Lettere d'amore dal Medio Oriente è fondato, almeno nella versione cui abbiamo avuto la possibilità di assistere qui al FLIPT di Fara in Sabina, su una specularità estremamente limpida.
Da una parte dello specchio ci sono le storie delle donne afgane e irachene, costrette a indossare il burqa e prigioniere di una vera e propria catena di convenzioni sociali che per noi occidentali sono diventate materia di dibattito solo ai tempi dell'attentato alle Twin Towers per poi scivolare in un viscoso oblio.
Dall'altra parte dello specchio c'è invece il destino delle donne americane (esemplificato nella storia di Angela) che aspettano i mariti andati a combattere dall'altra parte del mondo una guerra che con il tempo si è fatta abitudine distorta.
Questa specularità di mondi e culture che guardano ciascuna nell'abisso dell'altra per scoprire la profondità insondabile del proprio, si fonda principalmente su motivi interni alla narrazione.
Entrambi i segmenti narrativi che dividono limpidamente l'opera di due tempi distinti ma interconnessi, infatti, sono fondati infatti sul tema del viaggio, del muoversi, del tendere a.
Nella prima parte è il viaggio delle donne mediorientali verso il nostro occidente, in particolare Londra, a diventare il perno intorno al quale si tessono, come in un arazzo, i destini di donne che, nel tentativo di opporsi alle convenzioni del proprio paese, hanno visto sfigurati i propri volti con l'olio bollente, quasi un tentativo estremo della cultura di appartenenza di scolpire nella carne quel velo orribile, nella sua estetica bellezza, che hanno cercato di strapparsi di dosso.
Nella difficoltà di vedere confermato il proprio visto, senza il quale è giocoforza dover tornare nella terra da cui erano fuggite, le donne trovano nel mondo occidentale un'attenzione più di facciata che reale. Diventano, con i loro volti sfigurati e le loro vite calpestate, possibile materia per uno spettacolo che solo apparentemente si propone di offrire loro una potenziale cassa mediatica nella quale gridare quel dolore che è rimasto tanto a lungo prigioniero di quello stesso velo, ma che, in realtà, è luce per una ribalta effimera che non dà alcuna sicurezza per quel visto e quelle operazioni tanto desiderati. Una luce che tanto facilmente si confonde, per chi come loro ha perso anche la vista, con quella di una finestra aperta sul vuoto di un destino dal quale sembra impossibile fuggire
Nella seconda parte è invece il viaggio di Angela nelle zone di guerra in cerca del suo Mike, disperso in un'azione, probabilmente morto. Un viaggio che scava in quello scontro di civiltà che è ancora in corso anche la possibilità di un incontro, benché doloroso con l'alterità.
Tutti e due i viaggi sono fatti della materia labile del sogno e della speranza. Il letterale mettersi in strada dei personaggi deriva dal bisogno di uscire dalla prigione che le convenzioni hanno costruito loro intorno. Sia quello del burqa per le donne afgane che quello altrettanto claustrofobico, benché invisibile, delle abitudini del mondo occidentale fondato sul lavorare, fare soldi, spenderli in uno stress senza fine.
Prigioni metaforiche che diventano percezioni temporali come il suono scandito delle lancette dell'orologio e del rintocco fatale del Big Ben di Londra o come l'assurda consapevolezza di Angela della presenza di un'altra parte del mondo in cui è notte quando per lei è giorno. Disperata inconciliabilità di opposti.
Le due parti dello spettacolo sono cucite insieme dall'ingombro di realtà della videoproieizione di vere donne sfigurate dall'olio bollente che, oltre a formare una cesura netta tra i due momenti dello spettacolo, attiva un processo di rispecchiamento tra spettacolo e spettatore.
Lettere d'amore dal Medio Oriente si fonda su una regia assolutamente essenziale che, mettendo il testo al centro del discorso, lo chiude in traiettorie estremamente rigide e geometriche. Vera e propria prigione dello sguardo che non ammette deroghe e lascia respirare l'intera vicenda su un pedale di tonalità dolenti e aspre che tolgono il respiro.
Forse un controcanto, qualche gesto di rottura avrebbero potuto spingere il discorso in una dimensione più spiccatamente polifonica. Ma avrebbe probabilmente anche nascosto il gioco degli incastri tra temi e figure, tra attrici e manichini che costituisce in fondo il fascino dell'intera operazione.
(Love letters form Middle East);
Drammaturgia: Kiomars Moradi and Porya Azarbayjani
Traduzuone: Cynthia Dekay
Regia: Kiomars Moradi
Musica: Maryam Ershadi Yusefzadeh
Multimedia and video arts: Kiomars Moradi and Farshid Akhlaghi
Produzione: Hope Theare (Minnesota/Iran)
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