“Tutti moriamo e rinasciamo tante volte”. E L’immensità, per Emanuele Crialese, rappresenta senz’altro una rinascita, il film che avrebbe sempre voluto fare, forse “il motivo stesso per cui ho iniziato a fare cinema”. A undici anni da Terraferma, il regista torna con una storia autobiografica che è anche un omaggio alla sua infanzia, alla donna come madre. Una storia di formazione in cui Penelope Cruz è protagonista assoluta, che viene presentato oggi in concorso al Festival di Venezia. Ne ha parlato con alcuni giornalisti italiani con emozione e una generosità non comune, in cerca di condivisione, che coinvolgerà il pubblico dal 15 settembre, distribuito da Warner Bros. Pictures.
L’immensità, scritto da Emanuele Crialese con Francesca Manieri e Vittorio Moroni, è prodotto da Mario Gianani e Lorenzo Gangarossa per Wildside, una società del gruppo Freamntle. Nel cast, oltre alla Cruz, anche Vincenzo Amato, Luana Giuliani, Patrizio Francioni e Maria Chiara Goretti. In una Roma anni ’70 Adriana ha 12 anni, un fratello più piccolo e una sorellina che subiscono le tensioni fra i genitori. Ha un rapporto speciale con la mamma, Clara, "rifiuta il suo nome, la sua identità e vuole convincere tutti di essere un maschio”.
È sempre stato il suo prossimo film, come ha raccontato. “Tre anni fa mi sono trovato con un mio grandissimo amico, Alejandro González Iñárritu, anche lui in procinto di fare un film personale, dopo che l’aveva fatto Alfonso Cuaron. Ci siamo confessati che l’autobiografia è un’impresa di smascheramento che ci impauriva. Una maschera, in una rappresentazione, aiuta a trasformare le cose in simboli. Se non utilizzo materiale di qualcuno, ovviamente devo produrre qualcosa che viene da dentro di me, è necessariamente autobiografico. I temi che mi appassionano sono sempre quelli: la donna, i bambini, la migrazione, la transizione. Poi invento storie per raccontare quelle situazioni. Ho dovuto aspettare, per acquisire consapevolezza di me, del mio percorso, del linguaggio cinematografico. Le cose bisogna raccontarle quando si sa parlare, si è capace di esprimersi. Questa storia per me ha rappresentato una rinascita”.
In questo viaggio, un ruolo cruciale è quello materno di Penelope Cruz. “Per me è l’archetipo della donna, della madre, dell’amante. È Penelope in senso mitologico, e ogni volta che la filmo mi sento Ulisse, cioè nessuno, nel senso più nobile. Ogni giorno cambio. Nelle lunghe giornate di prove che prevedo sempre, in cui siamo stati insieme sopportando la frustrazione della noia, cucinando e chiacchierando, lei è stata bravissima con i tre bambini. La vedevano come una dea, ma è entrata subito in confidenza. Loro poi hanno capito tutto, anche se non gli avevo spiegato niente. È stato magico vedere come siamo capaci di comunicare a livelli non verbali. Il linguaggio è molto importante. C’è molta confusione, anche sul discorso dell’identità. I bambini hanno bisogno di nuove parole, per identificarsi, parlare di loro di, come sta cambiando il mondo. Si sono scocciati del maschio e della femmina, termini usati solo per rassicurare gli adulti. Fosse per loro, vi direbbero, ’sono come sono oggi o domani, sono quello che è davanti a te. Non ti basta?’. Possiamo trascendere finalmente le classificazioni darwiniane evolutive? Prima dell’uomo e della donna ci sono gli esseri umani. I bambini ci dicono questo, vogliono scardinare un sistema, indicandoci un percorso fuori dagli schermi. E noi dobbiamo seguirli”.
I personaggi femminili sono da sempre al centro delle storie raccontate da Emanuele Crialese. “La donna per me è la parte migliore dell’uomo che sono. Non è rinnegata, è viva dentro di me, l’oggetto dei miei desideri che ascolto più volentieri. È un campo di battaglia, il corpo della donna. Dà la vita, allatta, sa rinunciare e sacrificarsi. È altro, è di più. È molto difficile per me descrivere un uomo, principalmente per questioni di noia. So che qualcuno dirà, ‘e allora tu?’ Io sono e non sono e voglio rimanere così. Essere e non essere. Spero di non minacciare nessuno. Sono un uomo come gli altri o una donna come le altre? No, sono io".
