venerdì 20 dicembre 2019

La Dea Fortuna

In un'estate romana (qualche giorno prima della festa dei Santi Pietro e Paolo, il 29 giugno) dove tutti vanno in giro in sciarpa e giacca, e i bambini già fanno i compiti in casa di pomeriggio, prende le mosse con le immagini riprese da un iPhone alla festa in terrazza di un matrimonio gay, la nuova storia firmata per lo schermo da Ferzan Ozpetek, ufficiale ed ecumenico cantore cinematografico di una gayezza ormai omologata e piccolo borghese parametrata sul modello USA degli omosessuali normalizzati in coppie di fatto, in tutto e per tutto - corna e crisi comprese - identiche a quelle etero: La Dea Fortuna. Ma etero o gay che sia, una storia d'amore, di crisi di coppia, di paternità recuperata, di maturazione di affetti in apparenza sbiaditi dalla routine e dalla stanchezza dell'eros, condita di amicizia, di malattia, di morte, così come la vita, quella vita che intende illustrare con gli etici intenti di una parabola contemporanea, affidata alle mani di Ozpetek finisce sempre col franare miseramente nel fotoromanzo pretestuoso e stucchevole tanto caro a un regista così fortunato e amato da un pubblico non esattamente 'cinefilo', (nessuno si offenda, per carità) ormai abituato a saltare senza accorgersi di alcuna differenza tra la tv nel salotto di casa e il grande schermo di un cinema. Tutto quello che avviene nei film è pretestuoso: un arrivo, una partenza, una morte improvvisa, sono eventi che sembrano verificarsi soltanto per le pure esigenze narrative di un autore che si considera come unico e insindacabile signore e padrone del destino dei propri personaggi, cui impone svolte e twist della trama solo per il gusto di complicarla, e spingerla verso un esito se non prevedibile e telefonato, almeno programmaticamente impostato fin dall'inizio. E tutto secondo la schematica griglia di un'evoluzione dei sentimenti e delle passioni schiacciata sul pedale di una stimolazione emotiva facile e lacrimevole, che mai riesce a diventare tragica, solenne, epica, né tantomeno autentica, spontanea e credibile.

Una navigata coppia di maschi alfa, quelli di cui pullula e trabocca il cinema di Ozpetek, è alla frutta ma non vuole ammetterselo: tradimenti e occasionali scappatelle sono solo il condimento di una situazione affettiva apparentemente consumata ed esausta. All'improvviso piomba in casa loro un'amica dei tempi andati, quando giovani e belli probabilmente ingaggiarono con lei un ménage à trois all'insegna di un'irresponsabile spensieratezza. Nel frattempo lei ha avuto e cresciuto tutta da sola un maschietto timido e introverso e una femminuccia sveglia e spavalda. È a Roma per una serie di esami clinici, e ha bisogno che qualcuno le tenga in custodia i ragazzini per qualche giorno… Il passato torna dunque ad affacciarsi da una finestra che, chiusa per troppo tempo, finalmente riaperta svela in tutta evidenza piccoli e grandi rancori dell'epoca e successive scelte non proprio felici che hanno finito per condizionare la vita di tutti e tre. Come suo solito, il regista illustra con disinvoltura, e questo è senz'altro un bene, la naturalezza di una relazione sentimentale tra uomini, per quanto in crisi, cedendo tuttavia a cliché ormai assimilati come ovvietà perfino da un pubblico di un Paese come il nostro, da tempo vittima di un'infatuazione conservatrice che sembra causare ancora problemi di accettazione e di armoniosa integrazione sociale ai soggetti LGBT. La rappresentazione dei 'gay' e dei loro amici 'strambi' (una galleria di dropouts che ricorda la combriccola de Le fate ignoranti, di cui La Dea Fortuna sembra una sorta di 'Vent'anni dopo') ricalca con mano greve tutti i consueti luoghi comuni sugli omosessuali infedeli e promiscui, che alla faccia di qualsiasi eventuale riconoscimento morale ottenuto in questi due primi decenni del nuovo secolo, ancora ostentano con fastidiosa disinvoltura la propria ‘diversità sessuale'. Raffigurare una comunità come un'accolita di individui spinti dalla necessità di dimostrare di avere con l'amore e con il sesso un rapporto identico a quello di qualsiasi eterosessuale, anzi forse addirittura più ‘liberato' e disinvolto, finisce col ghettizzarla ulteriormente né le rende un buon servizio, anche a detta di molti omosessuali che non si rispecchiano affatto nei gay fichissimi e cool dei film di Ozpetek, proprietari di case bellissime sui tetti di Roma, ma che per campare fanno gli idraulici o traducono filosofi inglesi del ‘700…

