Non c'è una vera scenografia in La commedia di Arlecchino e Pulcinella a Venezia.
Piuttosto un drappo steso con tre tagli in mezzo (come in una tela di Fontana) che separa il proscenio, dove la storia prende corpo, da un retroscena, dove c'è paziente, ma non visto, il lavoro degli attori.
Quel telo steso, però, nel gioco registico, non sta lì, come verrebbe a tutta prima da pensare, per nascondere, ma, al contrario, per rivelare.
Paradossalmente, in La commedia di Arlecchino e Pulcinella a Venezia il vero momento teatrale non lo si deve cercare in proscenio, ma dietro il telo. Non in quello che vediamo, ma, straordinaria sintesi di opposti, in ciò che non vediamo.
Indice puntato verso la luna, la scena ci racconta solo la storia che siamo venuti a farci raccontare dal teatro e mette in bella fila i personaggi di una tradizione lunga che, col tempo, è stata messa da parte da riforme più o meno ispirate e nuove abitudini e convenzioni. Ma il racconto di uno spettacolo della commedia dell'arte in sé non è così importante, come non sono importanti i dialoghi o i colpi di scena che stanno lì dove ognuno si aspetta che siano, solo per rivendicare i giusti applausi del pubblico.
Quello che conta nella commedia dell'arte è semmai la maschera e l'abilità consumata dell'interprete a farla vivere in una drammaturgia del corpo che sa stare nel suo spazio. Quello che conta non è ciò che la maschera fa, ma come la fa. È nell'abilità dell'interprete di trasformarsi seguendo il comando segreto di quella maschera che gli impone una postura, un movimento, un modo di camminare e anche, pensa, uno di dormire.
Quel telo steso ad asciugare sulla scena, quindi, (oltre ad essere replica fedele di una soluzione tipica del teatro di strada che non poteva troppo caricarsi dell'intralcio delle scene) non sta lì a nasconderci l'ingombrante verità che gli attori che interpretano tanti personaggi sono solo due, ma a rivelarcelo. A obbligarci, in fondo, a realizzare che il vero senso dell'operazione teatrale pensata in questa drammaturgia attoriale non è tanto mettere una maschera, quanto piuttosto, cambiarla. Continuamente.
Lo spettatore sa bene, in ogni momento dello spettacolo che quando un personaggio esce di scena è per dare all'attore il tempo di cambiarsi, ma quel momento di passaggio, invece di diventare ingombro di realtà sulla magia dell'illusione, diventa parte del processo spettacolare, arricchisce il divertimento e, al tempo stesso, aumenta la percezione del senso della bravura dei due interpreti capaci di passare da un ruolo all'altro e da una maschera all'altra.
La loro bravura non si basa tanto sulla rapidità del cambio (non sarebbe commedia dell'arte, ma semplice esibizione di un trasformismo spettacolare) quanto sulla distanza fisica e caratteriale che separa la maschera da poco lasciata dall'altra appena indossata.
In questo senso si misura forse anche meglio la qualità di un'operazione che aggiorna gli stilemi di una tradizione senza per questo snaturarne il senso.
Il canovaccio, da parte sua, resta materia neutra per adeguarsi evenemenzialmente a qualsiasi contesto.
L'altra sera, ad esempio, l'inserimento continui di anglicismi quando non di intere battute in inglese, risultava funzionale a un pubblico, quello del FLIPT, con molti spettatori stranieri che altrimenti avrebbero capito troppo poco di quanto andava succedendo sulla scena. Una scelta questa che rinverdisce efficacemente una strategia comunicativa tipica di una tradizione che doveva adattarsi continuamente a pubblici diversi sia per lingua che per estrazione sociale.
La commedia così pensata presta dunque il braccio a una notevole esibizione virtuosistica per gli interpreti (Nathalie Menta e Claudio De Maglio), ciascuno capace di trovarsi a casa in ogni maschera indossata.
Ne vien fuori un'operazione classica e moderna al tempo stesso e capace di stare nell'oggi senza portarsi addosso un odore di accademia.
(La commedia di Arlecchino e Pulcinella a Venezia)
Regia: Pino Di Buduo e Claudio De Maglio
Con: Nathalie Mentha, Claudio De Maglio
Drammaturgia: Claudio De Maglio
Produzione: Teatro Potlach
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