Una volta li chiamavamo semplicemente universi paralleli, o mondi alternativi. Che, d’altronde, sono stati uno dei temi più sfruttati ed esplorati dalla fantascienza, in letteratura come al cinema, dalla più o meno dalla metà del Novecento in avanti.
Oggi, grazie anche ai cinecomic della Marvel, sappiamo usare parole più esatte, e un linguaggio più specifico, e sappiamo che quella cosa lì, tecnicamente, si chiama multiverso. Un qualcosa che, guarda un po’, è nato prima dalla fantasia degli scrittori e solo successivamente - la prima volta, in termini scientifici rigorosi, nel 1957 da da Hugh Everett III - dagli scienziati.
Ma che, dal punto di vista scientifico, i multiversi nascano dalla teoria quantistica, da quella delle stringhe o da altre complicatissime teorizzazioni, quello che conta, per noi, è che mai come oggi il multiverso è protagonista del cinema mainstream.
Esempi ce ne sono sempre stati, ma la vera grande spinta verso il multiverso è arrivata a cavallo del cambio di millennio, e quindi con l’esplosione della cultura digitale, con film come Strade perdute o Sliding Doors prima, e Donnie Darko, Star Trek e Source Code poi. Fino ad arrivare, appunto, al multiverso marveliano che permette, per fare un facile esempio, la compresenza sullo schermo dei tre Spider-man di Tobey Maguire, Andrew Garfield e Tom Holland.
Non sarà allora un caso se i fratelli Anthony e Joe Russo, ovvero i registi di due dei Capitan America e dei due ultimi capitoli degli Avengers (Infinity War e quell’Endgame nel quale il multiverso è indirettamente menzionato) sono i produttori di Everything Everywhere All At Once, il film scritto e diretto dai Daniels (al secolo, Daniel Kwan e Daniel Scheinert) che applica la spettacolarità cerebrale del multiverso a una situazione di partenza che di supereroico, fantascientifico o speciale, all’apparenza, non ha nulla.
Al contrario, nel caos niente affatto creativo della vita di Evelyn, la protagonista interpretata dalla leggendaria Michelle Yeoh, nell’affastellarsi di mille problemi e mille impegni e mille insoddisfazioni, dalle fatiche del lavoro in una lavanderia a gettoni a un divorzio incombente voluto dal marito Waymond, passando per un rapporto conflittuale con la figlia e con un padre rigidissimo e anziano, è facile ritrovare tanti elementi comuni alle vita di molti di noi.
E però, ecco che durante una visita a quella che da noi si chiama l’Agenzia delle Entrate, e un colloquio con una pedante agente del fisco, che ha le fattezze di una sorprendente e quasi irriconoscibile Jamie Lee Curtis, ecco che Evelyn si trova di fronte a qualcosa di straordinario, alla visita da parte di un Waymond alternativo, proveniente da un universo parallelo, che gli aprirà le porte di infiniti mondi e infinite realtà parallele per farla diventare l’eroina che deve cercare di salvarli dalla distruzione per mano di un’entità malvagia.
Saranno gli uffici, sarà la trasformazione di un mondo comune in qualcosa di straordinario, sarà questo saltare da una dimensione all’altra guidati da un team di scienziati vagamente cyberpunk, sarà, soprattutto, l’uso diffuso del kung fu e di uno stile visivo spettacolare, e di un’estetica tra il rétro e il futuribile, ma ecco allora che Everything Everywhere All At Once mostra tutto il suo palese omaggio a quella saga che forse più di tutte ha impresso il suo marchio nel cinema del nuovo millennio: quella di Matrix. Dove, a ben vedere, di realtà e universi paralleli, sebbene in modo assai personale, si parlava eccome.
Sono gli stessi Daniels a confermare questa influenza, associandola a quella di un altro celeberrimo film del 1999: “Abbiamo visto Matrix e Fight Club al New Beverly e mi sono innamorato nuovamente di quei due film”, ricorda Kwan. “Ho pensato: ‘Cavolo, se potessi fare qualcosa di anche remotamente simile a Matrix, ma con il nostro stile e il nostro spirito, potrei morire felice’.”
In un film nel quale la protagonista salta tra universi che sono stati generati da ogni singola scelta fatta da ognuno nel corso della propria vita, passando bruscamente dalla banalità e la monotonia della sua esistenza, allo sfarzoso nascondiglio del cattivissimo e distruttivo Jobu Tupaki, dalle luci abbaglianti dei red carpet di Hong Kong a un canyon deserto in cui delle rocce senzienti si confidano l’una con l’altra, fino a un mondo in cui gli esseri umani hanno hot-dog al posto delle dita, e in un film dove il sovraccarico di immagini, temi e dettagli e riferimenti è strutturale, e simile a quello di opere come “History of Rise and Fall” dell'artista Ikeda Manabu, ecco che i riferimenti cinematografici sono comunque quasi infiniti, andando da 2001 Odissea nello spazio a Ratatouille, passando per In the Mood for Love, il pop anni Ottanta incarnato da protagonisti come il James Hong di Grosso guaio a Chinatown e il Ke Huy Quan che fu in Goonies e Indiana Jones e il tempio maledetto, e tantissimi altri titoli.
Ma tutta questa sovrabbondanza, tutto il fare del multiverso “una divertente metafora di internet”, tutto il ricondurre la trama verso basilari sentimenti umani e legami familiari al netto di una spettacolarità dilagante, è costata solo 25 milioni di dollari, grazie all’esperienza dei Daniels, accumulata ai tempi del loro lavoro come registi di videoclip musicali. Il che fa risaltare ancora di più un incasso globale che, a oggi, è arrivato a superare i 100 milioni di dollari.
Incasso che fa il paio - e non è scontato, lo sappiamo bene - con un consenso critico quasi unanime, con un 95% di recensioni positive conteggiare su un totale di 344 pezzi dal noto aggregatore Rotten Tomatoes.
from ComingSoon.it - Le notizie sui film e le star https://ift.tt/RByjztf
via Cinema Studi - Lo studio del cinema è sul web
Nessun commento:
Posta un commento