 2021

Lone Wolf: da Rotterdam un thriller politico con un film (found footage) nel film

Found footage. Riprese da videosorveglianza e da smartphone. Screencasting. Sono anni oramai il cinema contemporaneo, tanto quello più impegnato e d'autore quanto quello commerciale e per il grande pubblico, riflette sul nuovo statuto dell'immagine ai tempi del digitale, e dell'utilizzo generalizzato e pervasivo del video, e del ruolo attivo e passivo dei soggetti di fronte ad apparati di ripresa.
L'ha fatto anche l'australiano Jonathan Ogilvie, che al Festival di Rotterdam 2021 (sezione competitva Big Screen) ha presentato un thriller intitolato Lone Wolf che ragiona su questi temi attraverso un artificio che sposa la riflessione teorica (seppur all'acqua di rose) con le regole del genere e del cinema, senza dimenticare nemmeno di dare sfumature esplicitamente politiche al suo racconto.

All'inizio di Lone Wolf, che è ambientato in un futuro prossimo, nell'ufficio del Ministro della Giustizia australiano (interpretato da Hugo Weaving, barbuto e mefistofelico) fa irruzione Kylie (Diana Glenn) una detective della polizia che ci viene detto essere stata sospesa dal servizio. Con sé, la donna porta una chiavetta con dentro un video che suggerisce al ministro di vedere. Capiamo subito che quel video è legato alle ragioni della sua sospensione, e a eventi poco chiari nei quali, probabilmente, il politico ha messo lo zampino. Da questo prologo si passa a un vero e proprio film nel film, alla storia di Conrad (Josh McConville), un attivista che gestisce una libreria alternativa, di Winnie (Tilda Cobham-Hervey), la sua fidanzata ambientalista, e di Stevie (Chris Bunton), il fratello di lei affetto da sindrome di Down. La loro è una storia di vita familiare e insieme di giochi e doppi giochi, di una riunione del G20 e di un possibile attentato dimostrativo richiesto a Conrad da un misterioso personaggio, e di esiti drammatici di questa vicenda. Ma, soprattutto, è una storia raccontata solo ed esclusivamente attraverso le immagini riprese da telecamere di sorveglianza palesi e nascoste, da telefononi, da computer e altri device.  È la stessa Kylie, nel prologo ,a spiegare al ministro e a noi spettatori di aver montato lei stessa le immagini assieme secondo una logica narrativa. Cinematografica, aggiungerei io.

Il prologo, più che conquistare, lavora sulla curiosità dello spettatore, e lo stesso meccanismo funziona per tutto il film, unito alla particolare costruzione formale del film nel film, curata da Ogilvie con grande attenzione al dettaglio e alle sfumature. E dentro quell'intricato intreccio di immagini "rubate" e sapientemente cucite assieme dal regista, capace di dare l'impressione di una regia studiata senza mai tradire le regole imposte dalla provenienza delle immagini, si dipana una trama che attualizza un romanzo di Joseph Conrad pubblicato nel 1907, "L'agente segreto": lo stesso cui si ispirò Alfred Hitchcock nel 1936 per il suo Sabotaggio.
Se dal punto di vista di questo intreccio conradiano le cose filano ovviamente senza problemi, è vero che la particolare messa in scena del film nel film rischia di appiattire su un bidimensionalismo virtuale molti dei protagonisti, con la notevole eccezione di Winnie, interpretata dalla brava 27enne australiana Tilda Cobham-Hervey, finora nota da noi esclusivamente per la sua partecipazione a Attacco a Mumbai, il film sul cui set conobbe l'attuale fidanzato Dev Patel.
È Winnie il vero cuore del film, ancor più di quanto non lo fosse del romanzo di Conrad: tanto più che l'esito delle due storie diverge, in una chiave femminile e femminista che è perfettamente in linea coi tempi che viviamo, e che funziona molto di più di quanto non facciano invece i richiami all'ambientalismo da un lato, e ai rischi della "dataveillance" dall'altro.



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