Non so a voi, ma a me capita assai di rado di apprezzare un film del quale non sopporti i protagonisti. Devi essere davvero molto molto bravo per scrivere personaggi odiosi e però allo stesso tempo essere capace di farti provare per loro un interesse, una curiosità, un sentimento più complesso della semplice riprovazione o del rifiuto.
Spesso, personaggi che ritenevo insopportabili mi hanno fatto chiudere i battenti di fronte a storie che invece magari avevano anche i loro motivi di interesse: perché quell'antipatia che suscitavano in me non era in grado di risultare utile e funzionale, a quelle stesse storie. E la storia non era in grado di fare da ponte con quei personaggi e le loro psicologie.
Gritt, opera prima della regista norvegese Itonje Søimer Guttormsen, presentata in concorso al Festival di Rotterdam 2021, è invece un film che è capace di questo piccolo miracolo. Ma che non esaurisce in questo il suo interesse.
Gritt è il nome con cui la protagonista del film (una bravissima Brigitte Larsen) si fa chiamare. In realtà si chiama Gry-Jeanette, ma sembra pensare che Gritt sia più adatto al suo temperamento artistico: in realtà, si tratta del primo e più elementare indizio di un velleitarismo che sta sempre a cavallo tra l'irritante e il patetico, la fremdschämen e la speranza che qualcuno le dia una bella sberla (metaforica, s'intende) per farla ragionare un po'.
Dopo aver vissuto a Los Angeles e Berlino, nella speranza di poter far carriera come attrice, Gritt è tornata a Oslo, dove frequenta il giro del teatro, è invidiosa di un'amica attrice down (che secondo lei lavora solo in quanto diversamente abile, e non per altro), e cerca con una testardaggine ingenua e imbarazzante di trovare il suo spazio sulla ribalta. Tanto più che, in America, l'incontro con un gruppo di giovani attori del Living Theatre l'ha convinta che la sua vera strada è quella delle performance: e la sua idea di performance è una cosa non meglio specificata che si chiamerebbe "The White Inflammation" e che vorrebbe svelare le ipocrisie capitalistiche e patriarcali delle società scandinave, e dell'Occidente in senso lato.
Ma le sue idee al riguardo sono, appunto, vaghe e nebuolose. E se trova ospitalità come stagista tuttofare presso un teatro artaudiano di Oslo (il "Teatro della crudeltà", non si rassegna all'idea di non poter realizzare pienamente il suo talento artistico, e nella speranza di farlo racconta balle, millanta credito, ruba e ricicla idee, s'imbarca in giochi e doppi giochi con amici e conoscenti che spingono a mettere in dubbio - prima noi, gli spettatori, e poi la stessa protagonista - la sua sanità mentale.
Chi è, davvero, Gritt? Una frustrata che ha perso l'equilibrio psicologico? Una ragazza un po' poco intelligente che non capisce i suoi limiti? O qualcuno che soffre perché sa di aver davvero qualcosa di valido dentro da esprimere, ma che non trova la via per farlo, circondata invece dall'apparente facilità con cui gli altri fanno le loro cose, spesso altrettanto sbilenche o banali quanto le sue?
La risposta del film a questi quesiti è sfumata. La risposta, forse, è che non importa nulla della verità su Gritt. Importa il suo dilemma. Il suo dramma. Che per quanto irritante, non può non finire col coinvolgere e perfino spingere verso una comprensione razionale e perfino un'adesione emotiva.
Anche perché, mescolando i toni e i registri, utilizzando echi di molti degli autori più o meno esplicitamente citati (Ibsen e Artaud su tutti, ovviamente), Itonje Søimer Guttormsen non ritrae al vetriolo solo la velleitaria Gry-Jeannette, ma tutto l'ambiente teatrale e artistico "alternativo" (femminismo lilithiano compreso) all'interno del quale tenta di circolare nel disperato tentativo di farsi accettare, di vedere riconosciuto il suo presunto talento, la sua non meglio specificata visione.
Gritt è un oggetto ruvido e contraddittorio. Un film spigoloso, frastagliato, pieno di ombre, inafferrabile. Ed è terribilmente affascinante.
Supportata da un team composto da ben cinque direttori della fotografia, capitanati da Patrik Säfström, e da una gran bella colonna sonora di Erik Ljunggren (uno che ha suonato con gruppi come Seigmen, Vampire State Building, Zeromancer e Satyricon) Itonje Søimer Guttormsen tiene la macchina da presa costantemente incollata a Gritt, alla sua febbrile e fragile determinazione, svelandone le nevrosi anche fisiche, e lo sguardo pieno di astio, di esaltazione e di terrore. Il suo stile ricorda quello del Dogma vontrieriano, ma paradossalmente privo degli stessi sberleffi (agli) intellettualoidi, dove ai primi piani sulla protagonista si alternano sguardi capaci di perdersi nei panorami delle città e della natura, alternando claustrofobia e una sottile minaccia agorafobica, tenendo sempre lo spettatore in tensione.
L'escalation dell'ansia velleitaria di Gritt la porterà verso derive distruttive e autodistruttive, che seguiremo con passione: perché le sue velleità, la sua ansia, l'anarchia che incarna e le contraddizioni che rappresenta, il suo rapporto dipendente e masochista con un sistema effimero ed escludente, portano avanti un discorso che non riguarda solo lei ma che toccano l'individuo contemporaneo, e che riguardano anche uno specifico femminile che si fa principio di disordine per la costruzione di qualcosa di nuovo.
La pace rasserenante che la protagonista sembra trovare nella parte finale del film, quando si rifugia in un'isolata casa dei boschi, è costantemente borderline con la possibiltà di una scivolata definitiva e folk-horror della protagonista.
Così, quando Gritt si chiude con un finale aperto, apertissimo, resta la curisità di sapere dove Itonje Søimer Guttormsen - che ha dichiarato di voler continuare a raccontare quel personaggio, nato in un corto antecedente a questo suo esordio nel lungo - si farà condurre da lei, e dove condurrà nuovamente noi.
Quel che è certo è che il mondo del cinema art-house e del circuito festivaliero ha trovato in questa regista norvegese qualcuno da tenere sempre ben d'occhio, capace di scardinare le convenzioni di un cinema troppo spesso altrettanto codificato e stereotipato di quello commerciale, e di riempire le linee di frattura che ha creato con la sua azione con materiale fresco, provocatorio e innovativo.
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