domenica 27 ottobre 2019

Torna nei teatri italiani “FILIPPO”. Intervista esclusiva all'attrice Federica Quaglieri

Torna nelle Marche e più precisamente il 21 novembre a Fano ed il 22 ad Ascoli Piceno, “Filippo” il monologo noir dedicato al femminicidio, scritto da Betta Cianchini e diretto da Walter Garibaldi.

La produzione del Teatro Marconi di Felice Della Corte è reduce da una passata stagione che, senza mezzi termini, possiamo definire trionfale. Molteplici le date effettuate, sold out e recensioni entusiasmanti da parte di critica e pubblico, hanno accompagnato il prezioso allestimento sino alla Camera dei Deputati, ove è stato rappresentato davanti alle più alte cariche dello Stato. Il lavoro della regia, attento e preciso, ha di fatto compiuto un percorso tratteggiato in simbiosi con la protagonista, lavoro certosino sempre più raro da riscontrare. Si comprende infatti, quanto il tema, delicato per sua stessa natura, stia loro a cuore e che non lo utilizzino, come semplice ricatto sociale. Walter Garibaldi, ad esempio, è anche l'autore del brano sul femminicidio “L'uso delle mani” presentato con successo su Rai1 e composto per sensibilizzare un pubblico più giovane. “Filippo” porta in scena, la superba Federica Quaglieri, attrice duttile e versatile che partendo dalle corde leggere dell'ironia, attraverso differenti stati d'animo condotti con grande naturalezza, avvia gli spettatori verso un finale tensivo ed efficace e di taglio cinematografico, impossibile da svelare.

Noi di Close Up, siamo riusciti ad intercettare Federica Quaglieri, con il desiderio di scoprirne di più.

Lo spettacolo Filippo racconta la nascita di una coppia, partendo dalla complicità. È un bene o un male essere esclusivisti di questo rapporto. E se il personaggio che interpreta si fosse confrontato prima all'interno della sua dimensione familiare, qualcuno avrebbe potuto dissuaderlo dal continuare una storia malata?

La storia che porto in scena scardina, volontariamente, tutti i “falsi credo” a cui siamo abituati. I pregiudizi. Il pensare che sia facile trovare una via di fuga. Non sempre i segni sono visibili nell'immediato. La violenza è a volte subdola, e si manifesta in modo dirompente senza preavviso. Lo spettacolo è pensato per tutte quelle persone che credono di avere le risposte in tasca. Anche il mio personaggio, oltre alla violenza fisica, subisce quella psicologica e verbale. Un mix in cui ci sente gettati in un inferno profondissimo di confusione e solitudine estrema.

La protagonista trasporta lo spettatore con sé (uomo o donna, fa lo stesso). Lo coinvolge in un turbinio di emozioni che passano dalla risata alla commozione catartica senza soluzione di continuità. Le cose più terribili nella vita ci accadono in giornate qualunque, senza preavviso. E tutto cambia. Il mio personaggio non si confronta con nessuno della sua famiglia, trova in sé la forza di reagire. L'epilogo di questa storia, però, vorrei non raccontarvelo. Vi invito a venire a vivere con me questo spettacolo. Unico, per altro, nel suo genere.

Quanto l'educazione familiare è responsabile della violenza contro le donne?

A mio avviso, l'educazione familiare è alla base di molti aspetti che riguardano l'individuo e la sua crescita personale e relazionale. Avvicinandomi al problema della violenza, mi sono resa conto che c'è un'educazione che fa ancora troppo spesso “differenze di genere” tra figli maschi, e figlie femmine. Un retaggio culturale difficile da abbattere nonostante le lotte sociali a cui, gli stessi genitori hanno preso parte, a volte. E proprio le differenze di genere, poi, possono sconfinare in violenza di genere. Perciò, sì. L'educazione familiare ha un ruolo fondamentale. La società sta cambiando velocemente e i ruoli stanno mutando. La donna, ad esempio, nell'ultimo trentennio sta occupando, lavorativamente parlando, posti che in passato erano stati appalto esclusivo del sesso maschile. Una conquista importante che, porta in sé, una grande destabilizzazione se non si provvede a trasmetterla nel modo giusto e sano, specie alle nuove generazioni.

È la debolezza a fare alzare all'uomo le mani?

Debolezza, secondo me, è un termine improprio. Parlerei più di disagio interiore che, poi, sfocia in rabbia e violenza. Le mani sono solo uno degli stadi della violenza. Esiste violenza verbale, psicologica e fisica. A volte si manifestano tutti. Altre, no. Ma sempre di violenza si tratta. Violentissima in tutte le sue forme.

È amore, quando una donna tacendo, copre di fatto le prime avvisaglie di violenze domestiche?

È molte cose, ma certamente non è amore. Il vero problema è che, a parte i casi in cui la donna tace per paura (per sé stessa, per i figli, per la propria famiglia di origine che viene esplicitamente minacciata) molte altre volte la stessa vittima scambia ciò che prova per il partner per amore. Parla, nonostante tutto, di amore. Queste sono le donne più difficili da aiutare. Vivono come in una discrasia: comprendono razionalmente che ciò che stanno subendo è terribile ma, dall'altra parte, dicono di amare l'uomo che le usa violenza. In questi casi siamo davanti ad un disagio, seppur diverso tra i sessi, ma condiviso. Possiamo pensare ai casi in cui i figli che sono vissuti in ambiti familiari in cui si consumava violenza tra le mura domestiche, tendono poi a ripetere quei comportamenti. Quello è per loro il linguaggio dell'amore. A quel tipo di rapporti sono stati abituati. Purtroppo, però, non c'è una regola. Le storie, le testimonianze, si somigliano…eppure le matrici sono diverse. Se vi fosse una sola e univoca causa scatenante, avremmo la chiave per bloccare questo orrendo flagello. Ma non l'abbiamo. Possiamo però cercare di comprendere cosa sta avvenendo, e per quanto possibile aiutare, e cercare di arginare il più possibile questa piaga.

Secondo la sua esperienza, raccolta grazie agli incontri con gli studenti che vengono a Teatro, è possibile iniziare a coltivare nelle loro menti, un nuovo pensiero? E quanto si rendono conto che il problema è reale e non una trama di una fiction?

Ogni volta che porto in scena lo spettacolo, cerco poi di avere degli incontri con i ragazzi delle superiori. Le nuove generazioni sono quelle più a rischio, ma anche quelle per le quali possiamo fare di più. Entrare in empatia con loro è difficilissimo. Sono diffidenti. Se però ciò avviene, sono in grado di aprirsi e raccontarsi in un modo coraggioso, da essere spiazzante. Si rendono perfettamente conto del problema che conoscono, purtroppo, anche per esperienze personali. Non hanno gli strumenti per affrontarlo, ed è qui che il mondo degli adulti può e deve dare il suo supporto. Nei miei incontri con i ragazzi, sono avvenuti miracoli. Queste esperienze sono per me di un'importanza fondamentale.



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