Adriana ha un rapporto complice con la madre, esclusivo. “È un omaggio alla donna che mi ha creato. La grande difficoltà spesso è della madre. Io sono figlio del mio tempo, immaginate una donna senza libertà, che deve affrontare una questione come un figlio che non si sente rappresentato dal suo genere. Io mi nascondevo, e lei insieme a me. Mi stata vicino, ha vissuto con me l’immensità. Un amore come quello materno è una benedizione, una grazia. Non è paragonabile a nient’altro. Le famiglie oggi sono molto cambiate, per fortuna. Bisogna sostenerle, non pensando al singolo bambino, ma a chi deve gestire questo desiderio di rinascere, di ridarsi vita. Saranno loro a sostenere poi i ragazzi. Mia madre all’epoca era sola, non sapeva dove sbattere la testa. Per cambiare la A con la E io ho dovuto lasciare in pegno un pezzo del mio corpo. La società altrimenti non me lo permetteva”.
Sulla dimensione fiabesca di questa storia, con i bambini a cui viene detto di evitare un canneto appena sotto il loro palazzo, in un quartiere in costruzione, Crialese aggiunge, “La casa è una navicella sospesa nel tempo e nello spazio, dove tutto si sta costruendo intorno. È il corpo della famiglia, l’interno è il cuore. Come si vivono le relazioni quando il cuore è malato, manca l’amore, o è finito? Gli abitanti si domandano da dove vengono, dov’è l’amore? I bambini cercano, ognuno a suo modo, attraverso le trasformazioni del proprio corpo, di trovare un senso e, inconsciamente, di attirare l’attenzione dei genitori. Quel canneto rappresenta un labirinto che divide persone di classe sociale molto diversa. Nella mia immaginazione è un luogo del non compiuto, della fuga e della libertà. In cui non c’è un corpo, se non delle case che potrebbero volare via in qualsiasi momento. La libertà è sempre una conquista, si rinnova ogni giorno. Quel labirinto è il percorso che porta a famiglie che probabilmente si amano. Non voglio dire che le famiglie povere siano migliori di quelle ricche, ma in qualche modo lo suggerisco. Spesso dove c’è poco, c’è molto di più. Intorno c’è Roma, un paesaggio metafisico e irraggiungibile. Amo gli spazi aperti, i cieli, il sole, sentire il passare del tempo mentre giro, avere a che fare con degli elementi che non controllo. Con L’immensità, invece, mi sono trovato per la prima volta a girare per molto tempo in uno spazio chiuso, in cui controllavo il tempo. Un’idea che non mi piaceva, avevo paura di non sentirmi a mio agio. Invece, con tutto quel controllo, ma con tutta quell’intimità, mi sono sentito nel mio corpo, bene. Gli interni sono una riproduzione esatta di casa mia, con un corridoio che divideva la stanza nostra da quella dei genitori. Era come un cannocchiale, avvicinandomi e allentandomi potevo cambiare le prospettive. È stata forse la mia prima esperienza con delle ottiche”.
Le immagini e le canzoni di Raffaella Carrà hanno un ruolo importante nel film. “Per me è una delle figure più importanti di donna. Aveva uno stile rimasto fedele a sé stesso per anni, pur cambiando, sempre con grande empatia e curiosità. Per me è un’icona. Abbiamo iniziato le riprese con un balletto che si vede nel film, in cui Penelope è impegnata in Rumore, imitando la Carrà. Lei è una grande fan, da piccola la ballava e cantava. Ce lo raccontavamo, e la mattina del secondo giorno ci siamo detti che sarebbe stato bello incontrarla. Poche ore dopo è arrivato il produttore, Mario Gianani, di solito sorridente, con una faccia scura. Raffaella era morta. Scusate se sono esoterico, ma quella scena l’abbiamo fatta con lei. Lei c’era e c’è. È una situazione che ha fatto partire il film con una strana sincronicità. L’immensità racconta cosa succede quando non abbiamo un limite. Cosa ci facciamo della libertà se non abbiamo dei legami? Senza argini, un obiettivo da raggiungere di volta in volta, il corpo si disperde. Non siamo nati per vivere nell’immensità, siamo mortali”.
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