martedì 28 giugno 2016

FLIPT 2016 - The Amish Project

Nel 2006, nel villaggio Amish di Nickel Mines, un uomo armato entra in una scuola e vi si barrica dentro tenendo come ostaggi solo le bambine.
Nella sparatoria che segue muoiono cinque ragazze tra i sei e i dieci anni. Poi l'uomo rivolge le armi contro se stesso e si suicida.
La risposta della comunità Amish è coerente con la loro visione del mondo che non conosce alcuna forma di perché: totale perdono dell'attentatore che ha strappato alla vita fiori preziosi ancora in boccio e profonda compassione nei confronti della sua famiglia.
Così il giorno dopo l'attentato una composta processione di Amish si reca in visita alla casa dell'uomo portando cibo, cercando l'impossibile strada di un conforto a persone fino a quel momento sconosciute.
L'episodio, nella sua semplice immediatezza obbliga una società come quella americana, in cui sparatorie ed episodi di violenza del genere sono con il tempo diventati un funesto vicino di casa, a confrontarsi con un tema di luce dolorosa come il perdono.
Che cos'è? Dove nasce? Fino a che punto esso non può essere considerato mera follia magari dettata da un credo religioso? Fino a che punto essa può essere sincera?
La strada del dramma a tesi viene evitata da Jessica Dickey, autrice del testo che prende liberamente spunto dai veri fatti, mediante una spericolata rifrazione dell'episodio attraverso punti di vista diversi.
Sette personaggi circondano l'evento nella sua brutale immediatezza e ne riflettono frammenti di luce acuminata.
Sette: un numero significante, come i colori dello spettro luminoso, come i giorni della settimana che sono anche quelli della creazione. Numero della globalità, ma anche dell'introspezione della capacità di scendere nella profondità del silenzio della terra.
Sintesi di opposti, il sette è il numero in cerca di equilibrio, ma anche, magicamente, simbolo del bisogno umano di perfezionamento.
Considerato dai pitagorici segno si santità, il sette era definito da Platone anima mundi.
Chissà se l'autrice, nell'apprestarsi a lavorare sul copione aveva in mente le complesse simbologie alla base della sua scelta.
Fatto sta che il percorso della narrazione segue (forse anche per ragioni antropologiche che spesso sfuggono alla volontà di chi scrive), questa limpida progressione dolorosa che si magnifica poi nella scelta di assegnare tutte e sette le voci a un solo attore. Una donna per di più.
Il montaggio di questi racconti che si intersecano all'inizio in maniera piana, poi via via più convulsa man mano che il racconto entra nel vivo, non segue un andamento cronologico, ma avanza per libere associazioni interne in un gioco di incastri e di libera circolazione del materiale che è più musicale che strettamente narrativo.
Il risultato è una composizione dal sapore quasi cinematografico che obbliga l'attrice a un complesso tour de force.
Da una parte, ella deve riuscire a classificare ogni personaggio in maniera essenziale e immediatamente riconoscibile, anche in considerazione del fatto che il passaggio da un ruolo all'altro tende ad essere fluido, quasi sempre in legato: cosa ce diventa improba nel momento in cui i segmenti dei singoli personaggi tendono a diventare brevissimi e a ridursi, soprattutto verso la fine a pochissime parole.
Dall'altra parte è obbligata a una gestione dello spazio convulsa all'interno di una scena che si accontenta della scatola nera e di un solo elemento di scena, una sedia che permette, però, di lavorare su più livelli e altezze.
La scelta del regista David Connelly dell'Atticrep (Texas), all'interno di un progetto universitario, è quella di indossare il testo come un guanto, seguendone e assecondandone l'andamento con un uso sobrio e mai invasivo di luci e musica. Una regia essenziale che permette di riverberare in una drammaturgia dello spazio, quello che nel testo è un complesso gioco di specchi.
L'intero gesto registico poggia, infine, sulla performance di Sarah Gise, un'interprete giovanissima ma già matura.
Gise entra con straordinaria empatia in tutti i singoli personaggi riuscendo a giocare con la simpatia di Velda (bambina di appena sei anni che si presenta in scena raccontando la difficoltà di scrivere le lettere dell'alfabeto) o di Carol (la moglie dell'attentatore dilaniata e divisa tra la rabbia del suo essere moglie dell'assassino e la disperata consapevolezza di non riuscire nonostante tutto a smettere di amarlo).
In questo modo alla limpidezza del gesto registico corrisponde la messa in profondità del gesto attoriale in un'ennesima ricerca di impossibile equilibrio tra gli opposti dell'orrore e della luce del perdono che permette al testo di mantenere intatta la sua visione problematica e di offrirsi al pubblico come questione aperta, da dibattere e da assorbire.
E se il finale concede allo spettatore la visione di una luce mistica e divina, il riaccendersi delle luci in sala ci riporta al nostro presente di confusioni e incertezze.
Nella consapevolezza che, se una strada c'è per trovare il perdono, essa resta però irta di spine che lacerano e feriscono. Perché il sette, in fondo, è anche il numero delle ultime parole del Cristo sulla croce.

(The Amish Project)
Drammaturgia: Jessica Dickey
Regia: David Connelly
Produzione: Atticrep (Texas)



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