Ma non sono certo questi gli aspetti più gravi di un film che, come altri titoli del regista, specialmente i più recenti, non mostra alcuna remora nel cadere troppo spesso e volontariamente nel ridicolo. Vera o non vera che sia la leggenda della Dea Fortuna, che insegna un trucco per non dimenticare qualcuno cui si vuol bene, in bocca ai personaggi di Ozpetek suona falsa, inventata di sana pianta, e comunque pretestuosa, motivata dall'esclusivo scopo di incorniciare la storia del film in un frasario da cioccolatini, assecondando un gusto ninnolesco da mercatino natalizio. Quello che suona stonato, in un cineasta che realizza da sempre prodotti catalogabili nella categoria del melodramma popolare in confezione di lusso, è quella certa arietta supponente che suggerisce una nemmeno troppo discreta presunzione di realizzare un cinema 'd'autore', vista anche l'immediata riconoscibilità di un marchio di fabbrica inconfondibile, per giunta premiato più o meno costantemente al botteghino. Il pubblico sembra gradire, infatti, questo girare intorno a situazioni esasperate all'eccesso che mascherano un vuoto colmato di immagini enfatiche e inquadrature caricate di un pathos prefabbricato all'opposto di qualunque occasione spontanea di pianti, risate, rabbia o tenerezza, nel nome di un convinto attivismo politico in favore dell'omogenitorialità e delle famiglie allargate.

Questa volta, almeno, un aspetto godibile del film è senz'altro la prestazione di Edoardo Leo, uno dei nostri rari ‘animali da cinema', in grado con la sua rustica freschezza capitolina – supportata da una presenza fisica decisamente attraente che l'occhio omosex di Ozpetek non manca di esibire entro i limiti consentiti – di iniettare per tutto il film un siero vitale di contagiosa simpatia, riuscendo ad oscurare un pur volenteroso ma meno simpatico Stefano Accorsi. Poi c'è la grazia di Jasmine Trinca, forse un po' sottoutilizzata in un personaggio che avrebbe meritato da solo un intero film, come ha dichiarato lo stesso Ozpetek nella conferenza stampa di presentazione del film. Menzione speciale merita Barbara Alberti nel ruolo dell'anziana madre megera e crudele in Chanel e filo di perle, alla sua prima esperienza di attrice (su consiglio nientemeno che di Mina!...), in un ruolo che la cinefilia dell'autore vorrebbe riferito a qualche malvagia creatura di Hitchcock, se non direttamente alle Grandi Cattive del cinema americano degli anni '40 e '50, con il volto di Joan Crawford o Bette Davis: la Alberti sfodera con misurato disincanto una crudeltà da Regina della Notte, prima dolce e materna, poi perfido e severissimo mostro ai limiti del surreale; altrettanto pretestuosa suona del resto anche l'ambientazione del finale (niente spoiler, non preoccupatevi) su una spiaggia della Sicilia, disertata in luglio dalla minima ombra di un turista.

(La Dea Fortuna); Regia: Ferzan Ozpetek; sceneggiatura: Gianni Romoli, Silvia Ranfagni, Ferzan Ozpetek; fotografia: Gian Filippo Corticelli; montaggio: Pietro Morana; musica: Pasquale Catalano; interpreti: Stefano Accorsi, Edoardo Leo, Jasmine Trinca; produzione: Warner Bros. Entertainment, R&C Produzioni, Faros Film; distribuzione: Warner Bros. Pictures; origine: Italia, 2019; durata: 118'



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