venerdì 27 dicembre 2019

Ritratto della giovane in fiamme

A girare un film ambientato nel ‘700 incentrato sul lento, inesorabile e ineludibile amore fra due donne, una delle quali, per giunta, è una pittrice, i rischi sono davvero incalcolabili: 1) ennesimo film con riferimenti all'iconografia pittorica settecentesca (con qualità da misurarsi in gradi di distanza da Barry Lyndon) e più in generale, anche dato l'argomento, eccesso di inquadrature che ambiscono appunto a essere tableaux vivants; 2) utilizzo della musica, preferibilmente dell'epoca ma non solo ad aumentare il rilievo dato all'ambientazione di questo period film; 3) appesantimento sociologico-gender: l'amore comunque proibito in un'epoca in cui alle donne ovviamente non era consentito un amore omosessuale ma in fondo, per lo meno in certi ambienti, nemmeno quello eterosessuale, vista l'alta densità di matrimoni combinati con scarsa o addirittura inesistente consultazione (coinvolgimento) della diretta interessata.

Complessivamente va dato atto a Céline Sciamma di essere riuscita a tener testa a queste tre tipologie di rischio, soprattutto in grazia di una regia molto personale, è la regia (e la scenografia e la fotografia) e non la sceneggiatura, a nostro avviso, il valore aggiunto del film, malgrado Sciamma sia stata premiata sia a Cannes che agli European Film Awards proprio per la sceneggiatura. Anzi una serie di piccoli tagli non avrebbero guastato. A cominciare forse dal prologo, o dato il tema: dalla cornice, ovvero il fatto che tutta la vicenda venga raccontata in forma di flashback, con la necessità, a quel punto, di aggiungere anche una voice over, soprattutto per l'epilogo. Lo scopo è evidente: aggiungere un ulteriore elemento di nostalgia per l'amore perduto, ma quella nostalgia era già abbondantemente contenuta nella storia, senza bisogno che la si raddoppiasse nella cornice.

L'intreccio, visto che il film è stato presentato a Cannes sette mesi fa, dovrebbe essere a tutti chiaro. Siamo nella parte più selvaggia della penisola bretone di Quiberon (dove qualche anno fa era ambientato il film su Romy Schneider), la contessa madre, interpretata con insolita grazia da Valeria Golino, convoca una pittrice talentuosa, Marianne (Noémie Merlant), per ritrarre la figlia, la secondogenita, originariamente destinata al convento, adesso che la primogenita non c'è più, avendo probabilmente deciso di scaraventarsi dalla scogliera piuttosto che andare in sposa a un ricco milanese a lei sconosciuto. Adesso tocca a Héloise (Adèle Haenel) quel matrimonio programmato a cui sarebbe stata destinata la sorella.

Ora, se una ragazza si chiama Héloise di solito c'è poco da stare allegri: qui niente Abelardo, niente Saint Preux. Anche se Rousseau è il nume tutelare di questo film, tutto giocato com'è sulla dialettica che intercorre fra il libero dispiegamento dell'amore e degli istinti naturali (la potenza devastante della natura bretone ne costituisce il correlativo oggettivo, ma lo stesso vale anche la paganità di certi riti contadini) e le coercitive convenzioni sociali.
Il ritratto rappresenta la riproposizione di una tradizione familiare che la madre stessa, esponente di un'aristocrazia che probabilmente non naviga in ottime acque, ha subito e che decide di perpetuare e perpetrare ai danni della figlia, ai danni delle figlie: promesse de bonheur, portfolio per lo sposo milanese. E Héloise fa l'unica cosa che le resta da fare per opporsi, si sottrae alle sedute di posa, costringendo la pittrice a fingersi dama di compagnia e a spiarne i tratti del volto, sostituendo l'immaginazione alla mimesi, con risultati alla fine alquanto scarsi, anche perché – diciamolo pure – Marianne non è esattamente Vermeer.
Fin quando non avviene il punto di svolta e la modella, in apparenza solo scrutata ma in realtà altrettanto scrutante, decide di concedersi al pennello della pittrice, ciò che ben presto innesca quella dinamica di seduzione di cui si diceva all'inizio.
Anche qui, forse, il film presenta qualche lunghezza di troppo. E anche la vicenda parallela della domestica costretta a finire fra le grinfie della mamma per liberarsi di una gravidanza non voluta o non sostenibile non aggiunge un elemento particolarmente convincente al plot, se non come ulteriore variante della manipolazione della psiche e, soprattutto, dei corpi cui sono sottoposte le donne.

Ma, fatte salve queste pecche, si apprezzano una notevole serie di cose: lo splendido uso della luce, sia di quella naturale che, soprattutto di quella artificiale; lo splendido uso del sonoro con scarsissima musica solamente diegetica, con l'eccezione della meravigliosa e lunga scena finale (Sciamma ha dichiarato che il film si è articolato tutto intorno a questa scena conclusiva), con una sontuosa prova attoriale di Adèle Haenel, quando Marianne per l'ultima volta rivede Héloise, a teatro, e prende corpo la tempesta dell'Estate di Vivaldi che la pittrice aveva solo canticchiato evocando nella modella una nostalgia per qualcosa di mai ascoltato; certi estenuanti ritardi nell'uso del controcampo. Nulla da dire Céline Sciamma, e non è certo solo questo film a dimostrarlo (Tomboy del 2011, Diamante nero del 2014, oltre a varie sceneggiature, fra le quali spicca La mia vita da zucchina), è una regista di talento.

(Portrait del la jeune fille en feu); Regia: Céline Sciamma; sceneggiatura: Céline Sciamma; fotografia: Claire Mathon; montaggio: Julien Lacheray; scenografia: Thomas Grézaud;interpreti: Adele Haenel (Héloise), Noémie Merlant (Marianne), Luàna Bajrami (Sophie) Valeria Golino (la contessa); produzione: Arte France Cinema; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia 2019; durata: 119'



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