Il dialogo con la morte è anche un dialogo con la vita. Mario Balsamo è un documentarista attento e sensibile, che in passato ha dialogato con la malattia, la propria, in Noi non siamo come James Bond, presentato nel 2012 al Torino Film Festival, dove vinse il premio della giuria presieduta da Paolo Sorrentino. Tre anni dopo ha bissato in competizione con Mia madre fa l’attrice e quest’anno ritorna con In ultimo, in cui parla di chi “lascia un testamento spirituale”, attraverso storie di cinema, quella di alcuni degenti ricoverati nell’Hospice Anemos di Torino, una delle poche realtà che nel nostro paese si occupano di accompagnare alla morte malati terminali.
Protagonista di In ultimo è il medico palliativista Claudio Ritossa che, con grande empatia, svolge il suo lavoro nell’Hospice Anemos di Torino. "Qui, con umanità e dedizione, accompagna i pazienti nel delicato tratto finale della loro vita, alleggerendo il peso dell’imminente dipartita grazie anche al sostegno spirituale che riesce a infondere una lieve serenità”. Attraverso il suo sguardo, Mario Balsamo esplora il tema della morte come “parte integrante del ciclo della vita, in parallelo a quello emblematico delle piante, di cui il medico è appassionato cultore. La narrazione, grazie alle voci dei testimoni, celebra il valore delle cure palliative e si muove all’interno di un dialogo intenso tra i degenti e le persone che li assistono”.
Come ha detto Balsamo, che abbiamo incontrato a Torino, “sono storie fortissime, che emergono liberamente, non ho fatto interviste ma ho lasciato il medico parlare senza interventi, con la macchina sempre su cavalletto all’interno, in modo da essere invisibili, mentre fuori con camera a spalla, con una dinamica diversa. Emerge da queste storie un apprezzamento nei confronti di strutture che in Italia purtroppo sono ancora scarse. In quel luogo che accoglie i malati terminali c’è molto di inaspettato, un pieno di cose che ha a che fare proprio con l’esistenza. Lì più che altrove si percepisce la morte non in contrapposizione alla vita, bensì come sua parte. Se ci si pensa, il termine della Corsa può essere l’occasione per fare un bilancio della propria esperienza terrena: cosa ho fatto di cui sono soddisfatto? Di cosa no? Che lascio alle persone care delle mie azioni, dei miei valori, delle mie conquiste?”
In ultimo è un viaggio rispettoso e toccante in una fase di confine fra vita e morte, raccontato al ritmo della natura e del battito del cuore indebolito e in cerca di serenità di alcuni pazienti che diventato personaggi divisi fra consapevolezza e paura, serenità e desiderio di lasciare un’eredità soprattutto spirituale. Come mai proprio l’Hospice Anemos? Così risponde Balsamo, “ne ho viste molte di strutture ben funzionanti, particolarmente in Piemonte, ma lì ho trovato subito un’empatia molto forte, forse inizialmente anche per il nome che rimanda al soffio, quello che con la morte prosegue seppure trasformato. Amo il vento, verso il quale ho un rapporto molto singolare e lì ogni stazna porta il nome di un vento. Una cosa molto bella, con una laicità che non esclude assistenza religiosa di tutti i tipi per chi la voglia. Mi sembra un’occasione in cui il giuramento di Ippocrate venga messo in atto pienamente, attraverso una cura intesa a ogni livello, spirituale, psicologico e fisico. Ben consapevoli che non ci possa essere accanimento, che per me disattende il giuramento. È un tema molto importante questo per la nostra società”.
Un tema anche delicato, che aveva bisogno per essere raccontato di una persona come Claudio Ritossa, secondo Balsamo, “che avesse un respiro esterno come lui, anche se non pienamente consapevole, da appassionato di giardinaggio e fiori. Subito mi si è accesa la lampadina nell’avvicinare il ciclo delle piante, in un tempo contingentato, a quello della vita. Anche le piante si ammalano. In ultimo mi ha permesso di lavorare senza limiti, mai capitata tanta libertà. Gli unici limiti erano legati alle autorizzazioni dei degenti, ma tutti hanno aderito subito, compresi i parenti. Si sono resi conto di quanto fosse importante dare visibilità a strutture come questa. In Noi non siamo come James Bond raccontavo la malattia mia e del mio amico Guido, usando sempre una chiave di sdrammatizzazione. La cosa che più ci stuccava era la retorica del pianto, siamo riusciti a non dare questa impronta al film, privilegiando un atteggiamento di resilienza nel vedere come la malattia possa dare l’opportunità di vivere più intensamente. Io non ci riesco tutti i giorni, ma di sicuro questi testimoni sono stati un faro che hanno diffuso una luce ancora più luminosa, hanno mostrato fortissima resilienza, proprio loro che sono proprio agli sgoccioli. Una delle pazienti, Angela, è perfettamente consapevole che ha pochi giorni di vita e racconta come dopo due tumori ne sia arrivato anche un terzo e che avevano detto con precisione che sarebbe morta in una specifica data, un anno prima, a ridosso del suo compleanno. Allora aveva mandato il figlio a prendere una torta per mangiarsela insieme. Una sorta di pacificazione, un faro di saggezza che dice che la vita non è tutta nera c’è il rosa, il celeste. Ci ha dato un grande insegnamento".
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