L'Ottava Sinfonia di Anton Bruckner, Mariss Jansons e l'Orchestra della Radio Bavarese, ovvero uno dei più grandi monumenti sinfonici della tradizione austro-tedesca post-beethoveniana, uno tra i più grandi direttori viventi, e quella che molti intenditori considerano la migliore orchestra del mondo: questo ha potuto mettere insieme, al Teatro alla Scala di Milano, la Fondazione Umberto Veronesi per festeggiare quello che sarebbe stato il 92mo compleanno del glorioso oncologo, e raccogliere fondi per la ricerca contro quei tumori che ancor oggi falcidiano vite umane in piena fioritura. Una festa musicale di livello eccelso, ma soprattutto un'occasione culturale ghiottissima: verificare la vision bruckneriana di un immenso direttore come Jansons, splendidissimo interprete mahleriano, moderno riferimento per Beethoven, e scintillante novecentista. Vero è che Bruckner si è da sempre distinto come autore congeniale a pochi interpreti, capaci di smorzare il tasso di umanità e carnalità misurabile in ognuno dei grandi sinfonisti del tardo Ottocento, e di azzeccare la dose di metafisica necessaria per conservare alle sue complesse architetture musicali qualità di corrispondenze sonore e volumetriche tra gli immisurati e immisurabili spazi dell'anima, proiettata sull'abisso di angosce esistenziali superate con l'estatico abbandono nell'armonico incastro della musica. Ecco, va detto che questa estasi metafisica, cifra fondativa delle letture di Karajan, declinata magari con la sensualità angelicata di Nézet-Séguin, oppure consustanziata dell'idea pura di musica, come nelle esecuzioni di Celibidache, era, nella serata scaligera, completamente assente: il Bruckner di Jansons, e del suo formidabile strumento bavarese, è umano, forse ‘troppo umano', nella scansione di un discorso musicale che parla la lingua dei sentimenti comuni a tutti le umane creature, secondo la quale il dolore, la malinconia, la tragedia, la nobile affermazione di una vittoria indiscutibile, hanno i tratti dei moti dell'animo di un uomo normale, di un eroe borghese, del protagonista in carne e ossa di un romanzo, o di un film. I celebri crescendo bruckneriani non sono, con Jansons, accumuli progressivi di idee programmati secondo un ordine sovrannaturale ad abundantiam, ma il montare di emozioni che, imprevedibili, gonfiano il cuore fino al clangore di un colpo di piatti, inevitabile risoluzione di un'evoluzione naturale non gestita dalla fede in Dio ma dalla fiducia nell'Uomo. Forse, questo Bruckner più umano e meno siderale, nell'avvicinarcelo perde qualcosa del suo miracolo e del suo mistero, e suona come un'alternativa a Brahms scritta però grossolanamente e con meno felicità di invenzione. La parossistica marcia trionfale conclusiva non squilla come il conseguimento di un cosmico e luminoso trionfo della fede sul caos, ma come la vittoriosa affermazione di un eroe che, insieme a noi che abbiamo ascoltato, ha sudato e si è ferito combattendo nella terra nuda, lontano da qualsiasi ipotesi di eventuale e plausibile ‘disegno divino'.
Ma la festa è stata grande, e si è lasciato il teatro con le immagini di orchestra e direttore tra il divertito e l'infastidito per quei lanci a sorpresa di fiori dal loggione, corredati di scenografiche ma un po' rumorosamente cafoncelle salve di coriandoli. Da registrare tuttavia l'enorme successo, raro per un'esecuzione di Bruckner in territorio italiano, e l'interminabile battimani che ha obbligato Jansons ad uscire di nuovo tutto solo sul palcoscenico per raccogliere consensi e applausi quando per la maggior parte i professori d'orchestra erano già tutti tornati nei propri camerini...
Anton Bruckner Sinfonia n.8 in do minore; Symphonie Orchester des Bayerischen Rundfunks, direttore Mariss Jansons; Serata a favore della Fondazione Umberto Veronesi; Milano, Teatro alla Scala, martedì 28 novembre 2017
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