venerdì 22 maggio 2020

Jane Eyre - la recensione del film di Franco Zeffirelli dal romanzo di Charlotte Brontë


Charlotte Brontë pubblica nel 1847 quello che è il suo secondo romanzo, Jane Eyre, con lo pseudonimo di Currer Bell. Il titolo completo della prima edizione del libro della maggiore e più “longeva” (morirà a 38 anni) di figlie di un pastore anglicano, con Anne ed Emily, che diventeranno le più famose scrittrici dell’epoca vittoriana, è Jane Eyre: Un’autobiografia. Il libro infatti è raccontato in prima persona e racchiude alcune delle esperienze dell’autrice in forma romanzata, come ad esempio quella di governante e insegnante, e di alunna in una severa scuola religiosa le cui durissime condizioni di vita mineranno per sempre la sua salute e quella delle sorelle. Jane Eyre è la storia dell'emancipazione e della crescita, attraverso molte difficoltà, di un'orfana lasciata alle cure di una cattiva matrigna, la cognata del padre. L’incipit non è diverso da quello di altre storie di formazione dell’Ottocento, da David Copperfield a Oliver Twist, ma Jane è una donna, di una classe sociale che nella vita può aspirare al massimo a una buona posizione di istitutrice in una casa di ricchi, ma che non potrà mai appartenere a quella società. La sua arma di riscatto è l’istruzione e – a differenza degli orfanelli succitati – una forza d’animo e di carattere e un’intelligenza che non ne fanno una facile preda del fato, ma la elevano sulle asperità della vita e le danno una sensibilità unica nel rapporto con un’umanità di cui impara a conoscere e a perdonare le ombre, essenziali come la luce nei ritratti che fin da piccola disegna.

Questa eroina proto femminista è stata portata sul grande e sul piccolo schermo innumerevoli volte, anche se le versioni più famose sono principalmente tre, quella in bianco e nero del 1943 con Joan Fontaine e Orson Welles, intitolata La porta proibita, questo Jane Eyre di Franco Zeffirelli uscito nel 1996 e l'ultimo di Cary Fukunaga con Mia Wasikowska e Michael Fassbender (troppo giovane e bello per il ruolo) del 2011. All'epoca del film diretto dal più internazionale dei nostri registi, la Miramax che lo produsse era stata acquistata dalla Disney nel 1993 ed era diventata, grazie all'apporto dei nuovi capitali, una delle case di produzione più potenti e importanti per il cinema di qualità, sempre sotto la guida dei fratelli Weinstein. Col senno di poi mette un po' i brividi questa associazione tra un'impavida eroina e l'orco che tutti abbiamo alla fine conosciuto, ma soprattutto ci fa chiedere se possa esserci stata un'ingerenza artistica (di sforbiciare) da parte di Harvey Weinstein anche sul film di un regista premiato e famoso come Zeffirelli. Ma forse è un dubbio infondato, visto che nello stesso anno la Miramax fece uscire Il paziente inglese, l'ipertrofico affresco – anch'esso di origine letteraria - di Anthony Minghella che avrebbe vinto 9 Oscar. Al confronto il film di Zeffirelli, che tre anni prima aveva tratto da Giovanni Verga il non eccelso Storia di una capinera, sembra realmente troppo corto, con alcuni passaggi (specialmente il finale) risolti in modo eccessivamente sbrigativo, contrapposto a momenti particolarmente indovinati.

All'epoca delle riprese Charlotte Gainsbourg ha 25 anni e William Hurt 20 di più, il che ne fa una coppia sullo schermo perfettamente indovinata. Specialmente lei, dal volto che ambiguamente appare alternativamente bello e scialgo, di una durezza che nasconde una grande carica passionale, è perfetta nel ruolo dell'eroina della storia e il nascere della passione tra due persone così distanti ma ugualmente ferite è emozionante da osservare. Sono loro gli elementi più a fuoco di una storia costretta a condensare quasi 600 pagine in una serie di quadri, anche molto belli, non sempre ben collegati. Come sua consuetudine, Franco Zeffirelli ricostruisce con grande cura (Visconti docet) ambientazioni e costumi: la location per la bellissima ma decadente magione di Thornfield Hall, Haddon Hall, è così perfetta da venire in seguito riutilizzata in altre due versioni della storia, quella della BBC con Toby Stephen e Ruth Wilson e quella di Cary Fukunaga. Nei suoi lunghi corridoi si cela un segreto a lungo tenuto nascosto e che solo l'arrivo di Jane nel cuore del padrone, Rochester, porta alla tragica luce del sole. La pazza Bertha, la donna a cui l'uomo è stato legato con l'inganno e da cui non può divorziare, è interpretata con grande forza da Maria Schneider: quanto Jane è composta e razionale, tanto lei è preda di una smania omicida e autolesionista, è il doppio oscuro della repressa e repressiva società vittoriana che porta scandalo e rovina. Zeffirelli la dipinge con empatia, e nonostante le sue azioni distruttive non possiamo fare a meno di provare compassione per lei.

Dicevamo della necessità di considerare fatti e sensazioni, nel libro filtrati dalla voce di Jane (che qua arriva solo a suggellare il finale). Anche l'incipit mostra in poche significative scene l'infanzia della protagonista (Anna Paquin, vincitrice due anni prima, a 12 anni, dell'Oscar per Lezioni di piano) ma è un quadro di vita molto riuscito, dove attori come Geraldine Chaplin e John Wood (il severissimo pastore) hanno modo di imprimersi nella memoria. Su tutta la parte che si svolge a Thornfield Hall brilla come una dolce fata madrina la grande attrice inglese Joan Plowright, moglie di Laurence Olivier, che l'amico regista richiamerà nel film successivo, l'autobiografico Un té con Mussolini. Un'altra sequenza molto riuscita è quella degli ospiti che arrivano a Thornfield Hall: anche se tra gli attori si intravede il futuro creatore di Downton Abbey, Julian Fellowes (è il colonnello), questa nobiltà di bassa lega, volgare e brutta, che aspira ai soldi, trancia giudizi e guarda solo e alle apparenze, alla luce della candele appare grottesca e vorace, tutto il contrario dello sguardo affettuoso con cui Fellowes presenterà la famiglia Crawley. Questi sono gli elementi migliori di una versione che non cede (quasi) mai al manierismo di cui il regista resta a volte vittima al cinema, e che lo portano a realizzare un film misurato e una trasposizione accurata nonostante i limiti di cui dicevamo, tra cui una colonna sonora in alcuni momenti ridondante.



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