ὦ τέκνα, ποῦ ποτ᾽ ἐστέ
Enfants, où êtes-vous désormais?
Traduce così Despleschin dall'Edipo re, la tragedia per eccellenza sull'enigma umano, sull'impotenza dell'uomo, sia esso saggio e intelligente, contro il destino. Tekna è di genere neutro. Sono i figli, sia maschi che femmine. Nuova progènie perduta ma anche tenace barlume di speranza. È la parte finale del dramma, quando Edipo, toltosi oramai la vista, invoca le figlie Antigone e Ismene che lo accompagneranno nell'esilio lontano da Tebe, a Colono.
A bout de souffle. Sul letto sfatto, dentro lenzuola che fasciano i lombi, come in un viluppo marmoreo classico, amore e psiche sono due ragazzi negli anni '80 e '90. Esther e Paul leggono divertiti e vaghi brandelli di Platone, il Fedro, sull'anima e le passioni. E Sofocle. Dentro quelle frasi, nel fulcro pulsante della tragedia greca è racchiusa anche l'essenza del film: la figura instabile e assoluta della madre - l'invocazione (Bambini! Figli! Dove siete ormai?) sembra un suo ennesimo grido disperato - e al tempo stesso l'incapacità di amare di un padre represso e assente. Ma i punti in comune tra Paul e Edipo sono ancora altri. ll desiderio (in)consapevole di essere un altro. Edipo all'inizio non sa di chi è realmente figlio, così Paul Dedalus richiama e rimuove, al tempo stesso, il suo passato. Da ragazzo sceglie un mestiere di ricerca e catalogazione del mondo attorno a sé - altro da sé, lontano da sé - per prendere terreno, mettere distanza dal pianeta da cui proviene, per non poter avere il tempo di rivolgersi quelle semplici, cruciali domande che solo la sua amata professoressa di antropologia sarà capace di porgli.
La ricerca di una codificazione dell'esistente attraverso il sapere lo conduce al transfert verso una madre diversa, saggia, dura ma rassicurante, eppure sempre irraggiungibile. Da adulto irrisolto e tormentato, con il suo rientro in Francia e il volto fragile e intenso di Mathieu Amalric, comincia - per caso, volontà o destino - a richiamare in modo quasi ossessivo i ricordi come per un improvviso smottamento interno nella sua condizione di rimozione forzata. Adolescente, età in cui dicono sembra definirsi progressivamente ciò che chiamiamo identità, una sensibilità certamente affinata dall'uscita tramautica dall'infanzia lo spinge a desiderare di rinunciarvi, di cederla a un altro, almeno nominalmente, senza esitazione, insieme al suo passaporto. Come Edipo, la sua volontà lo convince che non può provare dolore.
Tutto schiacciato nella prospettiva dei ricordi, in una narrazione sbilanciata, deformata come è normalmente la fantasia della memoria che ingigantisce, assolutizza una fase della vita, fissa l'eterno ritorno nello sguardo languido, nella pelle intatta, l'amore intatto, il dolore intatto, di e per Esther. Il film celebra la coincidenza nell'immaginario di Paul di quell'età mitica, la giovinezza, con la quasi totalità della sua esistenza. Tra i ricordi che il protagonista rievoca all'inizio del film mentre è di rientro a Parigi dopo aver trascorso gran parte della vita in un perpetuo movimento - fatto di viaggi e esplorazioni ( ma “non sono Ulisse” tiene a sottolineare alla compagna che lascia languidamente in un lontano Tagikistan) e di libri, ai quali si rivolge incessantemente durante tutta la sua esistenza - il numero 3, denominato appunto “Esther”, risulta il predominante e ampio in modo abnorme rispetto alla struttura dell'intero corpo del film, indicando una chiara gerarchia narrativa di matrice psicanalitica.
Narrazione non lineare, tra Proust e Joyce, come scomposta nei pezzi imperfetti di uno specchio infranto: incipit ex abrupto, memorie dall'attacco quasi sempre scattoso, come per una violenza originaria, una lacerazione mai ricomposta. La narrazione ha inizio in prima persona, dal punto di vista del protagonista che rievoca - mentendo - il suo passato. Successivamente si distacca e passa alla terza persona. Il lungo rapporto epistolare ci porta dentro lo sguardo intimo di Esther che si sovrappone e si mischia a quello di Paul, viaggiando a un certo punto all'unisono, come un flusso di elementi complementari, espressione vivida di pensieri ed emozioni visceralmente umane e giovanili, anche nel costante squilibrio dialettico. Questa alternanza di fuori e dentro, di riprese tradizionali mischiate a camera a mano oscillante, incerta, che pesca ciò che è di suo interesse in modo preciso anche nel dogma personalizzato, tenero e orrorifico, del von Trier degli ultimi tempi, ci rende questo Dedalus vicino più che mai.
Diana e Atteone al tempo stesso. Trois Sovenirs de ma jeunesse (I miei giorni più belli in italiano) è, nonostante tutto questo, - nonostante la specificità di un'esistenza non comune, segnata da un danno originario, un trauma ineliminabile - un riuscito, vitale inno alla vita, alla sua bellezza, alla sua complessità, alla sua incomprensibilità. Grazie a un affresco corale mai approssimativo, mai casuale dei personaggi che animano l'universo di Paul, più autentici ci appaiono questi frammenti rilucenti del percorso labirintico di vita del protagonista.
La resa incondizionata di Paul a quell'età dell'oro, a quella passione mai spenta, all'estasi di fronte alla bellezza magnifica e selvaggia che ci viene in contro come in un sogno, a quella gioia di vivere, alla tenacia della resistenza, e, in fondo, alla speranza è, come il mantello rosso nel quadro di Hubert Robert, anche la nostra.
(Trois souvenirs de ma jeunesse ); Regia: Arnaud Desplechin; sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Julie Peyr, Nicolas Saada; fotografia: Irina Lubtchansky; interpreti: Quentin Dolmaire, Lou Roy-Lecollinet, Mathieu Amalric, Dinara Drukarova, Cecile Garcia-Fogel, Françoise Lebrun, Olivier Rabourdin; produzione: Why Not Productions, France 2 Cinéma, Canal+; distribuzione: BIM; origine: Francia, 2016; durata: (esempio) 120'
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