Everett e Faye, i protagonisti di The Vast of Night, piccolo ma impedibile film disponibile su Amazon Prime Video, parlano tantissimo. Parlare, d’altronde, è il loro lavoro.
Lui è il giovane dj della radio della loro cittadina, Cayuga, meno di 500 anime nel nulla del New Mexico degli anni Cinquanta: è spavaldo, sicuro di sé, ha la lingua lunga e affilata, un cardigan e degli occhiali alla Buddy Holly. Mi ha ricordato il Richie Tozier di It, anche se in fondo c’entra poco, e anche non ha né otto anni né trentotto, e arriva a malapena ai venti. E però, tanto basta per poter parlare di un vago sentore kinghiano.
Lei, sedici anni, liceale col pallino della scienza e delle riviste che raccontano come potrebbe essere il futuro - tra auto che si guidano da sole e telefoni che puoi portare sempre con te e che hanno come uno schermo televisivo con cui poter chiamare chiunque - lavora part time al centralino telefonico della città. Ha occhiali a farfalla, la gonna e la coda di cavallo, e ha un nuovissimo registratore che vuole utilizzare per imparare, da Everett, a fare la radio.
S’incontrano all’inizio del film nella palestra dove la squadra di basket del liceo cittadino sta per giocare la prima partita del campionato, e dove tutta la popolazione si è riversata. S’incontrano, e parlano, e camminano, perché Everett ha l’argento vivo addosso, e lei lo segue adorante, e lui le mostra come usare il registratore e le insegna a intervistare le persone che incontrano mentre entrambi si recano al lavoro, mentre la notte avvolge Cayuga.
Poi, però, saranno altri a parlare. Perché mentre Faye è al lavoro, sente strane interferenze audio provenire dal suo centralino, e dalla radio con cui ascolta Everett; sente chiamate interrompersi bruscamente, e ne riceve altre che parlano di eventi misteriosi. E allora Everett manda in onda quei suoni strani, chiedendo al suo pubblico se sa di cosa si tratti, e le risposte che arrivano saranno risposte in grado di accendere in loro curiosità irrefrenabili e di cambiare le loro vite.
Girato con due spicci e tante idee, e soprattutto molto talento, The Vast of Night è tante cose assieme. È un film piccolo, minimalista, vintage, lo-fi. È un film sugli UFO, eppure non lo è. È fantascienza, è mystery, è giallo, eppure nessuna di queste cose pienamente. Ricorda film come Incontri ravvicinati del terzo tipo, Talk Radio, Berberian Sound Studio, eppure ne è lontanissimo; se non per il racconto di un'ossessione. È un film sulla parola, sull’ascolto, sul potere della radio, sulla seduzione che passa per l’udito, sulle sirene di Ulisse e il loro canto. Sulle voci marginali che raccontano la verità.
Un film sulla magia e il potere del cinema.
James Montague e Craig W. Sanger, sceneggiatori, hanno scritto un copione pieno di dialoghi scoppiettanti e modernisti, con un attento lavoro filologico sul gergo giovanile degli anni Cinquanta, che catturano e seducono. Li hanno alternati, man mano che Everett e Faye rimangono senza parole, a due lunghi monologhi ipnotici e inquietanti affidati a altri personaggi: un uomo nero, e una anziana donna bianca.
Andrew Patterson, esordiente, autodidatta, uno che ha a quanto pare imparato a fare il cinema guardando e riguardando i film di David Fincher (e si vede), mette in scena il copione con una sicurezza mai arrogante, e con un virtuosismo mai eccessivo fatto di lunghi piani sequenza in movimento alternati a lunghe inquadrature fisse sullo stesso personaggio e sulle sue parole, gestendo al meglio il montaggio, il sonoro e la recitazione degli attori.
Jake Horowitz e Sierra McCormick sono bravissimi nei panni di Everett e Faye, e lo stesso vale per Bruce Davis e Gail Cronauer, capaci di sostenere i loro monologhi senza esitazioni, catturando magneticamente l’attenzione degli spettatori.
Si potrebbe, volendo, essere puntigliosi e sottolineare come il dialogo tra Everett e Faye che tira in ballo gli smartphone a venire (e dove Everett bolla quella previsione del futuro come la meno probabile tra le tre esposte da Faye) sia una strizzata d’occhio non necessaria. E che, inserita in un contesto meno solido, avrebbe rappresentato una crepa capace alla lunga di far andare in pezzi l’illusione del racconto. Ma il contesto, come detto, è solido.
Tanto da reggere perfino quel che accade nel finale, e di dargli anzi una potenza romantica e misteriosa che non stona affatto col resto, né con la cornice da pseudo-Ai confini della realtà in cui Patterson - il cui nome, nei credits, non appare nemmeno - ha voluto incastonare il suo film.
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