Prendre le large è un film sul coraggio femminile, sulla solitudine, sull'essere madri.
Edith è una bella donna matura, madre di un figlio adulto lontano, operaia tessile. Quando la fabbrica per cui lavora da sempre decide di delocalizzarsi in Marocco, dopo un subitaneo spesamento, decide di tentare la sorte trasferendosi. La protagonista - colta in un momento difficile della vita - compie una scelta drastica, inaspettata da tutti suoi amici, conoscenti e parenti. Al figlio neppure comunica la decisione di lasciare la Francia e andare a lavorare in Marocco. Intenzionata a comunicarglielo si reca a Parigi a sorpresa e conosce il compagno del figlio, che non l'ha neppure invitata alla cerimonia di unione civile appena avvenuta. Litigano, lei tace, sempre più convinta della decisione. Il difficile adattamento in un paese arabo così diverso dalla Francia in cui è nata e a cui era abituata si stempera - temporaneamente - grazie alla gentilezza di Mina, la proprietaria della pensione da cui ha preso alloggio. Il Marocco è un luogo complesso per una europea sola, vige l'Islam, le donne portano il velo (mentre Judith tiene i capelli biondi sciolti), lavorano subendo delle regole ingiuste e una supremazia maschile inaccettabile per una occidentale. L'ingiustizia sul campo di lavoro è qualcosa che Edith non si aspettava, a cui non aveva pensato. Persona dal carattere mite, solitaria, abituata a non chiedere niente a nessuno, Edith si trova a fronteggiare un mostro che nemmeno l'avvento del sindacato, ancora nemmeno abbozzato, potrebbe risolvere. La violenza perpetrata dagli uomini medio orientali sulle donne bianche, e sulle conterranee, si manifesta attraverso il furto della borsa da parte di un poveraccio che la segue dopo il prelievo al bancomat, attraverso la denuncia alla sorvegliante di una macchina da cucire che trasmette la corrente elettrica a colei che la usa, azione che le costerà cara. Gli imprevisti diventano un deterrente a restare nel paese scelto. Il rapporto di scambio culturale e affettivo con il figlio della proprietaria della pensione, Alì, diventa occasione di ripensamento del rapporto della protagonista col proprio figlio: Edith si accorge così della sua insensatezza nel rompere l'unico legame profondo che ha abbandonato in Francia. La storia si fa dura, realistica, senza via di uscita. La prova di attrice della Bonnaire, splendida cinquantenne, è decisiva nel far crescere una pellicola dalla storia ardita: l'attrice si cala perfettamente nel ruolo con una adesione partecipativa sua tipica (si ricorda con piacere una delle sue prime prove d'attrice, all'età di diciannove anni, con Agnès Varda in Sans toit ni loi, nei panni di una clochard all'ultimo stadio). Il paesaggio marocchino, una Tangeri in via di sviluppo, piena di cantieri, gru, polvere e cemento, gioca un ruolo primario nello stato d'animo in continuo turbinio della protagonista. I ruoli secondari, le comparse, i costumi, i luoghi come la pensione - bella nella sua semplicità col tipico chiostrino interno e le pareti colorate - sono parte integrante del tessuto in cui la donna si confronta con la realtà. Un film limpido, diretto, preciso. Una regia misurata, mai sopra le righe, aderente ai fatti. Una bella sceneggiatura - con un ruolo di donna di mezza età difficile da trovare solitamente nella cinematografia mondiale - non lascia niente al caso: la trama è disseminata qui e lì di dettagli e informazioni cruciali. Un film lodevole, nelle intenzioni e nei risultati.
(Prendre le large); Regia: Gaël Morel; sceneggiatura: Gaël Morel, Rachid O.; fotografia: David Chambille; montaggio: Catherine Schwartz; musica: Camille Rocailleux; interpreti: Sandrine Bonnaire, Mouna Fettou, Kamal El Amri, Ilian Bergala; produzione: Anthony Dncque, Miléna Poylo, Gilles Sacuto; distribuzione: Les Films de Losange; origine: Francia, 2017; durata: 103'
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