Dopo sei anni di assenza, durante i quali il Cile ha trovato in Pablo Larrain il suo cantore cinematografico più ufficiale ed efficace, torna sul grande schermo il regista Gonzalo Justiniano con Cabros de mierda, presentato alla Festa del Cinema di Roma, per raccontare ancora una volta, mescolando alla finzione della ricostruzione storica immagini del proprio archivio personale che documentano i fermenti libertari che contrastarono il sanguinario regime di Pinochet, una storia familiare fatta di emozioni vibratili e sentimenti repressi. Il missionario statunitense Samuel, arrivato in Cile per diffondere attraverso la parola di Dio quel minimo di forza morale necessaria per affrontare il quotidiano in tempi di oppressione politica, trova ospitalità presso una famiglia composta da tre donne di nome Gladys, l'anziana e saggia nonna, la giovane e sensuale ‘Francesita', segretamente coinvolta nella lotta alla dittatura, e la piccola figlioletta, nella loro baracca nella periferia di Santiago, battuta dagli emissari del regime, perfidi investigatori, e altrettanto crudeli aguzzini, solerti esecutori di una repressione sistematica e capillare di qualunque focolaio di ribellione.
Il racconto è intimo, domestico, e si sta volentieri tra le quattro mura della casa delle tre Gladys, frequentata da tanti altri personaggi sbandati e senza casa, come il bambino occhialuto con cui il missionario stabilisce uno scambievole legame di amicizia, che anima le pagine più riuscite del film. Tutte cose che il cinema, non solo quello di Larrain, ha già illustrato in passato forse con maggiore vigore poetico e più puntuale impegno politico, eppure la mano gentile e discreta di Justiniano riesce a farci affezionare a questi personaggi costretti a gestire il corso naturale delle proprie vite in condizioni tutt'altro che favorevoli alla normale espressione ed esibizione dei sentimenti più comuni che agitano l'essere umano nell'età della prima maturità e nell'acquisizione di una consapevolezza corrispondente, in questo caso, alla supina accettazione di una condanna a reprimere ogni vitalità pur di sopravvivere. Senza mai cadere nella retorica che troppo spesso infesta il cinema politico quando si lascia prendere dall'ideologia, nella rappresentazione dei soprusi e delle crudeltà che negano ogni espressione di felicità terrena in condizioni del genere, il regista cileno confeziona un film di ingenua e convincente spontaneità, almeno fino a poco prima del finale, quando forse emergono, nocivi alla fermezza e alla dignità di una denuncia così pudibonda e sofferta, toni segnati da un eccesso di didascalica e artificiosa condanna che smorzano e spengono il controllato lirismo esibito per tutta la durata del racconto.
(Cabros de mierda); Regia: Gonzalo Justiniano; sceneggiatura: Gonzalo Justiniano; fotografia: M.I. Littin-Menz; montaggio: Gonzalo Justiniano, Carolina Quevedo; musica: Miranda and Tobar; interpreti: Nathalia Aragonese, Daniel Contesse, Elías Collado, Luis Dubó; produzione: Gonzalo Justiniano; origine: Cile, 2017; durata: 124'
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